Le odi e i frammenti (Pindaro)/Le odi eginetiche/Ode Nemea III

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Ode Nemea III

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Pindaro - Le odi e i frammenti (518 a.C. / 438 a.C.)
Traduzione di Ettore Romagnoli (1927)
Ode Nemea III
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ODE NEMEA III

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La data di questa ode riesce stabilita, come già da un pezzo osservarono i commentatori, dal suo contenuto. La somiglianza della condotta, dell’ispirazione, dei pensieri e delle espressioni la collocano naturalmente accanto alle grandi odi siciliane — quelle per Ierone, Terone, Cromio. Sarà, su per giú, del 475 a. C. —

«Oh Musa — dice Pindaro — vieni ad Egina, dove, sulle rive dell’Asopo, t’aspettano i giovani che devono cantare l’inno per Aristoclide: e dàmmi ispirazione, sí che io mesca degnamente il mio inno alla loro voce: cioè possa inviare ad essi un inno degno delle loro voci (1-12).

Grato ufficio è cantare la terra dei Mirmidoni, dei quali si mostrò ora ben degno Aristoclide, con la sua vittoria, che gli fece toccare il vertice supremo, le colonne d’Eracle della felicità umana. — Accenni ai viaggi d’Eracle (13-27).

Ma non si deve adesso cantare Eracle, che non è d’Egina. Sentir cantare le lodi degli altri non è proprio un gran piacere; e in Egina abbiamo sufficiente materia di canto: Peleo, che tagliò sul Pelio l’immane lancia onde poi fu armato Achille, prese da solo Iolco, conquistò Tetide; Telamone che, insieme con Iolao, cioè con Eracle, espugnò Troia e debellò le Amazzoni; Achille, che, sin da giovinetto, compieva prodigiosi eroismi, e poi, ammaestrato da Chirone, affrontò sotto Troia i Dardani, i Lici, i Frigi, gli Etiopi (28-67). [p. 148 modifica]

Di qui la gloria degli Eàcidi, discendenti di Giove. Ed ora cantiamo Aristoclide, che ha onorato Egina e il santuario che quivi sorge ad Apollo (il Teario), cimentandosi nella prova che mostra il valore di ciascuno (67-80).

Il poeta invia ad Aristoclide l’inno, paragonandolo ad una tazza di latte temprato col miele. Veramente, soggiunge, arriva un po’ in ritardo: ma vale piú un inno di Pindaro in ritardo che quelli degli altri in tempo opportuno (80-88)». —

Le Gesta del v. 6 sono, al solito, persone; e quindi possono aver sete. L’inno è il farmaco che lenisce le percosse toccate nel pancrazio (17). Il canto è come una nave, e il cuore, l’animo del poeta, è il pilota (27-29). L’ inno è una freccia, e mèta la gara cantata (68-70). Notevole è, nel verso 80 sg., la confusione delle immagini, per cui il canto, divenuto, con metafora abituale, bevanda, pur cosí trasformato, è circonfuso dai suoni del flauto. Il concetto sul valore del sapere insito, esposto ai v. 41 sg., è il medesimo espresso, con tanto maggiore virtú plastica, nella Olimpia II verso 103 sg.; dove anche si trova il paragone con l’aquila, che qui appare al verso 83.

Nel complesso, questa ode è fra le belle di Pindaro. E qui primamente vediamo che le glorie eginetiche, pur tanto da lui magnificate, abbiano veramente accesa la fantasia di Pindaro. Qui l’idea è veramente trasformata in fantasma. La giovinezza eroica d’Achille è tra le piú meravigliose pitture della poesia d’ogni tempo.

E l’accenno alla educazione di Chirone, diretta a preparare il giovine alla fatale impresa di Troia, die’ certo ispirazione alla famosa ode del nostro Parini. [p. - modifica]


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PER ARISTOCLIDE D’EGINA

VINCITORE DEL PANCRAZIO A NEMEA


I


Strofe

O Musa divina, che madre ci sei, ne la festa
solenne di Nenie, quest’isola dorica visita
d’Egina ospital: ché su i margini
t’aspettan dell’Àsopo i giovani
artefici d’inni melliflui, bramosi d’udir la tua voce.
Han sete diversa le gesta diverse:
la gloria agonale desidera il canto,
compagno dei prodi, compagno dei serti.


