Le caverne dei diamanti/11. La festa della strega

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11. La festa della strega

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11.

LA FESTA DELLA STREGA


Avevamo appena terminata la nostra triste cena, quando vedemmo entrare Infadou. Il vecchio capo mi parve assai preoccupato, ed attribuii ciò alle minacciose parole che il re ci aveva dirette poco prima.

Per accertarmene, mi rivolsi a lui, dicendogli a bruciapelo:

— Voi avete un re che non mi sembra degno di governare un popolo così numeroso come il vostro. Io sono certo che dai suoi sudditi non deve essere amato. Cosa ne dite voi?

Il capo mi guardò per alcuni istanti, in silenzio, poi disse:

— Voi avete ragione; egli è un uomo crudele e da lungo tempo tiranneggia il suo popolo. Per lui non vi è differenza fra i più grandi capi ed i più miserabili schiavi, e tanto gli uni come gli altri tratta come fossero non persone ma bestie, ed il paese intero geme sotto le sue mani implacabili. Se volete avere una prova della sua efferatezza venite questa sera alla festa della strega e vi persuaderete del modo crudele con cui tratta la popolazione del regno.

— Ebbene — diss'io. — E perché tollerate un simile tiranno? Ribellatevi e privatelo del potere supremo.

— Ma, mio signore, ignorate voi che Seragga è l'erede legittimo? Il cuore del figlio è più crudele ancora di quello del padre; quindi che governi l'uno o l'altro il popolo non ha nulla di buono da sperare. Oh! Se il figlio d'Imotu vivesse ancora!

Umbopa che si era lentamente avvicinato e che ascoltava con viva attenzione le nostre parole, disse bruscamente:

— Chi vi assicura che il giovine Ignosi sia morto? Ditemi, se fosse vivo, credete che potrebbe riprendere il suo posto?

Infadou guardò Umbopa con occhio torbido, dicendogli con voce severa:

— Chi sei tu e chi ti ha dato il permesso d'interrompere i tuoi superiori?

— Ascoltami, capo, — disse Umbopa senza prendersela a male di quelle osservazioni; — tu credi che Ignosi sia morto ed io invece ti dico che egli vive.

Il vecchio capo lo guardò con profondo stupore per alcuni istanti, senza essere capace di parlare, poi facendo uno sforzo gli disse, con voce irata:

— Non è possibile! Tu menti!

— Ed io vi dico che la madre di Ignosi non è morta nel deserto, come si crede.

— Chi te lo disse?

— Lo saprete più tardi. Vi dirò intanto che quand'ella lasciò il kraal inospitaliero e scese nella pianura, s'incontrò con alcuni cacciatori i quali la condussero seco loro nel paese degli zulù. Colà poté allevare senza tema il figlio; insegnargli la storia del suo paese e fargli apprendere il motivo della sua fuga non solo, ma anche fargli balenare la speranza che un giorno potesse risalire sul trono di suo padre. Cresciuto forte e gagliardo, Ignosi emigrò nei paesi dei bianchi in attesa dell'occasione propizia per tornare al paese natio e detronizzare l'usurpatore.

— Ma come sai tutto ciò? — chiese Infadou, il cui stupore non aveva più limiti.

— Guardatemi bene in viso: io sono Ignosi! — rispose semplicemente il nostro servo.

— Tu! — esclamò il vecchio capo guardando Umbopa con aria incredula.

— Io — rispose Umbopa con voce ferma, senza abbassare gli occhi sotto gli sguardi acuti di Infadou.

— Dammi una sola prova se vuoi ch'io ti creda.

— Conosci il segno sacro che portano impresso, attorno i fianchi, i principi ereditari della nostra nazione?

— Sì.

— Cos'è?

— Un serpente azzurro tatuato tutto intorno al corpo.

— Ebbene: guarda.

Così dicendo Umbopa aveva lasciato cadere rapidamente il gonnellino che gli stringeva i fianchi, mostrando un tatuaggio azzurro che raffigurava un serpente.

