Le odi e i frammenti (Pindaro)/Le odi eginetiche/Ode Pitia VIII

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Ode Pitia VIII

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Pindaro - Le odi e i frammenti (518 a.C. / 438 a.C.)
Traduzione di Ettore Romagnoli (1927)
Ode Pitia VIII
Le odi eginetiche - Ode Nemea VI Frammenti - Epinici
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ODE PITIA VIII

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È del 446, durante il periodo, parrebbe, delle trattative di pace fra Atene e Sparta: è l’ultima in ordine cronologico, delle odi sopravvissute. Comincia con una invocazione alla Tranquillità, personificata, o, meglio, deificata. Essa ama la mitezza, ed aborre i tracotanti e chi cerca l’interesse proprio senza pensare al consenso degli altri (17-18), con la tracotanza (9). E contro i prepotenti Tranquillità è aspra, e li manda in rovina: cosí avvenne a Porfirione (il re dei Giganti) ed a Tifone, che furono sterminati dal folgore di Giove e dalle frecce d’Apollo (1-24).

D’Apollo, che adesso ha visto Aristomene tornare trionfatore da Pito. E grazie a lui arride prospera sorte ad Egina, l’isola famosa per gli eroi d’un tempo, per gli uomini d’ora. Ma lungo sarebbe annoverare tutte queste glorie (24-41).

Ed ora conviene invece, e Pindaro vuole, cantare Aristomene, che, vincendo in Olimpia e sull’Istmo, emulò lo zio Teogneto, olimpionica, e l’altro suo parente Clitomaco, istmionica. Onde conviene ripetere per lui le parole che il vate Anfiarao pronunciò nella seconda impresa contro Tebe: buon sangue non mente (41-57).

E segue, sebbene, a quanto pare, non si riferisca piú ad Aristomene, la profezia: che Alcmeone sarebbe piombato primo sulle mura di Tebe: che Adrasto avrebbe sorte felice [p. 190 modifica] nella battaglia, ma ricondurrebbe a casa cadavere il figlio Egialeo (57-72).

Ed Alcmeone è vicino di Pindaro e suo tesoriere. Cioè la casa di Pindaro è vicina ad un santuario di Alcmeone, dove il poeta ha depositato ogni suo bene. E mentre Pindaro si avviava a Pito, cioè si accingeva a cantare Aristomene, Alcmeone gli predisse che il giovine vincitore avrebbe avuto un avvenire anche piú glorioso (72-78).

E Febo, maestro dell’arte profetica, ha concesso ad Aristomene una vittoria a Pito, e un’altra già glie ne aveva accordata ad Egina. Adesso conceda ispirazione a Pindaro, ed esaudisca i suoi voti per la famiglia di Senarco (79-94).

Gli sciocchi ammirano chi con poca fatica guadagna la fortuna, e attribuiscono a sua saggezza il buon esito. Ma l’esito d’ogni cosa, buono o cattivo, lo determinano i Numi. Questi concessero ad Aristomene tre vittorie (95-105). E mentre i fanciulli vinti da lui tornarono a casa pieni di vergogna, egli, per il suo successo, schiude le ali a piú grandi speranze (106-120).

La fortuna presto cresce, presto sparisce. Gli uomini vivono un giorno. Ma se un Nume piove su loro la sua luce, godono celebrità e vita beata.

Preghiera ad Egina, la Ninfa protettrice, perché conceda agevole corso (come ad una nave) all’isola che da lei prende il nome.

— Il lucro, al solito è personificato (17): e, quindi, semovente, e può abbandonare spontaneamente un luogo od esserne tratto fuori a forza. — L’agone (21 sg.) vien considerato come il giuoco dei dadi: nel quale ogni punto aveva un nome: il massimo era detto delle Càriti. E appunto questo numero, dice Pindaro, ha estratto Igina in questo agone. — La gesta di Aristomene è anch’essa fatta persona; e si posa ai piedi del poeta (41). — La fortuna è una pianta (120): germoglia [p. 191 modifica] prima, poi perde le foglie vizze, se la scrolla un vento contrario.

Artificiale e meccanico è il trapasso dal gruppo 1-24 al 24 sg. E usati e abusati da Pindaro gli atteggiamenti al v. 37-50.

Il gruppo, appena accennato, dei giovani che ritornano vinti, è di evidenza plastica meravigliosa. L’ultima meditazione, col famoso: σκιᾶς ὄναρ ἄνθρωπος, tanto ripetuto dai Greci, e riecheggiato dalla poesia moderna, conclude con melodia triste soavissima la sopravvissuta opera di Piindaro.


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PER ARISTOMENE D’EGINA

VINCITORE NELLA LOTTA A PITO


I


Strofe

Tranquillità, di Giustizia
figlia, che floridi i regni
rendi, che tieni le somme
chiavi di guerre e consigli,
gradisci l’onore che in Pito,
vincendo alla gara, ti fece Aristòmene.
Ogni opera mite tu compi
del pari, e gradisci,
se giunge opportuno, l’evento.