Antistrofe

Concedimi or tu che mia mente gran copia n’effonda:
intòna, o tu, nata dal Sire del nubilo cielo,
un inno fulgente: ai lor canti
io mescerlo bramo, a la lira.
Travaglio è ben grato cantare la terra dov’ebbero prima
dimora i Mirmídoni, la cui possa avita
macchiare Aristòclide non volle, sé fragile
mostrando nell’urto del fiero pancrazio,

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Epodo

ma de le gravi percosse trovò salutare compenso
sui piani di Neme profondi, nell’inno che loda sua gloria.
Or, se il figliuol d’Aristòfane è bello, e s’adorna d’imprese
a sua beltà cònsone, ei tocca
il sommo fastigio di gloria. L’impervïo pelago
piú oltre solcar non è facile, di là dai pilastri d’Alcide,


II


Strofe

cui pose l’eroe, de la rotta suprema ai nocchieri
segnacolo eccelso; ed i mostri del pelago immani
uccise; e scoprí le fluenti
d’incogniti mari, e le plaghe
ignote e la via che al ritorno dirige. A che mèta straniera,
rivolgi, mio cuore, la prora? Conduci
ad Èaco e a sua stirpe la Musa. Momento
propizio è ch’esaltisi un fior di giustizia;


Antistrofe

né l’uomo sopporta le lodi degli altri. Tu in casa
ben cerca: ché nobile fregio togliesti a cantare.
Si allegra d’avite virtú
Pelèo, che divelse la lancia
immane, che solo, che privo d’esercito, Iolco espugnò,
che Teti con duro travaglio conquise.
E il saldo Telàmone, unitosi a Iòlao,
everse la rocca di Laomedonte,

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Epodo

e contro l’impeto e gli archi di bronzo il seguí delle Amazzoni;
né mai la baldanza dell’animo domava il terrore che gli uomini
prostra. Per insito pregio assai pesa un uom: chi sa cose
apprese, con torbida mente,
or questo anelando, ora quello, con pie’ malsicuro
procede ad innumere prove, con mente che nulla conclude.


III


Strofe

Fanciullo vivea ne la casa di Fílira il biondo
Achille; e compiea somme gesta di già, palleggiando
la cuspide breve de l’asta;
e in gara coi venti, ai selvaggi
leoni già dava la morte, cinghiali uccideva, e al Centauro
Croníde recava le spoglie guizzanti,
da prima a sette anni, poi sempre; ed Artèmide
e Atena l’audacia di lui sbigottirono,


Antistrofe

com’ei senza cani, né inganni di reti, cacciava
i cervi: ché al corso vincevali. Narrar dagli antichi
udii tale istoria: Chirone
nutrí nel suo tetto petroso
Giasone, ed Asclèpio, a cui l’arte dei farmachi blanda trasmise;
e nozze alla florida figliuola di Nèreo

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poi diede, il fortissimo suo figlio educò,
temprandone l’animo ad ogni virtude,


Epodo

sí che da l’impeto spinto dei venti marini, sottesse
le mura di Troia, dei Lici, dei Frigi, dei Dàrdani all’urlo,
ei s’opponesse; e le mani meschiasse fra il cozzo de l’armi
etíopi; ed in mente volgesse
disegno onde Mènnone, il loro signore, l’ardito
cognato d’Elèno, non piú tornare potesse a la patria.


IV


Strofe

Di qui degli Eàcidi il raggio da lunge risplende,
o Giove, ché sono tuo sangue. Ed è tua la gara
cui l’inno colpisce, cantando
la patria festa con voci
di giovani. E degno è Aristòclide del canto, ché a gloria questa isola
congiunse, ed insigne per fulgide cure
ei rese il Teario d’Apollo. La prova
dimostra in qual cosa ciascuno piú valga,


Antistrofe

tra i giovani il giovane, l’uomo fra gli uomini, il vecchio
tra i vecchi, ciascuno compiendo la parte che spetta
a stirpe mortale. E la vita

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insegna una quarta virtú:
pensare alle cose opportune. Né a te manca. O amico, salute!
T’invio questo miele, che rorido spuma,
temprato di candido latte, canora
bevanda, fra spiri di flauti eolî.


Epodo

Tardi. Ma rapida è l’aquila fra tutti gli alati, che scorge
da lungi, e fulminea ghermisce con l’ugne la preda cruenta:
pascono intanto a la bassa pianura gli striduli corvi.
Ed or, pel volere di Clio
dal fulgido trono, la luce ch’è premio all’ardire
che vince, per te da Epidauro brillò, da Nemèa, da Megara.