— Credi ora a quanto t'ho detto?

Infadou esaminò attentamente quel segno che cingeva le reni del nostro uomo, poi cadde in ginocchio dinanzi a lui, dicendo con voce tremante:

— Sì, io riconosco il serpente sacro che viene disegnato ai figli eredi del trono. O Ignosi, sei tu il mio re.

— Ebbene, zio mio — riprese Umbopa. — Mi aiuterai a riacquistare il trono di mio padre?

Il vecchio capo rimase silenzioso.

— Perché esiti, zio mio? — chiese Umbopa. — Ignori forse che la tua vita è nelle mani del re e che domani potresti perdere la testa sotto il coltello dei suoi carnefici?

— È vero — rispose il capo.

— Allora cosa sarebbe di Ignosi privo del tuo appoggio? Se io devo riconquistare il trono di mio padre è necessario agire presto onde allontanare da noi i menomi sospetti. Quando dovessi diventare re di questo popolo, io ti prometto di serbare a te i più grandi onori e di concederti il miglior posto alla corte reale.

— Io non esito più, Ignosi — disse finalmente il vecchio capo. — Io sono tuo e pronto a combattere per la tua causa.

Allora Ignosi volgendosi verso di noi, ci disse con una certa nobiltà:

— E voi, miei cari capi bianchi, miei amici, mi presterete il vostro aiuto, voi che avete le braccia sì possenti? Io nulla posso per ora offrirvi in ricompensa, ma se potrò giungere al potere non avrete che da manifestare i vostri desideri.

— Quanto a me, — disse il genovese, — non ho bisogno di alcuna ricompensa perché gl'italiani non sono abituati a vendere i loro aiuti; desidererei però che tu m'aiutassi a ritrovare il mio povero fratello.

— Contate su di me, signore.

— E tu conta sul mio fucile. Io sarei ben contento di trattare quel manigoldo di re come si merita e rendere felice questo povero popolo.

— Grazie, signore.

Quindi Ignosi guardandomi in volto, mi disse:

— E tu mi seconderai sempre coi tuoi consigli?

— Di questo puoi essere certo, — risposi io, — ma mi sembra che non sia il caso di vendere la pelle dell'orso prima d'averlo ucciso.

— Vedrete che col soccorso di mio zio io salirò sul trono di mio padre.

— In tal caso sii certo ch'io non t'abbandonerò.

— Grazie — mi rispose Ignosi. — E cosa dovrò fare per te?

— Il signor Falcone ha parlato per suo conto e rifiuta qualunque ricompensa perché è ricco; ma io sono un povero diavolo, ed accetterò tutto ciò che vorrai offrirmi.

— Cosa chiederesti? Parla e tu l'avrai.

— lo so che in questo paese vi sono molti diamanti dei quali voi non sapete trarre alcun profitto.

— È vero; per noi le pietre brillanti non hanno alcun valore.

— Ebbene, dammi di quei diamanti.

— Ti prometto di regalarti tutti quelli che si troveranno nel regno.

— Ma, miei amici, — ci interruppe Good, — tutto ciò è bellissimo, ma come farai tu, Umbopa, a rivendicare i tuoi diritti?

— Che cosa mi consiglia di fare mio zio? — chiese Ignosi, rivolgendosi al vecchio capo.

— Attendiamo questa notte — disse Infadou.

— Che cosa ha intenzione di fare? — gli chiese il signor Falcone.

— Di promuovere un'improvvisa rivolta subito dopo il massacro che seguirà la festa. Io andrò a parlare ad alcuni capi miei amici, li metterò al corrente degli avvenimenti e raccoglieremo tante truppe, da schiacciare in un colpo solo i partigiani del re. Intanto tenetevi tranquilli e prendete un po' di riposo.

Infadou stava per lasciarci, quando comparvero alcuni messaggeri reali portando a noi tre splendide cotte d'acciaio somiglianti a quelle che avevamo vedute indossare dai principi, quindi delle spade e delle lance magnifiche.

