Le notti degli emigrati a Londra/Maurizio Zapolyi/VI
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VI.
La contessa Tichter aveva lasciato Pesth, quando gli Austriaci e Windischgraetz vi entravano. Ella aveva saputo a Debreczin, ove suo padre sedeva nella Dieta, che suo marito viveva ancora, ed anzi che egli era in Ungheria. Ella era andata al castello di suo padre; poi, avendo appreso che Bem conduceva il suo esercito nelle sedi sicule, ove io era nato, ove tante sventure dovevano ricordarmi i miei antenati, i miei parenti, ella vi si recò pure per velarmi colle visioni dell’avvenire le lugubri memorie del passato.
Arrivata la vigilia, essa volava incontro a noi.
Eravamo attesi.
Delle cinque sedi sicule, quattro, sedotte, si erano sottomesse all’imperatore. La quinta, che era la mia, restò fedele alla patria. Ma, appena apparve Bem, i Szekely delle cinque sedi presero fuoco; e ricevemmo molto a proposito dei rinforzi da Kolosvar. Bem non voleva nessuna Capua. Quegli che i suoi compatriotti chiamavano «un aristocratico», da due mesi non si era coricato che cinque volte sopra un letto, ed anche dopo essere stato ferito. Quanto a noi, ne avevamo perfino perduta la memoria. Partimmo. Questa volta ancora ci trovavamo di fronte ad Urban, che ritornava. Bem lo raggiunse presso Jad, il 23 febbrajo, lo schiacciò, e lo rigettò anche una volta nella Bukovina. Puchner riapparve, ma rinforzato da 10,000 Russi, cui aveva chiesti, e cui il general Lüders, occupante la Moldo-Valacchia, gli aveva inviati sotto il comando dei generali Skariatin ed Engelhardt. Il primo scontro ci fu favorevole, il secondo contrario. Fummo obbligati ad uscire da Medgyes, e ripiegare sopra Segesvar. Bem vi ricevette dei rapporti, e diede l’ordine di porsi immediatamente in marcia.
— Ragazzo mio, va, sei per avere ben presto un duro cómpito, mi disse il generale, dandomi il comando di due squadroni di ussari e di due compagnie di honved.
Amelia, che ci aveva preceduti, mi spiegò le parole di Bem.
Ella mi fece chiamare. La trovai in piedi, vestita di un’amazzone, in mezzo agli ufficiali dello stato-maggiore, pronta a mettersi in marcia con noi.
— Maurizio, ella mi disse, la moglie di Luigi IX di Francia, durante l’assedio di Damiata, pregò il signor di Joinville di ucciderla, se la vedesse vicina a cadere nelle mani dei Saraceni. Il signor di Joinville rispose: — Regina, ci avevo pensato. — Voi che fareste in una simile circostanza?...
— Ciò che avrebbe fatto il signor di Joinville, risposi io impallidendo.
— Grazie, replicò Amelia. Mio marito è a Nagy-Szeben. Noi vi andiamo. Io vengo con voi.
Io aprii le mie braccia, ella vi si gettò; il patto era firmato.
Arrivammo l’11 marzo avanti al capoluogo dei Sassoni, chè anch’essi aveano invocato l’ajuto dei Cosacchi. Il nemico si avanzava incontro a noi. Con uno slancio alla bajonetta lo respingemmo nella città. Gli Austriaci tentarono una seconda sortita, ne tentarono sei altre, e noi li costringemmo sempre a cercare un ricovero dietro i bastioni. La notte scendeva. Bisognava finirla. Bem lanciò la colonna di Bethlen, ove era io. Amelia si tenne presso il generale sopra una piccola altura, cui la mitraglia spazzava senza tregua. Invademmo i sobborghi, cantando un nuovo ritornello di Petöfy, ed ivi ci precipitammo contro la porta di Nagy-Szeben. Fummo forzati ad indietreggiare tre volte. Accadde allora un fatto, come se ne incontrano spesso nell’Iliade, e come un altro doveva accaderne pochi giorni dopo, il 4 aprile, a Nagy-Kata, fra il capo degli ussari croati, Riedesel, e il capo degli ussari ungheresi, Sebö. Il colonnello Tichter comandava la quarta sortita. Io slanciai il quarto attacco. Ci trovammo faccia a faccia. Ci riconoscemmo.
Amelia vedeva tutto, e indicava la scena a Bem.
— Diavolo! colonnello, gridai io, avete la vita tenace.
