Le pantere di Algeri/Capitolo 17 - I misteri del palazzo di Ben-Abad
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17.
I MISTERI DEL PALAZZO DI BEN-ABAD
La vastità e la ricchezza di quel palazzo, dava una idea esatta della potenza e del grado elevatissimo che occupava l'ex-schiavo della contessa di Santafiora.
Come tutte le abitazioni moresche, era di forma quadrata, senza finestre esterne, sormontato invece da splendide gallerie di pietra candidissima, con colonnati leggeri e arcate dentellate, da terrazze ombreggiate da palme, e con minareti ai quattro angoli colle cupolette dorate.
Un'ampia porta moresca metteva nel cortile interno, tutto in mosaico verde, d'una precisione meravigliosa, circondato da chiostri il cui pavimento era coperto di ricchi tappeti di Rabat sfolgoranti d'oro o d'argento. Nel mezzo una vasca ampia sormontata da una fontana a tre getti, manteneva una deliziosa frescura, mentre in alto un velario variopinto, impediva ai raggi del sole di scendere. Negri vestiti riccamente, schiavi bianchi e guardie armate di yatagan e di moschettoni, passeggiavano sotto i porticati, mentre sulle terrazze si udivano a risuonare tamburelli e tiorbe e si udivano scoppi di risa argentine. Zuleik abbandonò il cavallo ad uno scudiere che era prontamente accorso seguito da parecchi negri, poi disse al barone, che guardava stupito quelle meraviglie:
— Scendete, signore: siete in casa mia.
Il prigioniero aveva obbedito senza ribattere parola.
Zuleik con un gesto congedò i quattro mori che gli avevano servito di scorta ed entrò in una vasta sala pianterrena, che riceveva la luce da alcune strette finestre che sembravano feritoie e che erano riparate da leggerissime cortine di seta azzurra molto trasparenti le quali attenuavano la luce calda proiettata dal sole.
Lo sfarzo moresco non mancava in quella sala, costruita tutta in marmo bianco, con arazzi ricamati meravigliosamente, cadenti lungo le pareti in artistici festoni e tendaggi scintillanti d'oro alle porte.
All'ingiro vi erano leggeri mobili di mogano e di ebano ad intarsi di madreperla, coperti di stoffe meravigliose; grandi specchi di Venezia con cornici cesellate artisticamente; panoplie d'armi; giganteschi candelabri sostenenti candele a vari colori, rosse, gialle e verdi e alla base delle pareti, disposti con un certo disordine, divanetti, cuscini di broccato, guancialetti di seta e di raso e tappeti superbi di Persia, del Marocco e di Smirne.
Nel centro invece, una piccola fontana di marmo verde, rappresentante un tritone, lanciava in alto uno spruzzo il quale ricadeva con un mormorìo che deliziava gli orecchi.
Dopo d'aver chiusa la porta, Zuleik si era fermato dinanzi al barone, dicendogli a bruciapelo:
— Nelle vostre mani tenete la vostra sorte: la vita o la morte. Scegliete?
— Attendo che vi spieghiate — rispose il capitano, un po' sorpreso da quell'esordio.
— Che cosa siete venuto a fare qui, nella rocca dell'Islam e dei berberi che è chiusa a tutti i cristiani?
— Voi lo sapete senza che io ve lo dica.
— A cercare la donna che io amo alla follia, è vero?
— Sono venuto a cercare la mia fidanzata, la fanciulla che voi avete rapita, dopo aver commesso un infame tradimento e per uccidervi, Zuleik Ben-Abad — rispose il barone.
— L'amate dunque molto la contessa di Santafiora per osare sbarcar qui, fra migliaia e migliaia di nemici.
— Certo più di voi.
— No, — disse il moro, con veemenza selvaggia, — no, signor di Sant'Elmo, nessun essere umano potrà aver amato quanto me quella fanciulla per la quale ho sacrificato onori e libertà pur di poterla contemplare, pur di poter dormire sotto il suo tetto, pur di poter respirare la medesima aria che le dava la vita, rimanendo io, discendente dei califfi e principe moro, un miserabile schiavo, odiato e disprezzato.
«Se gli sguardi di quella fanciulla non mi avessero stregato, credete, voi che io sarei rimasto tre lunghi anni, io uomo di guerra ed insoffribile di qualsiasi giogo, potente nel mio paese quanto lo siete voi nel vostro, nel castello dei Santafiora a suonar la tiorba come un giullare o come una femmina, ed a soffrire gli scherni dei cristiani?
«Dieci volte, delle feluche mandate da mio padre, che anelava di vedermi e che è morto di crepacuore sapendomi prigioniero d'una cristiana, avevano approdato silenziosamente dinanzi al castello per ricondurmi in patria, e dieci volte io Zuleik Ben-Abad ho rifiutato la libertà per rimanere schiavo presso quella fanciulla che per me ormai rappresentava la mia patria, la mia vita, la mia felicità, tutto.