— Chi ha fabbricato queste armature? — chiesi io ad Infadou, quando i messi reali se ne furono andati.

— Io lo ignoro; so però che i nostri vecchi principi ne facevano uso. Il re ne possiede alcune, ma non le adopera che lui solo per difendersi contro le spade e le lance dei nemici.

— E perché le ha mandate a noi?

— Io non lo so; ciò forse dimostra che egli vi tiene in grande conto. Indossate queste vestimenta magiche e sarete sicuri contro qualunque colpo di lancia e di spada.

Noi seguimmo il consiglio del vecchio capo ed indossammo quelle solide cotte, quindi ci sedemmo fuori della capanna, impazienti di conoscere il seguito delle nostre strane avventure.

La luna stava sorgendo dietro alle alte montagne, rischiarando la grande pianura come in pieno giorno, quando alcuni messi reali vennero a prenderci per condurci alla festa della strega Gagoul.

Il recinto delle capanne reali, come la prima volta, era occupato da un numero enorme di guerrieri in assetto di combattimento. Le loro armi scintillavano vivamente sotto i pallidi raggi della luna e le loro lunghe piume ondeggiavano alla fresca brezza notturna.

Noi attraversammo i loro lunghi ranghi silenziosi ed immobili, ed andammo a sederci al posto assegnatoci, il quale si trovava dinanzi alla capanna reale.

Il re non si fece attendere a lungo. Egli indossava come noi una cotta d'acciaio scintillante, e portava sul capo un cerchio d'oro adorno di grandi piume di struzzo; in mano poi teneva un bastone forcuto.

Seragga, il principe ereditario, e la strega Gagoul, lo seguivano.

— Sono contento che voi siate venuti, o uomini bianchi — ci diss'egli con voce giuliva. — Io vi mostrerò uno spettacolo che mai avrete veduto nei vostri paesi. M'affretto a dare il segnale, poichè le ore saranno troppo brevi per la grande festa notturna.

— Troppo brevi! Troppo brevi! — disse la vecchia strega con voce gutturale.

Si alzò tenendo in mano una forca simile a quella che impugnava il re e mandò un lungo grido stridente.

Tosto una cinquantina di vecchie negre, le più orribili che si possano immaginare, sorsero come per incanto fra i ranghi dei guerrieri e formato dinanzi al re un grande cerchio si misero a danzare vertiginosamente, al suono d'un istrumento formato da parecchie pietre sonore, e di certi tamburi fatti con tronchi d'albero vuoti e ricoperti di pelle.

Saltavano come furie infernali, eseguendo delle pantomime impossibili a descriversi, mentre dei canti gravi e monotoni si alzavano fra le numerose orde dei guerrieri.

Tutto d'un tratto quelle vecchie megere si afferrarono per mano e si scagliarono, come un torrente impetuoso, fra le file dei soldati, i quali, quantunque fossero armati, si affrettavano a retrocedere come se avessero paura di venire toccati.

Quei disgraziati non avevano torto, poichè ogni uomo che veniva toccato, veniva tosto preso dai suoi compagni, trascinato dinanzi al re e consegnato ad alcuni carnefici i quali s'affrettavano a decapitarlo a colpi di coltellaccio.

Potete immaginarvi il nostro terrore a quelle orribili scene di sangue! Lo spavento che invadeva i guerrieri invadeva pure noi, e cominciavamo a tremare per la nostra vita.

— Fuggiamo — disse Good. — Questo spettacolo mi fa nausea.

— È impossibile — risposi io. — Il re potrebbe prendersela a male e scagliarci contro quelle furie ed i suoi carnefici.

— Ma io non posso resistere a tante infamie.

— La prudenza ci insegna a non muoverci di qui.

— E se quelle orribili megere venissero verso di noi?

— Abbiamo le armi e le respingeremo.

Mentre discorrevamo, le sanguinarie vecchie continuavano a correre attraverso i ranghi dei soldati, scegliendo le loro vittime ed i carnefici del re continuavano ad accumulare teste.