Egli non rispose, ma scaricò d’una mano un colpo di pistola a bruciapelo sulla mia testa, mentre con l’altra mi lasciò andare un fendente. Io ebbi il tempo di far impennare il mio cavallo, che ricevette il colpo di sciabola; la palla bruciò i miei capelli. Il mio cavallo non cadde. Lo lanciai allora sul colonnello. Come per tacito consenso, i soldati e gli uffiziali delle due parti fecero alto onde assistere a questo duello. Io attaccai alla mia volta, frugando con la sinistra nella sella per trarne una pistola. Il colonnello parò, indietreggiando: io l’incalzavo sempre. Trovai finalmente la mia pistola. Lo mirai fra i due occhi. Cadde, e questa volta per non più rialzarsi. La battaglia passò sul suo corpo.
I battaglioni siculi marciarono in avanti, ed entrammo nella città. La notte, gli Austro-Russi fuggirono. Bem m’abbracciò, e mi nominò maggiore.
Bem proclamò l’amnistia, e m’inviò alla Dieta a portar l’annunzio che la Transilvania era ormai libera. Bem la spazzò due giorni dopo.
Io partii: Amelia e i suoi dieci domestici mi accompagnarono. Il mio cuore ridondava di gioia. Il destino mi carezzava; Bem e Petöfy erano miei amici; Amelia era libera e mi amava.
Essere l’amico di Bem!...
Voi vi sarete già disegnati nella vostra mente questa figura.
Egli era uno scienziato, specialmente in geologia ed in mineralogia. Era stato l’anima della insurrezione di Vienna, ed era uscito dalla città dopo lo scacco, nascosto in un carro di fieno, sfuggendo così alla sorte di Roberto Blum. I suoi compatriotti gli contesero a Pesth il comando della legione polacca, ed un giovine del suo paese tentò perfino di assassinarlo, tirandogli un colpo di pistola, che lo ferì al viso.
Bem era piccolo, ma ben costrutto, agile come un camoscio, elastico come la tigre. Il pensiero, il genio alloggiavano nella sua enorme testa, come un Dio in un tempio. Nulla di misterioso, d’oscuro, di traditore, di basso, di falso, nei suoi tratti: si leggeva nella sua anima a libro aperto; tutto vi era vasto e luminoso. La sua barba bianca ondeggiava a capriccio dell’aria, come una di quelle vele latine, che issano le barche nel Mediterraneo, molcite dall’immenso azzurro. Il suo cranio accidentato era calvo; le tempie avevano conservato delle lunghe ciocche di capelli bianchi. Il fronte alto e largo, appena rugato, olimpico, torreggiava, e si rialzava negli angoli arrotondandosi. Esso conteneva più che una volontà, rivelava un carattere. Nulla di sanguinario, come nel cranio di Napoleone, ma un misto di scienziato e di poeta.
Bem abborriva il sangue. La prima sua parola, quando la vittoria pareva decisa, era: Basta! Il primo suo atto, quando entrava in una città o in un paese conquistato, era di proclamare l’amnistia. I suoi occhi grigi, mobili o fissi a volontà, avrebbero frugato nel fondo dell’Oceano. Nondimeno tutto vi risplendeva, potente, limpido e dolce a volta a volta, come in quelli d’un fanciullo di genio, che principia ad interrogare il mondo e la vita.
Bem non levava mai di bocca la sua pipa. La conservava dormendo; a tavola l’accarezzava colla mano, come il mento d’una bella amante. La sua parola era pittoresca. Amava le metafore, soprattutto nelle circostanze drammatiche, perchè allora la metafora dà precisione. La sua voce elettrizzava. Gli si credeva. E non pertanto alcuno degli uomini della sua tempera, a tipo leggendario, non ha sì poco sceneggiato il Messia ed il Mosè. Bem restava paterno, nello stesso tempo che realizzava la formula la più assoluta dell’autorità e della volontà, che s’impongono e che trionfano. Egli non comunicava i suoi disegni a nessuno, forse perchè aveva uno scopo e non aveva un metodo. Il suo genio, pieno di espedienti, di presenza di spirito, di slanci, di scintille, gli rivelava all’istante il nodo delle situazioni. La sua bravura era temeraria. Egli scorgeva tutto in un colpo d’occhio: l’insieme ed i particolari; la sua induzione teneva il posto della divinazione. Come la rondinella, egli andava sempre dritto, senza riposare, senza stancarsi mai.
