Le confessioni di una figlia del Secolo (1906)/Prefazione alla terza edizione

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Prefazione alla terza edizione

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Le confessioni di una figlia del Secolo (1906) Proemio
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Prefazione alla terza edizione




Quando cinque armi addietro, questo libro comparve fu gravide stupefazione.

L'autrice era, press'a poco ignota e la tracotanza con la quale il suo romanzo pareva concepito e scritto e buttato in pubblico tornava assolutamente strana.

Per solito i novizi hanno altra andatura. Sono più esitanti nel passo, più dimessi all’aspetto più incerti alla meta.

In me, nulla di questa incertezza ambulatoria, forse perchè non pensavo affatto, col il mio libro, di andare, di mettermi in mostra e di dirigermi ad un qualunque palo d’arrivo determinato. [p. 20 modifica]

Io avevo scritto «Le confessioni di una figlia del secolo» per la ragione più anodina, fra tutte le ragionì che possano incitare uno scrittore: perchè un editore mi aveva chiesto un lavoro. Bisogna convenire in verità, che non si poteva essere meno alati di così.

Ma quando, dopo poco tempo, il volume comparve, la più stupita di tutti fui io. Il volume «faceva rumore», come si dice. Pubblico e critica vi si appassionavano, — quello, facendo in breve scomparire la prima edizione; questa, tartassando in tutti i modi, non esclusi i modi elogiativi, l’autrice. Era insomma un «successo librario», – sempre come si dice.

Dal mio cantuccio — ove vivo, metà ridendo e matà imprecando — io mi diceva: «Toh! toh! toh! guarda un po’ quanto baccano! Ci avrei, dunque, davvero, «azzeccato»? Sarei dunque davvero, «caduta a picco» in una di quelle gore, che paion morte perchè l’acqua stagna, ma che invece, non appena un ciottolo le percuota, scatenano tutte le voci e tutti i guizzi della più intensa vitalità?». [p. 21 modifica]

La valutazione del successo finanziario mi preoccupava poco. Milioni, già si sa, in Italia non se ne fanno, a scriver libri. In nessun paese del mondo meglio del nostro, — terra di carmi — i carmi non danno pane, se pure la nostra terra sia chiamata anche il granaio del mondo. Figuriamoci!

E neppur mi preoccupava la valutazione del successo artistico. In nessuna plaga — ove si impari a leggere, a scrivere ed a far di conto — la critica letteraria è più sballata che nella nostra analfabetissima Italia, — se pure, fuor dei confini, il mondo riverisca questa per la madre d’ogni arte e d’ogni coltura, passata e a venire.

Pochi, assai pochi, forse punti, fra i molti articoli scritti, in onore ed a discredito del nuovo libro, mostrarono nel crìtico una semplice ma chiara comprensione di che cosa io aveva voluto fare, scrivendolo. Chi lo disse un libro «divertente», forse perchè, malgrado un suicidio, v’eran dentro degli amanti, e gli amanti, si sa, sono ormai pochadeschi. Chi lo disse pornografico, [p. 22 modifica] addirittura — forse appunto per questa carnevalata, che son gli amori che conducono al suicidio. Un ignorantello, bocciato nei recenti esami liceali, lo definì persino un «parto laborioso» — e dimenticò l’appellativo di «mostruoso» più rincalzante d’assai, poiché infatti, gli spasimi, la febbre, le ansie e le grida delle quindici notti, in cui il libro fu scritto, vi fecero scivolar dentro non poche offese al bello italo stile.

Tutti, tutti, poi dissero apertamente, od insinuarono, che le «Confessioni» erano la mia propria autobiografia, — come se, me vivente e circondata nella famiglia, nella parentela, nelle relazioni sociali d’altri viventi, io avessi potuto mettete in piazza, con tanta tranquilla indifferenza, il po’ po’ di roba peccaminosa che riguarda l’eroina, presunta me stessa, e tutto il luridume abietto che la circonda! Ma, ripeto, tutto questo non mi preoccupava. Era il successo morale, che mi sorprendeva e che mi tornava, più d’ogni altro, lusinghiero. Perchè, infine, se la missione dello selettore non è soltanto quella di guadagniarsi il [p. 23 modifica] pane ed il companatico, non è neppur soltanto quella di far unicamente opera d’arte. La perfezione dell’opera deve essere mezzo, non fine, a chi voglia che il proprio nome non muoia imbozzacchito innanzi il levare del sole.

L’artista, che non sia un vano accozzator di forme, un vano manipolator di luci, ha il còmpito precipuo di far, della propria arte, un mezzo di educazione morale, di far sprizzare, dal proprio intelletto, la fiamma che deve in un grande bagliore illuminargli l’orizzonte indefinito del futuro, perchè ne possa cogliere il mistero e lo possa presentare, tutto ragrante della sua precocità, allo sguardo stupefatto del contemporaneo.