Ad un tratto quello che Good temeva, avvenne. Le vecchie, dopo essere passate attraverso a due ranghi di guerrieri, si diressero correndo verso di noi. Facevano paura a vederle: avevano i capelli arruffati, gli occhi scintillanti come carboni ardenti e la spuma alle labbra.

Vedendole avvicinarsi, noi ci stringemmo gli uni contro gli altri, preparandoci a difendere estremamente le nostre vite.

Quando giunsero a pochi passi da noi, una di esse si staccò dal gruppo e s'avanzò toccando con un bastone forcuto Umbopa.

— Noi vogliamo vedere il sangue che scorre nelle tue vene!... — gridò la megera, con voce strillante. — Io ti conosco: tu vieni da lontano ma sei nato qui; le jene domandano il tuo carcame e noi il tuo sangue!...

Subito due guerrieri si slanciarono verso Umbopa per afferrarlo, ma noi ci gettammo dinanzi a lui, mentre io puntavo il mio fucile verso il re, gridando:

— Re Touala, fa' ritirare le tue streghe ed i tuoi soldati, poichè non ti lasceremo il nostro servo senza difenderlo. La sua vita costerà anche la tua.

Intanto il signor Falcone aveva preso di mira Seragga e Good la vecchia Gagoul. Tutti e tre eravamo pronti a fare fuoco se non si ubbidiva prontamente.

Il re, visibilmente spaventato, si era alzato, dicendoci con voce alterata:

— Abbassate i vostri tubi fiammeggianti: Gagoul è saggia e le sue parole predicano delle grandi disgrazie. Io dovrei obbedire ai suoi desideri, ma non tradirò le leggi dell'ospitalità e non permetterò che venga torto un solo capello al vostro servo.

Ciò detto si volse, fece segno ai guerrieri, che si erano collocati dietro di noi, per obbedire forse a degli ordini segreti, di ritirarsi, quindi riprese:

— Se lo desiderate, tornare alla vostra capanna, non avendo ancora deciso sulla vostra sorte. Vi avverto però che nell'ora in cui il sole sarà egualmente lontano dall'aurora e dal tramonto, avrà luogo la danza delle giovani donne e che per allora io avrò riflettuto su quanto dovrò fare. Intanto andate a riposarvi.

Rispondemmo al suo saluto e ci affrettammo a lasciare il recinto col cuore angosciato dall'orrore.

— Per centomila leoni!... — esclamò il signor Falcone, quando fummo fuori dal kraal reale. — Non era possibile immaginare uno spettacolo più atroce di quello che abbiamo veduto questa sera.

— Siamo stati stupidi a non bruciare un po' di polvere sotto il naso di quelle canaglie — disse Good.

— Sarebbe stata una pazzia che avremmo pagata ben cara — risposi io. — Cosa avreste voluto fare con tre soli fucili contro tanti guerrieri armati? Dopo i primi spari ci avrebbero fatti a pezzi.

— È vero; ci avrebbero voluti alcuni pezzi d'artiglieria.

— Ed un reggimento di fucilieri.

— Però anche senza cannoni e senza fucili abbiamo ottenuto il nostro scopo — disse il genovese.

— Avete ragione — rispose Good. — Io credevo davvero che pel nostro povero Umbopa la fosse finita.

— E che il suo trono andasse all'aria per sempre — aggiunse l'italiano. — Mio caro Ignosi, puoi vantarti di averla scampata bella.

— Lo so, signori bianchi, — rispose il nostro ex-servo, — e vi assicuro che Ignosi non dimenticherà mai di dovervi la vita.

Quando giungemmo alla capanna il sole stava per alzarsi. Visitammo accuratamente il recinto per tema che vi fosse nascosto qualche sicario della strega Gagoul, poi, essendo tutti stanchissimi, ci sdraiammo sui nostri giacigli, cercando di dormire, senza speranza però di riuscirvi.