Estremamente sobrio, vestito d’una tunica grigia, egli è stato il più realmente semplice fra tutti gli eroi; colui che lo seppe meno, e meno se ne curò. Non carezzò mai l’ammirazione del pubblico. Non s’atteggiò in nessuna maniera, nè alla magnanimità, nè alla generosità, e neppure a quel disinteresse teatrale e sciocco, che abbaglia il popolaccio. La Dieta lo nominò luogotenente-maresciallo, e gli diede la decorazione di prima classe, ed egli accettò. Bem non prese niente, non domandò niente, ma sdegnò la parte volgare d’un Cincinnato da melodramma. Quando occorse farsi Turco, per aver la ventura di battersi contro la Russia e l’Austria, egli salutò la mezza-luna, e divenne pascià. Sarebbe andato in collera se i suoi, quelli che avevano fede in lui, come nel genio della guerra e della libertà — fede virile — l’avessero trattato niente niente come un Dio od un eroe. Bem rispettava la dignità umana, ed avrebbe arrossito di vederla oltraggiata dalla degradazione e dall’adulazione. Leale, franco, generosissimo, non invidiando nessuno, sapendosi ricco del suo, non imponendosi mai, non intrigando in nessuna maniera egli spaventò Görgey; il quale, confrontandosi con quella grandezza morale, si trovò piccolo ed abietto.
Perciò Görgey, quando fu ministro della guerra, tentò di disfarsi di Bem. Ma Kossuth lo sostenne.
La fulminante audacia dei suoi colpi di mano, la sicurezza che mostrava nella vittoria definitiva; una parola d’elogio senza enfasi, che sapeva dire a tempo e farne come un cammeo; le ricompense che non lesinò; l’esempio che dava, non domandando agli altri cosa ch’egli non avesse fatto, o volesse fare; la sua sorprendente attività, al punto che si sarebbe detto uno spirito, una fiamma elettrica, una visione; la rapidità della concezione e dell’esecuzione.... tutte queste qualità lo facevano idolatrare dalle sue truppe. Bem è passato allo stato di leggenda nel sud dell’Ungheria. L’Europa non se ne fece un feticcio, — ciò che è proprio delle glorie vere, serie e durature. I semi-dei della plebe hanno sempre del ciarlatano. Petöfy lo chiamava un Giulio Cesare galantuomo.
La notizia, che io portava, mi aveva preceduto. Ciò non le tolse di essere bene accolta; — ed anzi Kossuth diede un banchetto, ove io raccontai, coi più pittoreschi particolari di uomini e luoghi, l’epopea della campagna. La fortuna sorrideva di nuovo all’Ungheria.
Görgey, dopo essersi rivoltato contro il Governo nazionale, dichiarando che non obbedirebbe che al ministro della guerra nominato dal re — cioè dall’imperatore d’Austria — aveva continuato la sua difficile ritirata, inquietato da ogni parte dall’inimico, che era tenuto a distanza in tutti gli scontri dal bravo Guyon alla retroguardia e da Aulich all’ala sinistra. La ritirata era penosa, attraverso gole senza strade, montagne rese impraticabili dalla neve, piene di precipizii nascosti, di nebbie che avviluppavano e impedivano la vista dei nemici, di fossi che inghiottivano artiglieria e cavalleria, di ponti rotti, di fiumi traboccati, senza scarpe, con una temperatura di venti gradi sotto lo zero. Malgrado tutto ciò, Guyon battè Schlick a Braniczko, mentre che Görgey danzava a Löcse, a quattro leghe dal campo di battaglia: Klapka lo batteva ancora a Tokaj; Bulharyn a Tarczal. Schultz schiacciava l’ala sinistra degli Austriaci a Kisfalud; Perczel sconfiggeva Ottinger a Szolnok, a Czegled. L’esercito ungherese si trovava così riunito dietro la Tisza, e Dembinski ne otteneva il comando supremo, mentre che Windischgraetz, padrone della capitale, si credeva padrone dell’Ungheria.
Questa illusione non durò molto.
Noi riprendemmo presto l’offensiva. L’esercito ungherese si componeva di 46,000 uomini, 6,000 cavalli e 170 cannoni. Windischgraetz disponeva di circa 60,000 uomini, 5,000 cavalli, 200 bocche da fuoco. Il primo scontro fra i due eserciti ebbe luogo a Kapolna, ove gli Austriaci misero in linea 35,000 uomini, e gli Ungheresi 17,000. La battaglia durò due giorni, il 26 ed il 27 febbrajo. Görgey, che detestava Dembinski, come detestava Kossuth, come detestava Bem, come detestava Perczel, Guyon, Klapka, Damjanich, ritardando l’arrivo delle due divisioni Kmetz e Guyon sul campo di battaglia, rese il combattimento all’incirca indeciso; ma Windischgraetz tenne la posizione, e Dembinski, per una precauzione eccessiva, ordinò la ritirata dall’altra parte della Tisza. Questa ritirata, a traverso le paludi terribili di Egerfarmos, fu disastrosa. Dembinski cedette il comando. Wetter prese il suo posto, ma Görgey ottenne tre corpi sotto i suoi ordini. Questo fu il più grande sbaglio, l’unico forse, che Kossuth abbia commesso durante tutto il tempo in cui tenne il destino dell’Ungheria nelle sue mani. Görgey doveva esser fucilato, ed egli ne faceva il padrone dell’esercito!...