«Eppure, nelle notti insonni e tormentose, quante volte rivedevo il palazzo dei miei avi, la mia Algeri, le mie genti, mio padre piangente la triste sorte toccata al figlio, mia sorella, e mi sono sentito rodere il cuore da una intensa sete di libertà, da un invincibile desiderio di rivedere la patria lontana! Un altro sarebbe fuggito, un altro avrebbe spezzati senza esitare i ceppi della schiavitù, ed io per l'immensa passione che mi bruciava l'anima non l'ho fatto e schiavo ero rimasto per la tema di non riveder più mai quella fanciulla, senza la quale la mia vita non sarebbe stata che un tormento che non sarebbe cessato che colla mia morte.»
— E quella fanciulla l'avete rapita — disse il barone con voce cupa.
— I cristiani avevano pur rapito me — disse Zuleik. — D'altronde, voi, al mio posto, avreste fatto altrettanto, sapendo che la donna amata stava per diventare moglie d'un altro.
— Voi avevate saputo che io stavo per giungere al castello?
— Sì, signor barone, e per impedirvi di far vostra la contessa, ho precipitato gli avvenimenti. Tutto era pronto da parte dei nostri, per strapparmi alla schiavitù ed era un mese che le galere navigavano in alto mare in attesa dei miei ordini e che tutte le notti io scambiavo segnali colla feluca.
— Chi vi aveva avvertito che la mia nave si trovava sulle coste della Sardegna?
— Un pescatore.
— E credevate che la contessa avrebbe consentito a diventare vostra moglie?
— L'avrei costretta.
— La moglie d'un infedele!
— E se io avessi rinnegata la religione dei miei padri? — disse Zuleik. — Tutto sarei stato capace di compiere, per avere il cuore della contessa di Santafiora.
Il barone lo guardò con ispavento. La passione che divorava il cuore di quell'uomo cominciava a sgomentarlo.
— Voi, un discendente dei califfi, diventare un rinnegato! — esclamò.
— E lo farei senza esitare.
— Fortunatamente quella donna non diverrà mai vostra — disse il barone.
Un lampo cupo balenò negli sguardi del moro.
— Chi è che me la disputerà ancora? — chiese.
— Io!
— Sembra che voi ignoriate che qui siamo in Algeri — rispose Zuleik, con ironia. — E sembra pure che dimentichiate che siete un cristiano, che domani o fra una sola ora potrei gettarvi nelle mani d'un carnefice che non vi risparmierebbe di certo, signor di Sant'Elmo. Dove sarebbe allora il mio rivale?
Il barone provò un fremito ed impallidì.
— Voi sareste capace di questo? — chiese.
— E d'altro ancora — disse Zuleik con accento selvaggio. — Quando si trova un ostacolo che impedisce di raggiungere la felicità da tanti anni sognata, i Ben-Abad hanno l'abitudine d'infrangerlo o di spazzarlo via.
— Che cosa volete fare di me, ora che io rappresento per voi quell'ostacolo?
— Sta in voi salvare la vostra vita o perderla.
— Non vi comprendo — disse il barone asciugandosi la fronte stillante sudore freddo.
— Nel vostro paese altre fanciulle non mancano; nel vostro paese avete ricchezza e potenza; siete giovane e valoroso e l'avvenire è vostro. Perché morire quando la vita può ancora arridervi? Se voi lo vorrete, questa notte una feluca vi porterà lontano da queste coste e vi ricondurrà in Italia od a Malta. Gli uomini che la monteranno, risponderanno colle loro teste della vostra vita.
— Partire! — esclamò il barone. — Rinunciare a Ida!
— Preferite morire? Una sola parola detta a Culchelubi e domani il vostro corpo penderebbe da qualche arpione di ferro o si contorcerebbe sulla punta d'un palo d'acciaio. Scegliete, signor di Sant'Elmo.
Nel pronunciare quelle parole, il viso del moro, che poco prima, parlando della sua passione, appariva commosso, si era bruscamente cambiato. Nei suoi sguardi brillava una cupa fiamma ed i suoi lineamenti si erano contratti come quelli di una tigre quando sta per scagliarsi sulla preda. Nella sala regnò per alcuni istanti un profondo silenzio, rotto solamente dal dolce mormorìo dell'acqua frangentesi nel bacino d'alabastro. Il barone guardava Zuleik con smarrimento, cogli occhi dilatati, senza respirare.
— Partire! — ripetè. — Partire senza di lei! No... non speratelo mai, Zuleik. Preferisco la morte!