Le paure e l'orrore provato durante quella notte ci avevano così scombussolati, da non essere capaci di chiudere gli occhi un solo istante.

Potevano essere le nove o le dieci, quando vedemmo entrare Infadou seguìto da alcuni capi suoi amici, che avevano abbracciato o che almeno avevano l'intenzione di appoggiare la causa d'Ignosi.

Il nostro ex-servo li ricevette con una dignità veramente reale e narrò loro succintamente i diversi accidenti della sua vita, per provare che egli fosse veramente il figlio dell'assassinato re; quindi per meglio persuaderli mostrò loro il tatuaggio che egli era stato fatto attorno alle reni.

I capi lo ascoltarono in silenzio ma non parvero del tutto persuasi di quanto avevano udito.

— Dateci un segno che ci dimostri che voi siete veramente l'erede legittimo del trono e noi vi aiuteremo a rovesciare Touala — dissero finalmente.

— Non vi basta il tatuaggio? — chiesi io, intervenendo.

— No, signor bianco, non basta — mi risposero.

— Cosa volete adunque?

— Una prova che ci dimostri essere egli veramente protetto dagli spiriti e da voi.

— Ma quel serpente azzurro dovrebbe bastare per indicarvi essere egli veramente il sangue reale.

— È vero, ma voi non ci avete ancora detto se lo proteggete.

— Siamo pronti a dimostrarvelo.

— E come?

— Ditecelo voi in qual modo.

— Dateci un segno manifesto della vostra potenza a suo riguardo.

Noi eravamo in grande imbarazzo, non sapendo davvero cosa pretendessero quei negri cocciuti. Ciascuno di noi ruminava nel proprio cervello per trovare una soluzione, quando Good disse tutto ad un tratto:

— Ho trovato!... Oh! I capi saranno soddisfatti e fors'anche tremeranno.

— Che cosa volete dire? — gli chiedemmo.

— Che noi daremo a loro un segno ben chiaro della nostra potenza. Figuratevi che ce lo darà il sole.

— Spiegatevi Good.

— Questa mattina, osservando il mio piccolo calendario che ho portato con me, lessi che oggi deve aver luogo un eclissi totale di sole.

— A che ora? — chiedemmo.

— Alle undici pei paesi situati al sud dell'equatore.

— Ecco una eclissi che ci renderà un bel servizio — disse il genovese, con vero entusiasmo.

Lo guardai con un po' di sorpresa ed anche con un po' d'ironia. Non essendo mai stato forte in matematica astronomica non approvavo affatto il suo entusiasmo, tanto più che non credevo affatto all'infallibilità degli astronomi.

— Mio caro signore — dissi a Good. — Siete voi sicuro che il fenomeno arriverà proprio oggi?

— Lo dice il mio almanacco — mi rispose.

— E se gli astronomi si fossero ingannati?

— È impossibile.

— Voglio credervi, ma pensate che se noi annunciamo il grande fenomeno e che poi non avvenisse, perderemmo tutta la nostra fama di esseri superiori e rovineremmo con noi anche Ignosi.

— E perché? — chiese Good, colla sua solita vivacità. — Gli almanacchi sono sempre fatti scientificamente e se annunciano una eclissi, questa avverrà infallantemente all'ora stabilita.

— Ebbene, vada per l'eclissi.

I due amici si assorbirono in certi calcoli che io non comprendevo e conchiusero che il fenomeno doveva avvenire, nel luogo ove si trovavano, poco prima del mezzodì. Allora assumendo un'aria da ispirato, disse ai capi:

— La prova ve la daremo.

— Quando? — chiesero i negri.

— Oggi stesso — rispose. — Voi domandate un segno straordinario: alzate gli occhi verso il sole che coi suoi raggi di fuoco illumina il mondo. Fra due ore egli si coprirà d'un velo nero, la terra piomberà fra le tenebre, e ciò indicherà che questo giovane è veramente Ignosi, il vostro re legittimo.

Un sorriso d'incredulità apparve sulle labbra dei capi negri.