Le ostilità ricominciarono immediatamente. La vittoria si fissò alle nostre bandiere. Damjanich ne aprì la serie col brillante scontro di Szolnok il 3 marzo. Wetter, che aveva elaborato il piano di campagna, cadde malato, e Görgey ebbe infine la felicità ineffabile di essere investito del comando supremo, così ardentemente ambito. Kossuth m’inviò nuovamente presso di lui come ajutante di campo. Ma di già Görgey mi faceva l’onore di odiarmi, sapendo come io adorassi Bem, e come ne parlassi cogli ufficiali di stato-maggiore. Egli mi ricevette molto male, quantunque gli fossi presentato dallo stesso Kossuth, che venne al campo. Görgey mi rivolse appena la parola, e mi diede poi degli ordini calcolati per sacrificarmi. Le ferite non mi mancarono certo.
Gaspar esordì col battere Schlick a Hatvon. Klapka e Damjanich misero in fuga Jellachich a Tapio-Bicske, e gli fecero subire delle perdite considerevoli. Finalmente, il 6 aprile, tutto l’esercito si trovò in presenza degli Austriaci a Isaszeg. L’inimico era più forte di un terzo, occupava delle alture boscose, ed aveva alle spalle una foresta. Klapka cominciò l’attacco. Damjanich gli venne in ajuto, e tutti e due non avevano di fronte che il corpo di Jellachich, appostato sulle alture, dinanzi e dietro Isaszeg. A tre ore arrivò il corpo d’armata sotto gli ordini di Windischgraetz, e Damjanich fu investito di fianco da Schlick. 14,000 Ungheresi tenevano testa a 30,000 Austriaci. L’ala sinistra, comandata da Klapka, già piegava. Damjanich teneva fermo alla diritta. A quattr’ore arrivò Görgey, e prese la direzione della battaglia. Ciò malgrado, gli Ungheresi si ripiegavano.
Ad una lega di distanza, accampavano due corpi del nostro esercito. Gaspar con 16,000 uomini da una parte, Aulich dall’altra con 8,000 uomini, 1000 cavalli e 38 cannoni. I due capi udivano, fino dal mezzogiorno, la voce del cannone. Gaspar restò immobile, attendendo un ordine che lo chiamasse. Io, spontaneo, mi slanciai verso Aulich, per sollecitarlo a venire al nostro soccorso. Ma egli era già in marcia, senza essere invitato, ed arrivò come Desaix a Marengo, a cinque ore, per decidere della battaglia. La vittoria fu completa. Kossuth era presente. Io fui ferito al capo da una scheggia di mitraglia.
Tre giorni dopo, il 9 aprile, Damjanich e Klapka rompevano Götz alla testa di 12,000 uomini a Vacz; dieci giorni dopo, il 19, questi due stessi generali, con 18,000 uomini, vincevano la battaglia di Nagy-Sarlo, ove il generale Wohlgemuth comandava a 26,000 Austriaci. Görgey non si allontanò dal suo quartier generale di Leva. Si marciò in avanti per sbloccare Comorn, e vi si riescì dopo due ore di combattimento. Görgey arrivò alla sera. Gaspar, secondo la sua abitudine, non arrivò punto. Gli Austriaci avevano abbandonato Pesth, e si ritiravano su Vienna per la via di Raab. Görgey avrebbe dovuto inseguirli, e rientrare con loro, o prima di loro, nella capitale degli Absburghi. Egli preferì ritornar sui suoi passi per cacciare la guarnigione austriaca da Buda, ove si era rinchiusa.
Nel frattempo, un grande atto si compieva a Debreczin, un gran delitto a Vienna.
L’Austria infliggeva a sè stessa il disonore d’invocare l’assistenza della Russia — ed era un ungherese il conte Enrico Zichy, che accettava l’infamia di andare a chiedere il soccorso dello czar.
Kossuth proponeva alla Dieta la decadenza degli Absburghi.