Cinque anni addietro, quando io scrissi questo libro, la mia audacia parve grande disse coraggiosa e chi l’affermò cinica.

Passa il tempo ed ha le gambe sì buone e si veloci al corso, che alcuno non lo crederebbe quel vecchione che è, anzi un validissimo corridore di Maratona. E tutto passa con lui e precipita nel trapassato remoto, anche le audacie coraggiose o [p. 24 modifica] ciniche di una scrittrice, che, in in passato prossimo, parve antesignana.

Oggi, nel mentre la terza edizione di questo mio libro è data al pubblico, due donne diverse di patria, diverse nella condizione sociale, ma eguali nelle condizioni morali, se non nelle modalità della catastrofe ultima, hanno voluto fare, per la realtà, quanto io, antiveggente, avevo fatto per l’arte. E la narrazione della lor vita corre per le mani del pubblico come già corse la narrazione fantastica, — e il pubblico stupito e scosso dalla nuova e ben più grande audacia, legge e commenta e crede strabiliare.

La contessa Linda Bonmartini e la principessa Luisa di Sassonia hanno pubblicato le loro memorie. Anch’esse, come Viviana, sono due donne, due mogli, due adultere, — due «signore». E sono in più due madri — ciò che Viviana non era! — La prima, carcerata per complicità non necessaria dell’assassinio del marito; la seconda esclusa dal trono, libera per il mondo. La sola diversità fra le due donne è questa, la quale è anch’essa tutta formale. Nella [p. 25 modifica] sostanza, fra una borghese nobilitata, in carcere, ed una regina a spasso, non v’è differenza di decadimento: il «castigo», come lo chiama la società, è di eguale valore.

Ed ecco dunque che queste due donne, che hanno tenuto per mesi e mesi il cartellone dell’attualità; attorno alle quali per mesi e mesi si è accanita con infaticabile costanza la curiosità della folla; la vita delle quali, a brano a brano, è stata gettata in pascolo alle bramose canne dell’opinione pubblica — ecco che queste due donne non si appagano di ciò che di loro fu mostrato o fu detto, nè si adattano al giudizio che di loro e di loro azioni fu tratto, nè si acquietano alla sentenza che della loro personalità intima e sociale fu data. Sorprese ed oppresse dalla bufera, nella quale furono travolte, intimorite dall’infierire della volgarità collettiva che su loro si era buttata come sopra una preda squisita, queste figlie del secolo tacquero finora.

Poi, simultaneamente, come se un impossibile accordo le avesse unite in un medesimo proposito, elleno escono dalla passività e dal silenzio, scuotono il [p. 26 modifica]torpore della sorpresa dell’angoscia e dell’ansia in cui erano cadute dopo il loro disastro, e, forti del diritto, che ha ogni accusato di domandar la parola dinanzi il tribunale accusatore, elleno concionano quella folla medesima, che le aveva sputacchiate, avvinte alla berlina della piazza.

Più risolute o più fortunate di Viviana, esse non attendono le ore tremende dell’agonia per gettare in faccia alla società il loro acerbo rimbrotto, ma si ribellano ancor vive e giovani e pronte a riprendere la lotta contro il destino che le ha condannate al fallimento morale e sociale.

Io non ho letto le memorie di Luisa di Toscana, pubblicate a Vienna e sconfessate dalla protagonista medesima come apocrife. E non ho letto quelle che Linda Murri ha affidato all’abilità letteraria di una romanziera italiana. Della prima, io conosco tutta intera la vita — narratami nella pace, volgaruccia e toscana, della villa Papiniano; — della seconda so tutto quanto è risultato dal processo e tutto quanto immagino — che è certo di più, e di più esatto di quelle risultanze medesime. [p. 27 modifica]

Figlie tutte di una medesima sorte — regine e plebee, nobili e borghesi, scrittrici ed ignoranti — ogni donna sa d’ogni donna. La strettezza medesima di orizzonte che ci fu imposta dal nascere, l’identicità della missione che ci fu attribuita, la comunanza della educazione morale che ci fu impartita, degli ideali che ci furono instillati, dei pregiudizi che ci furono imposti, ci fanno capaci di una comprensione vicendevole quale gli uomini non possono, l’uno per l’altro, avere.

La donna fu plasmata per esser femmina — in ogni caso — e nulla più. L’uomo fu plasmato per tutto, per fare il re o per fare il ciccaiolo, fuorchè per essere maschio. La nostra è sempre stata una missione unicamente naturale; quella dell’uomo è sempre stata una missione unicamente sociale. La sessualità maschile è stata mantenuta ad incidente; la femminile è stata elevata ad istituzione.

Così, da donne a donne, per tutti i gradini della scala corre una fraternità psichica, se non intellettuale, — una fraternità di istinti, se non di gusti, — una fraternità di sensazioni, se non di [p. 28 modifica]sentimenti — che ci fa atte ad intuizioni e comprensioni immediate ed esatte quando si tratti di «cose nostre».