Il moro non rispose, però a poco a poco il lampo dei suoi occhi si spegneva e la selvaggia e feroce espressione del suo viso si dileguava.
— Non volete partire? — chiese finalmente, con un tono di voce nel quale si sentiva ancora una minaccia. — È la vita che io vi dono.
— Che cosa sarebbe per me la vita senza la donna che amo? La fiamma che brucia il vostro cuore, arde pure il mio e forse con maggior intensità.
Zuleik fece col capo un segno negativo.
— Per salvarla dalla schiavitù che la minacciava, io non ho esitato ad abbandonare la mia galera ed i prodi che condussi tante volte alla vittoria per venire qui, in pieno paese nemico, pronto a sfidare la morte ed i più atroci tormenti e gettare la mia gioventù alla ferocia delle sanguinarie jene d'Algeri. Io ho già fatto il sacrificio della mia vita: la volete? Ebbene, prendetevela, ma partire senza di lei, giammai. Quand'ella saprà che voi mi avrete ucciso, vi odierà, Zuleik Ben-Abad ed io sarò vendicato.
— Sicché preferite farvi uccidere?
— Assassinatemi, se così vi piace — disse il barone, con supremo disprezzo. — Un Sant'Elmo guarda in viso la morte senza impallidire.
— Vi concedo tre giorni di tempo per decidervi: pensate che qui il cristiano si spegne fra i più atroci tormenti. Ne avete un esempio nei fregatari che sono caduti nelle mani dei nostri. Volevo salvarvi, quantunque come mussulmano avessi avuto il dovere di denunziarvi e non lo volete. Si compia il vostro destino.
— La vita a tale prezzo mi sarebbe insopportabile e la rifiuto — rispose il barone.
Zuleik aprì la porta e battè tre colpi su una lastra di metallo.
Due uomini d'aspetto feroce, armati di scimitarre e di pistoloni, comparvero.
— Condurrete quest'uomo nella sala della fontana azzurra — disse loro, indicando il barone. — Fra tre giorni noi ci rivedremo, signor di Sant'Elmo. La notte porta consiglio e ne avete tre dinanzi a voi. Durante questo tempo la mia feluca rimarrà armata, pronta a ricondurvi in Italia e, credetelo barone, sarei ben lieto di conservare la vita ad un giovane valoroso come siete voi.
— Grazie, — rispose il gentiluomo, — ma considero la mia esistenza come finita. Altri penseranno a vendicarmi ed a disputarvi la contessa di Santafiora.
Zuleik aveva fatto un soprassalto.
— Su chi sperate? — chiese, facendo cenno alle due guardie d'uscire.
— In amici devoti che tutto tenteranno per strappare la contessa alla schiavitù. Morto io rimarranno essi e saranno degli avversari formidabili, Zuleik Ben-Abad, e non meno di me.
— Dei rinnegati o dei fregatari?
— Lo saprete quando ve li troverete di fronte — rispose il barone.
Un'estrema ansietà si era diffusa sul viso del moro.
— Forse voi contate sull'uomo che vi accompagnava e che i cabili hanno probabilmente raggiunto e ucciso — disse.
— E su altri ben più potenti — rispose il barone.
— Avrò i nomi dei vostri complici.
— In qual modo.
— Ve li saprò strappare — disse Zuleik che tornava feroce.
— Lo vedremo.
— Fra tre giorni!
— Sì, la morte coi relativi tormenti — disse il barone. — Ecco le jene d'Algeri!
I due guardiani erano rientrati. Afferrarono per le braccia il giovane valoroso e lo trassero sotto il chiosco, facendogli attraversare il cortile.
Il barone si lasciava condurre senza opporre resistenza. Si guardò intorno e trasalì.
Appoggiati alla balaustrata della fontana aveva scorto i due negri, che stavano parlando sommessamente.
Credette dapprima di essersi ingannato, ma ben presto si rassicurò che erano gli istessi che con tanta ostinazione l'avevano seguito dopo l'incontro colla dama misteriosa.
Come si trovavano nel cortile del palazzo? La cosa era tanto strana, che il barone ebbe ancora un ultimo dubbio, eppure dovette convincersi dinanzi all'evidenza del fatto. Indossavano ancora le medesime vesti sfarzose, avevano la fascia di velluto rosso a ricami d'oro e vedendolo passare gli avevano sorriso. I suoi guardiani gli fecero salire una scala di marmo fatta a chiocciola, che conduceva nei piani superiori, poi lo condussero attraverso parecchi corridoi illuminati da piccole finestre moresche, quindi entrare in una vasta sala che riceveva la luce da un'apertura fatta nella vòlta, ma così alta da non poter nemmeno sperare di fuggire per di là.
