Le avventure di Saffo/Libro II/Capitolo V
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CAPITOLO V.
La fuga notturna.
Ella è per certo grandissima infelicità quella di un animo perturbato dalle cure amorose, perchè non possono giovare alla insanabile infermità i più consueti rimedj della filosofia, debitamente chiamata medicina della mente. E quantunque sia così efficace l’uso de’ filosofici trattenimenti, che veggiamo come ciascuna setta, convinta delle proprie opinioni, conformi tutta la vita alle medesime, e soffrirebbe piuttosto povertà e vilipendj per la libertà dell’intelletto, che accettare gli onori e le ricchezze sottomettendolo a straniere dottrine; nondimeno la filosofia perde negli amorosi delirj la venerabile sua dignità, riducendo anzi a puerili costumi la grave vecchiezza, e ad opere imbecilli infino gli stessi Eroi, e Semidei, come di Ercole, e poi di Achille è avvenuto. Non è pertanto maraviglia, se anche una fanciulla deviasse per amoroso delirio dall’ordinato corso della vita, ricercando sino gli straordinarj, e dubbiosi soccorsi delle divinazioni. Giunta adunque al domestico albergo, vi ritrovò nuova cagione di angoscia, perchè intese da Scamandronimo, che Faone era partito verso la Sicilia per faccende mercantili, terminate le quali, avea già data la fede di celebrare le nozze a Cleonice, siccome era anche manifesto dalle disposizioni, che si facevano nella di lui casa per il prossimo imeneo. Quindi Scamandronimo la esortava, ognor più con paterna benevolenza, a cacciare dall’animo chi dal di lei, quantunque ardentissimo fuoco, non era intiepidito, ed a rivolgere gli affetti ad altro cuore che più debitamente a loro corrispondesse. Ma secondo la infelice proprietà del vero amore, non aveva libertà, nè il di lei intelletto di gustare ragionevoli conforti, nè il di lei cuore di amare altr’oggetto, che colui, il quale ne aveva l’assoluto dominio. Prima ascoltava le amichevoli esortazioni con profondo silenzio, e poi diffusamente sciolse in parole l’invincibile affanno; avvegnachè sono facondi que’ ragionamenti e sono disordinati, i quali scaturiscono dalla sorgente del cuore, laddove sono brevi e concettosi quelli che derivano dall’intelletto. L’affettuoso colloquio si era prolungato, finchè la radiante luna in mezzo al suo corso persuadeva il sonno; ma l’amorosa angoscia teneva desta la fanciulla, e il paterno affetto tratteneva Scamandronimo. Al fine, dopo mesta e taciturna cena, ciascuno si ritirò a i separati alberghi con lieti auspicj di placido sonno. Ma tu per certo non ne gusterai, misera fanciulla, nel cuore di cui è aggiunta alle antecedenti, così acerba ferita. Imperocchè il vedere talvolta l’amato oggetto, il non ancora stabilito e certo imeneo, potevano mantenere in lei qualche lusinga, ora del tutto spenta. E però divenuto il cuore totalmente ribelle all’imperio dell’intelletto, seco medesima deliberò disperato pensiero. Ella avea nel suo precedente discorso, fra molti delirj, proposto anche quello, che le permettesse Scamandronimo d’inseguire Faone; al quale progetto, siccome vaniloquio febbrile, si era il padre efficacemente opposto non senza autorevoli disapprovazioni. Ond’ella veggendo l’inutilità delle preghiere, ed il di lui animo propenso a i disordinati desiderj, nascose, contro la sua consueta ingenuità, la confabulazione dell’antro, e l’oscuro oracolo del rimedio di Leucate. E siccome è proprio il raffrenare le parole, quando l’animo è deliberato alle opere, così ella ridotta nel suo albergo colla fedele Rodope, disse: Non v’è rimedio, se non la fuga; poi tacque, sedendo colla fronte appoggiata alle mani. Quindi sorgendo, come decisa nella sua opinione dopo dubbiosi pensieri, raccolse quanto danaro le avea somministrato la paterna liberalità per ornarsi splendidamente, ed acquistare la benevolenza con frequenti doni, e più ancora, dacchè ella era d’animo perturbato, affine di confortarla con segni generosi di affetto. La quale non ordinaria quantità di oro e di argento ella radunò colle armille, colle collane, e colle fasce ornate di gemme. Rodope in vano si sforzava di trattenerla, onde piuttostochè abbandonarla in così disperato momento, e stanca d’ogni esortazione, fatto parimenti cumulo de’ proprj arredi, ordinando a Clito, servo specialmente addetto a Saffo, di seguirle come se fosse partenza già nota a i genitori, destò un cocchiere che dormiva nell’atrio. Egli da prima per la tenacità del sonno, siccome ora intempestiva, non comprese ciò che si richiedesse da lui, ma finalmente riconoscendo la figlia del suo signore, che gli comandava di annodare immantinenti al timone due destrieri, con sommesso atto si pose al richiesto ufficio.
Era la notte, e risplendeva negli atrj il raggio della luna, se non che talvolta la ricopriva leggiera nube, che spinta dall’aura sull’argenteo volto spandeva tenebre fuggitive nel terreno sottoposto. Fu quel lume sufficiente senza le faci ad eseguire il furtivo disegno. Ma perchè l’orme ferrate de’ vivaci destrieri, e il rotolar del cocchio non empisse gli atri di romore, fu primamente tratto il carro con lenta diligenza nel prossimo giardino, spingendolo colle mani a un tardo moto, e quindi furono a quello condotti i destrieri, persuadendo al servo ed al cocchiere, che queste precauzioni non erano ad altro fine, che per non turbare il placido sonno della famiglia. Ed in appresso fu legata l’arca fra le rote posteriori, nella quale erano gli arredi; salì sul sedile l’esperto condottiere, e dietro a lui il servo, e quindi flagellando ed esclamando colla nota voce, partì il cocchio, lasciando nelle spaziose, ed amene vie del piacevole giardino, le ingrate orme della ignominiosa fuga. Te infelice Scamandronimo, che ora placidamente giaci, ma che risorgendo a respirare nel giardino le fresche aure dell’aurora, leggerai in que’ solchi impressi dalle volubili rote, la disperata fuga della tua, ancora più di te, sventurata figlia!