Le avventure di Pinocchio (1892)/Capitolo 10
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X.
Quando Pinocchio entrò nel teatrino delle marionette, accadde un fatto che destò mezza rivoluzione.
Bisogna sapere che il sipario era tirato su e la commedia era già incominciata.
Sulla scena si vedevano Arlecchino e Pulcinella, che bisticciavano fra di loro e, secondo il solito, minacciavano da un momento all’altro di scambiarsi un carico di schiaffi e di bastonate.
La platea, tutta attenta, si mandava a male dalle grandi risate, nel sentire il battibecco di quei due burattini, che gestivano e si trattavano d’ogni vitupero con tanta verità, come se fossero proprio due animali ragionevoli e due persone di questo mondo.
Quando all’improvviso, che è che non è, Arlecchino smette di recitare, e voltandosi verso il pubblico e accennando colla mano qualcuno in fondo alla platea, comincia a urlare in tono drammatico:
— Numi del firmamento! sogno o son desto? Eppure quello laggiù è Pinocchio!...
— È Pinocchio davvero! — grida Pulcinella.
— È proprio lui! — strilla la signora Rosaura, facendo capolino di fondo alla scena.
— È Pinocchio! è Pinocchio! — urlano in coro tutti i burattini, uscendo a salti fuori delle quinte. — È Pinocchio! È il nostro fratello Pinocchio! Evviva Pinocchio!...
— Pinocchio, vieni quassù da me, — grida Arlecchino — vieni a gettarti fra le braccia dei tuoi fratelli di legno! —
A questo affettuoso invito, Pinocchio spicca un salto, e di fondo alla platea va nei posti distinti; poi con un altro salto, dai posti distinti monta sulla testa del direttore d’orchestra, e di lì schizza sul palcoscenico.
È impossibile figurarsi gli abbracciamenti, gli strizzoni di collo, i pizzicotti dell’amicizia e le zuccate della vera e sincera fratellanza, che Pinocchio ricevè in mezzo a tanto arruffìo dagli attori e dalle attrici di quella compagnia drammatico-vegetale.
Questo spettacolo era commovente, non c’è che dire: ma il pubblico della platea, vedendo che la commedia non andava più avanti, s’impazientì e prese a gridare:
— Vogliamo la commedia! vogliamo la commedia! —
Tutto fiato buttato via, perchè i burattini, invece di continuare la recita, raddoppiarono il chiasso e le grida, e, postosi Pinocchio sulle spalle, se lo portarono in trionfo davanti ai lumi della ribalta.
Allora uscì fuori il burattinaio, un omone così brutto, che metteva paura soltanto a guardarlo. Aveva una barbaccia nera come uno scarabocchio d’inchiostro, e
tanto lunga, che gli scendeva dal mento fino a terra: basta dire che, quando camminava, se la pestava coi piedi. La sua bocca era larga come un forno, i suoi occhi parevano due lanterne di vetro rosso, col lume acceso di dietro; e con le mani schioccava una grossa
frusta, fatta di serpenti e di code di volpe attorcigliate insieme.
All’apparizione inaspettata del burattinaio, ammutolirono tutti: nessuno fiatò più. Si sarebbe sentito volare una mosca. Quei poveri burattini, maschi e femmine, tremavano tutti come tante foglie.
— Perchè sei venuto a mettere lo scompiglio nel mio teatro? — domandò il burattinaio a Pinocchio, con un vocione d’Orco gravemente infreddato di testa.
— La creda, illustrissimo, che la colpa non è stata mia!...
— Basta così! Stasera faremo i nostri conti. —
Difatti, finita la recita della commedia, il burattinaio andò in cucina, dov’egli s’era preparato per cena un bel montone, che girava lentamente infilato nello spiede. E perchè gli mancavano le legna per finirlo di cuocere e di rosolare, chiamò Arlecchino e Pulcinella e disse loro:
— Portatemi di qua quel burattino, che troverete attaccato al chiodo. Mi pare un burattino fatto di un legname molto asciutto, e sono sicuro che a buttarlo sul fuoco, mi darà una bellissima fiammata all’arrosto. —
Arlecchino e Pulcinella da principio esitarono; ma impauriti da un’occhiataccia del loro padrone, obbedirono: e dopo poco tornarono in cucina, portando sulle braccia il povero Pinocchio, il quale, divincolandosi come un’anguilla fuori dell’acqua, strillava disperatamente:
— Babbo mio, salvatemi! Non voglio morire, no, non voglio morire!...