— Dite al sole di oscurarsi ed alle tenebre di scendere e noi tutti, il popolo compreso, crederemo alla vostra potenza e non esiteremo più a riconoscere Ignosi per nostro re.

— Questo segno voi l'avrete — aggiunsi io.

I capi, soddisfatti dalle mie parole se ne andarono silenziosamente insieme ad Infadou, il quale pareva lietissimo di quanto avevamo promesso.

Quando fummo soli, Ignosi ci si avvicinò, dicendoci:

— Grazie, amici bianchi: ancora una volta dovrò a voi il trono dei miei padri. Contate sulla mia eterna riconoscenza.

Essendo prossima l'ora della festa delle giovani donne annunciataci dal re, riprendemmo le nostre armi e ci dirigemmo verso il kraal reale, conducendo con noi Ignosi. L'aspetto del vasto recinto era cambiato. Invece di trovarlo pieno di soldati armati, rigurgitava di ragazze tutte inghirlandate ed adorne di braccialetti d'oro e di avorio, tenendo in mano delle grandi foglie di palmizio, che agitavano graziosamente, a guisa di ventagli.

Quantunque fossero nere, erano per la maggior parte belle.

Il re ci ricevette con grande affabilità, come fosse premuroso di dimenticare ciò che era accaduto alla notte e che per poco non era costata la vita al nostro servo.

— Io ormai vi considero come figli del mio regno — ci disse con un amabile sorriso.

Poi alzò le mani e le danze cominciarono.

Quelle giovani negre si muovevano in mille guise, eseguendo graziose pantomime e danze intrecciate che io non vi potrei descrivere, poichè in fatto di balli non ero più forte che in calcoli astronomici: perdonerete di certo l'ignoranza di un vecchio cacciatore.

Vi posso dire solamente che mi parve danzassero con molta grazia e con sorprendente agilità.

Dopo i balli in massa, seguirono dei balli separati i quali durarono molto tempo.

Ad un certo momento il re si avvicinò chiedendoci quale danzatrice ci sembrava la più abile e la più bella.

— Quella che si trova innanzi a tutte — rispondemmo.

— Avete ragione — ci rispose. — È veramente la più valente e la più graziosa.

— Volete forse farle qualche regalo? — gli chiesi.

— Sì, ma un regalo che a voi non garberebbe di certo — mi rispose.

— E quale sarebbe?

— Quella fanciulla fra poco sarà morta.

— Morta! — esclamai. — Ma questa è una crudeltà inaudita!... Ucciderla perché è la più graziosa e la più bella?

— Essa morrà — disse il re con tono reciso. — È il nostro costume ed io devo fare ciò che prima facevano gli altri re. Qui si usa offrire ai geni delle montagne la più brava e la più bella danzatrice del regno.

— E non potete salvarla?...

— È impossibile! Se io lo facessi, una grande sventura piomberebbe sul mio paese, e anche su di me.

— Non credete a queste storie — diss'io.

— Eppure è la verità. Il re che prima di me sedeva sul trono, si lasciò commuovere dalle lagrime della fanciulla destinata ad essere sacrificata ai geni della montagna e la sventura piombò su di lui. Fu ucciso nel fiore degli anni e suo figlio non ereditò il trono. Uomini bianchi!... La fanciulla va a morire!...

Ad un suo cenno, due guardie della scorta reale si slanciarono verso la giovane negra, la quale, ignara della triste sorte che l'attendeva, continuava a danzare, mentre le sue compagne la coprivano di fiori.

Le guardie si precipitarono su di lei afferrandola strettamente per le braccia.

Solo allora la disgraziata comprese a quale terribile sorte l'aveva destinata il re, e proruppe in singhiozzi così strazianti che avrebbero commossa persino una jena, ma non certamente il cuore del terribile monarca.

I soldati, sordi ai suoi lamenti ed alle sue suppliche, la trassero bruscamente verso il kraal reale.

— Cosa vogliono fare di quella fanciulla — chiese il genovese, impallidendo.