Anche quella sala aveva le pareti coperte di arazzi ed il pavimento di ricchissimi tappeti e all'intorno divani di broccato e cuscini di seta. Nel mezzo una piccola fontana zampillava, ricadendo in un bacino di porcellana azzurra.
I due guardiani, appena introdottolo, si erano ritirati, lasciandolo solo.
Il barone si era lasciato cadere su un divano, prendendosi il capo fra le mani. Tutta la sua energia pareva che lo avesse improvvisamente abbandonato, ora che non si trovava più dinanzi a Zuleik!
Rimase a lungo immobile, immerso in dolorosi pensieri, facendo solamente, dì quando in quando, un gesto colla mano come se avesse voluto allontanare un'orribile visione, forse quella della morte che ormai gli si rizzava dinanzi. La notte era già scesa, quando una voce dolce, quasi tremula, echeggiò nella sala e lo trasse bruscamente dalle sue tristi meditazioni.
— Povero giovane!
Quelle parole, pronunciate in lingua italiana e che parevano fossero uscite dalle labbra d'una donna, gli erano giunte distintamente agli orecchi. Si era alzato guardandosi intorno col più vivo stupore. Chi aveva pronunciata quella frase? Era ben certo di non essersi ingannato, perché non aveva chiuso ancora gli occhi.
Un raggio di luna che entrava dall'apertura dell'alta vòlta, illuminava un angolo della stanza, ma tutto il resto era immerso in una profonda oscurità che non gli permetteva di discernere nemmeno le pareti di quella sontuosa prigione. Stette alcuni istanti in ascolto, girando lentamente su se stesso, e scrutando tutti gli angoli della sala, chiedendosi se aveva scambiato il sussurrìo della fontana per una voce umana, poi non udendo più nulla, era tornato a sedersi sul divano.
— Mi sarò ingannato — disse. — E poi chi potrebbe compiangere un cristiano!
Si era però appena seduto, quando un profumo delizioso, come di ambra, si sparse per la sala. Giungeva ad ondate, invadendo tutti gli angoli.
Il barone era tornato ad alzarsi, in preda ad una viva emozione, perché quel profumo gli rammentava il biglietto consegnatogli dai due negri, dopo il massacro dei beduini.
— Ma dove sono io? — si chiese. — Che questa sia la dimora della dama misteriosa che mi faceva seguire dai due negri? Ma no, sono pazzo! Questa è la casa di Zuleik.
Si era fermato presso la fontana che continuava a mormorare dolcemente. Suo malgrado si sentiva invadere da un superstizioso terrore. Gli era passata pel capo perfino l'idea che il moro, con una raffinatezza inaudita, si fosse proposto di asfissiarlo con quel profumo che continuava ad espandersi diventando sempre più acuto, dandogli alla testa.
— Che Zuleik abbia scelto questo genere di morte per sbarazzarsi di me — si domandò. — Tutto è possibile a questi mori.
Aveva ben ragione di temere, perché il profumo aumentava sempre e si sentiva invadere a poco a poco da una dolce ma irresistibile sonnolenza. Non era più sola ambra; qualche altra essenza doveva essersi unita, più acuta, più intensa.
Il barone si sentiva la testa diventare di momento in momento più pesante e le palpebre abbassarsi, per quanti sforzi facesse per tenere aperti gli occhi. Prevedendo l'istante in cui sarebbe caduto, a poco a poco si era accostato al divano, che distingueva ancora vagamente fra la penombra.
— Mi uccidono — pensò, rabbrividendo. — È Zuleik che si vendica.
Era appena giunto presso il divano che si sentì mancare improvvisamente le forze. Cercò ancora di reggersi, poi si abbandonò. Una sonnolenza irresistibile lo invadeva, pure i suoi occhi rimanevano ancora aperti, fissi sul fascio di luce lunare che scendeva dalla vòlta, facendo scintillare il mosaico del pavimento.
Ad un tratto in mezzo a quel raggio azzurrino vide comparire una forma umana. Cercò di alzarsi, ma gli fu impossibile. Eppure non dormiva ancora: vedeva e udiva.
Quella forma umana rimase per qualche istante immobile, irradiando intorno a sé uno scintillìo vivissimo, come se il bianco velo che l'avvolgeva tutta, dalla testa ai piedi, fosse cosparso di pelle e di diamanti, poi s'avvicinò senza far rumore al divano, si curvò sul giovane barone e gli mormorò all'orecchio:
— Povero giovane!
Il barone cercò di alzare le braccia per afferrare quella misteriosa creatura, invece le forze lo abbandonarono completamente e le palpebre gli si chiusero come fossero diventate di piombo.
Dormiva, mentre il dolce mormorio dell'acqua, frangentesi nell'azzurra coppa, rompeva solo il profondo silenzio che regnava nella sala.