Antistrofe

Ma se la collera amara
figgesi alcuno nell’anima,
contro la forza dei tristi
aspra ti levi; e sprofondi
Superbia nei gorghi del pelago.
Non te Porfiríone, che in onta a Giustizia
ardí provocarti, conobbe.
Gratissimo è lucro
quand’esce da cose spontanee;

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Epodo

ma pure i superbi, alla fine, guidò Tracotanza a rovina.
Né seppe sfuggirla il cilicio
Tifon centocipite,
né il re dei Giganti;
e furon domati dal folgore,
dai dardi d’Apollo, che adesso benigno
mirò di Senarco il figliuolo da Cirra tornare, recinto
di fronda parnasia, di doria canzone.


II


Strofe

L’isola madre di leggi,
cadde, nel giuoco di sorte,
grazie al valor degli Eàcidi,
presso alle Càriti: e celebre
sua fama è da tempi remoti:
ché molti ripeton nei carmi com’ella
fu madre d’eroi, vincitori
famosi di ludi,
e saldi al furor delle zuffe.


Antistrofe

Anche per uomini è insigne.
Ma non posso io tutti i lunghi
vanti affidare a le molli
voci e a le tinnule lire;

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ché tedio aduggiare potrebbe
le menti. Ma quello che ai pie’ mi si para,
ma l’ultima gesta, o fanciullo,
io voglio, a tuo premio,
su l’ali del canto levarla.


Epodo

Ché tu del german di tua madre Teògneto segui le tracce:
né lui svergognasti in Olimpia,
né macchi su l’Istmo
Clitòmaco forte;
ma onore facesti alla patria
dei figli di Mídilo. E a te la fatidica
sentenza s’addice che il figlio d’Iclèo pronunciava, veggendo
sottesse le mura di Tebe i suoi figli,


III


Strofe

quando gli epígoni vennero
d’Argo a la gesta seconda.
Disse, mentre essi pugnavano:
«L’insito nobile ardire
rifulge dai padri nei figli.
Io veggo Alcmeóne, scotendo sul clipeo
lucente un dragon maculato,
primiero lo veggo
piombar su le mura di Tebe.

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Antistrofe

E piú felice presagio
cinge chi tante alla prima
gesta patí pene, Adrasto
prode. Ma sorte contraria
in casa egli avrà: poi che solo
frai i Dànai guerrieri, raccolte le ceneri
del morto suo figlio, per fato
dei Numi, ritorno
farà con incolumi schiere


Epodo


d’Abanto a le belle contrade». Suonarono d’Anfïarào
cosí le parole. Ed anch’io,
ben lieto, ricopro
di serti Alcmeóne,
con l’inno lo allegro: ch’è mio
vicino, e custode di quanto io posseggo.
Mentre io l’umbilico sonoro del mondo cercavo, m’apparve,
e a me schiuse gl’insiti profetici doni.


IV


Strofe

Febo, che lunge saetti,
che ne le valli di Pito
abiti il tempio ospitale,
ora di gloria Aristòmene

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copristi: e già pria, ne la patria
il premio del pèntatlo conteso gli desti,
mercè de le nostre preghiere.
Adesso, o Signore,
con voto spontaneo ti prego,


Antisirofe

regga il tuo spirito armonico
tutto ch’io tenti ne l’arte.
Dice con schiere e con canti
dolci lo assiste. Lo sguardo
dei Numi immortali, o Senarco,
invoco a le vostre fortune. Se alcuno
conquista gran beni con poco
travaglio, sapiente
al volgo parrà degli sciocchi,


Epodo

e ch’abbia saputo di scaltre difese munir la sua vita.
Ma tanto non può sapïenza
d’effimeri: è dono
del Nume, che questo
solleva, quel prostra. Conserva
misura. Compenso ti diede Megara,
tel die’ Maratona nel piano, e d’Era l’agone in Egina:
tre premi, Aristòmene, con l’opra vincesti.

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V


Strofe

E sopra quattro piombasti
corpi, e incombesti feroce.
Né, come a te, concedeva
Pito giocondo ritorno
ad essi; né giunti alle madri,
un riso di gioia soave li cinse:
per tramiti obliqui van trepidi,
schivando gli ostili,
feriti da sorte nemica.


Antistrofe

Ma quei che ottiene novella
gloria sovressa l’usata
prosperità, da l’eccelsa
speme dispiccasi a volo
su alate virtú, fiso a un bene
migliore dell’oro. Fortuna per gli uomini
in breve germoglia; e del pari,
se avverso volere
la scrolla, sfiorita al suol cade.


Epodo

Progenie d’un giorno! Che cosa noi siamo? Che cosa non siamo?
È sogno d’un ombra il mortale.

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Ma pure, se luce
gli piove dal Nume,
fulgore con vita soave
lo irradiano. O Egina, tu madre diletta.
il corso a quest’isola agevola, con Giove, col buon Telamóne,
con Peleo, con Èaco possente ed Achille.