— Si preparano ad ucciderla — risposi io.

— Oh! Io non lo permetterò mai, dovessi impegnare una lotta suprema contro le guardie del re.

— E nemmeno io — risposi, prendendo il fucile.

In quell'istante il re, volgendosi a suo figlio, disse:

— Seragga, la tua lancia è pronta?

— Sì padre — rispose il principe con un crudele sorriso.

— Sii pronto.

Gagoul, l'orribile strega, fece udire uno scoppio di risa atroci.

Vedendo Seragga avanzarsi verso la vittima colla lancia tesa, mi precipitai innanzi, gridando:

— Arrestatevi: questo delitto non si compirà!

Il re s'alzò di scatto, guardandomi minacciosamente.

— Chi me lo impedirà adunque? — chiese con voce tuonante.

— Noi — risposi, facendomi innanzi col fucile in mano.

— Ma chi credete d'essere voi per venire a contraddire la mia volontà?

— Noi siamo degli uomini bianchi, dei figli dei paesi civili.

— E che importa a me se siete uomini bianchi, io non vi temo.

— Ed io ti ripeto che quella fanciulla non la si ucciderà sotto i nostri occhi. Guarda o re, la tua crudeltà offende perfino il cielo! Guarda, il sole va a nascondersi ai tuoi occhi; le tenebre stanno per coprire il tuo paese, e questo significa che questo delitto non rimarrà impunito.

Poi stendendo una mano verso l'astro diurno, gridai con voce tuonante:

— Sole, nasconditi!...

In quel momento io stavo giuocando una carta suprema, poiché, come dissi, non aveva nessuna fiducia nel calendario di Good e dell'eclissi annunciata, e guardavo ansiosamente il sole che doveva confermare la nostra formidabile potenza.

Si sarebbe oscurato l'astro diurno o no? Ecco la grande questione che mi preoccupava, perché se il calendario sbagliava potevamo considerarci belli e spacciati.

Il re ci guardava con un misto di stupore, di paura e di dubbio. Seragga invece si avanzava verso la giovane negra agitando minacciosamente la sua lancia.

Good si era slanciato innanzi per proteggere la disgraziata e questa, comprendendo che noi volevamo salvarla, si era aggrappata alle ginocchia del nostro camerata, supplicandolo di non abbandonarla.

Intanto mi accorsi che l'orlo del sole andava rapidamente oscurandosi. Il mio cuore cominciava ad allargarsi e benedii la puntualità degli astronomi.

— Guarda o re! — gridai. — Già le tenebre circondano il sole!...

Il re aveva alzati gli occhi e vedendo che l'astro a poco a poco si oscurava, cominciava a manifestare un profondo terrore, che era diviso da tutti coloro che si trovavano nel kraal reale. Non si udiva più alcun rumore: pareva che tutti fossero pietrificati dalla paura.

Le tenebre scendevano sempre più rapide distendendosi sulla terra e mettendo in fuga gli uccelli, mentre il sole continuava a scemare.

La figura del crudele monarca si alterava sempre più.

Ad un tratto Seragga, preso da un improvviso furore, si slanciò improvvisamente contro il genovese che era il più vicino, mirandolo colla lancia.

L'italiano, accortosi a tempo, si volse rapidamente puntando il fucile. Si udì a rimbombare una detonazione e l'erede di Touala ruzzolò al suolo fulminato.

A quel colpo di scena successe una confusione indescrivibile seguita da una fuga generale delle danzatrici e del popolo che si affollava nel recinto del kraal.

Noi approfittammo subito di quel subbuglio per fuggire a tutte le gambe, prima che i guerrieri pensassero a prendere l'offensiva e farci pagare cara la nostra audacia.

Favoriti dall'oscurità, abbandonammo il recinto e ci dirigemmo verso il campo d'Infadou onde metterci sotto la protezione delle numerose truppe che aveva raccolto per rovesciare il feroce monarca e collocare al suo posto il bravo Ignosi, il nostro ex-servo.