Tanto più che tutte queste eroine, fantastiche e reali, meglio che delinquenti, furono peccatrici, — e la donna, se non sa innalzarsi quasi mai sino a comprendere un delitto sa sempre abbassarsi sino a comprendere il peccato. La donna vive del peccato, anche se non pecca, poiché tutta la sua vita fu imperniata sopra il peccato.

Ella era ancora bimbetta, e già quel gran babau, pauroso e stuzzicante come tutti gli spauracchi, le veniva additato. Ella ignorava ancora il perchè delle sue sottanine, in confronto alle brachette del fratello, e già le veniva — così molta misteriosità di ragioni, ma con molta perentorietà di asseveranza — insegnato che il gran babau stava precisamente annidato nelle sue sottanine… E così, d’anno in anno, di giorno in giorno — fanciulletta, giovinetta, signorina, — sempre l’orrore ed il fascino del peccato le fu agitato dinanzi, ed ella ne fu turbata e preoccupata e compresa e commossa e tentata… insino a [p. 29 modifica]che un uomo giunse ed era il marito, che le rivelò il gran nulla di quel tanto gonfiato mistero.

Paulette, di Gyp, dice il domani della prima notte di nozze: «Ce n’est que ca! C’est bien la peine de faire tant d’histoires! Il n’y a pas de quoi fouetter un chat!...».

Appunto. E pure su simile miseria fu costimito tutto l’edificio della esistenza feìnminile!

E questo l’errore fondamentale, che conduce le mille avventure e le mille tragedie delle mille Viviane borghesi e coronate di questi nostri tempi. Per le donne — per tutte le donne — il peccato è l’ossessione; la sostanza del peccato, l'amore è l'invasamento. Non si vive che per quello, sia tenendolo sempre dinanzi nell'ansia di sfuggirlo, sia tenendolo sempre dinanzi nello spasimo di goderne. La virtù non è che la conoscenza del male. Chi ignora il male non ha bisogno di essere virtuoso. La virtù femminile non è che l’arma per fronteggiare il emico: ma per poterlo fronteggiare vittoriosamente bisogna che la femmina ne faccia l’argomento di ogni azione, lo scopo di ogni [p. 30 modifica]pensiero. «Estote parati, tamquam leo rugiens, circuit quaerens quam devoret»... dice la Sacra Scrittura. E a furia di stare parati si finisce con fraternizzare col leone.

L’errore fondamentale della educazione femminile è questo: di materiarsi tutta di un concetto solo, – solo e basso. Se il feminismo non dovesse far altro che strappare dalla donna questa camicia di Nesso della preponderante, unica, avvolgente preoccupazione della sua sessualità, esso sarebbe abbastanza benemerito, anche se altro non conseguisse.

Ci si domanda, ad ogni istante — poiché ad ogni istante sorgono occasioni di domandarselo — qual rimedio trovare all’imperversare di tragedie passionali, pubbliche e private. E la risposta è sempre assurda di inutilità e di inadeguabilità

Pe me, il nodo del groviglio è tutto qui: date alla donna qualche altro elemento di vita, di pensiero, di passione, che non sia quel troppo famoso babau, che per sin la bimbetta sa annidarsi nelle sue sottanine. E poiché la donna deve esser femmina innanzi tutto, perchè deve essere madre, fate che [p. 31 modifica] della sua femminilità, della sua maternità ella non faccia soltanto ragione di virtù o di peccato, soltanto argomento di fisiologia, iniziale e finale.

L’amore — chiamiamolo così questo nome pudicamente convenzionale — è una funzione qualunque: rimettete l’amore anche per la esistenza della donna allo stato di funzione, concorrente, insieme alle altre e secondo la rispettiva e relativa importanza, al suo benessere fisico ed alla sua soddisfazione morale. E non adopratevi, con accanimento degno di miglior causa, ad inculcare nella donna il convincimento che questa funzione è, e deve essere, fine a se stessa; che, al di là delle funzioni da soddisfare, la donna — al contrario dell’uomo — non ha delle missioni da compiere, non ha delle idealità da coltivare.

Nessuno domanda ch’ella si butti ai fracassi, alla politica, alla concorrenza professionale contro il maschio. Ma quanto “bene” da fare al mondo, in tutti i modi, per tutti e per tutte! E questo “bene” nessuno si è mai data la pena di mostrarcelo, a noi donne. Non ci fu mostrato che il male, sempre ― sempre! [p. 32 modifica] Benedetta detta quella madre, che alla sua bimba insegnerà in che cosa consista e come si faccia questo “bene”. La bimba, divenuta donna, non avrà bisogno di suicidarsi come Viviana, di finire in galera come Linda Murri, di andar randagia per il mondo, ludibrio delle corti e spasso degli sfaccendati, come Luisa di Sassonia — e non avrà, sopra tutto, bisogno di scrivere delle “Confessioni” per giustificare i proprii errori e per farseli perdonare.

donna Paola.