Le piacevoli notti/Notte II/Favola V

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Favola V

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Notte II - Favola IV Notte III
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FAVOLA V.


Messer Simplicio di Rossi s’innamora in Giliola, moglie di Ghirotto Scanferla contadino: e trovato dal marito in casa, vien sconciamente battuto e pisto, ed a casa se ne torna.


Negar non si può, vezzose donne, che Amore per sua natura gentil non sia: ma rade volte ci concede glorioso e felice fine. Sì come avenne a messer Simplicio di Rossi innamorato; il quale, credendosi godere la persona da lui cotanto amata, si partì da lei carico di tante busse, quante mai uomo potesse portare. Il che saravvi apertamente noto, se alla mia favola, che ora raccontarvi intendo, benigna audienza, sì come è di costume vostro, presterete.

Nella villa di santa Eufemia, posta sotto Campo San Pietro, territorio della celebre e famosa città di Padova, già gran tempo fa, abitava Ghirotto Scanferla, uomo per contadino assai ricco e potente, ma sedizioso e partiggiano; ed aveva per moglie una giovane, Giliola per nome chiamata, la quale, per femina di villa, era da tutti bellissima riputata. Di costei caldamente s’innamorò Simplicio di Rossi, cittadino padoano. E perchè egli aveva la sua casa vicina a quella di Ghirotto, con sua moglie, che era gentile, accostumata e bella, per diporto in contado sovente se n’andava. E quantunque la moglie avesse molte condizioni che la facevano grande, nondimeno egli poco di lei si curava. E tanto era dell’amore di Giliola acceso, che nè di giorno nè di notte non sapeva che fusse riposo alcuno. Questi teneva l’amor suo nascosto nel suo cuore, nè osava in maniera alcuna [p. 117 modifica]scoprirlo, sí per temenza del marito e per la buona vita di Giliola, sí ancora per non dar scandalo alla prudente moglie. Aveva messer Simplicio appresso casa una fonte, di cui risorgevano acque sí chiare e sí saporite, che non pur e vivi, ma ancor e morti ne arebbeno potuto bere. Onde che Giliola e mattina e sera e secondo che le facea bisogno, alla chiara fonte se n’andava, e con una secchia di rame attingeva l’acqua, ed a casa la portava. Amor che veramente a niuno perdona, molto messer Simplicio spronava; ma pur conoscendo la vita che ella teneva e la buona fama che ne rispondeva, non ardiva di farle motto alcuno, ma solo alle volte con il vederla si nodriva e consolava il cuore. Di che ella non sapeva, nè mai di tal fatto accorta si era; perciò che, come femina di buon nome e di buona vita, al marito e alla casa sua, e non ad altro attendeva. Or andando un giorno Giliola alla fonte, sí come era sua usanza, per attingere l’acqua, per aventura in messer Simplicio s’incontrò, al quale ella semplicemente, sí come ogni altra femina fatto arrebbe, disse: Buon giorno, messere; — ed egli le rispose: Ticco, — pensando con tal parola doverla intertenere ed alquanto domesticare; ma ella, più oltre non pensando, altro non diceva, ma se ne andava per e fatti suoi. Aveva messer Simplicio più e più volte data cotal risposta a Giliola che ogni volta che lo vedeva, lo salutava; ma ella, che della malizia di lui non s’avedeva, col capo basso a casa si ritornava. Continovando adunque in cotal risposta messer Simplicio, venne in animo a Giliola di dirlo a Ghirotto suo marito. Ed essendo un giorno in dolci ragionamenti con esso lui, disse: marito mio, io vi voglio dire una cosa, che voi forse ve ne riderete. — Che cosa? disse Ghirotto. — Ogni volta, disse Giliola, [p. 118 modifica]che io me ne vado alla fonte per attingere dell’acqua, io trovo messer Simplicio e gli do il buon giorno, ed egli mi risponde: Ticco. Io ho più e più volte considerata tal parola, nè mai mi ho possuto imaginare che si voglia dire, Ticco. — E tu, disse Ghirotto, che gli hai risposto? — Io, disse Giliola, nulla gli ho mai risposto. — Ma fa, disse Ghirotto, che se egli più ti dice: Ticco, che tu gli risponda: Tacco; e vedi e attendi bene a quello che egli ti dirà, e non gli risponder altro, ma vientene secondo l’usanza tua a casa. Giliola, alla solita ora andatasene alla fonte per acqua, trovò messer Simplicio, e diegli il buon giorno. Ed egli, secondo l’uso suo, — Ticco, le rispose. E Giliola replicando sí come il suo marito ammaestrata l’aveva, disse: Tacco. Allora messer Simplicio tutto invaghito, e pensando che ella dell’amor suo se ne fusse aveduta, ed imaginandosi di averla à suoi comandi, prese alquanto di ardire, e disse: Quando vengo? Ma Giliola, sí come il marito imposto le aveva, nulla rispose: e ritornata a casa, ed addimandata dal marito come andata era la cosa, disse che ella fatto aveva tanto quanto egli le aveva ordinato, e che messer Simplicio detto le aveva: quando vengo? e che ella altro non gli aveva risposo. Ghirotto, che era uomo astuto, quantunque contadino fusse, ed agevolmente comprendeva le parole di messer Simplicio, tra sè molto si turbò, ed imaginossi quelle parole importar altro che infilzar perle al scuro: e disse alla moglie: Se tu vi torni più, ed egli ti dica: quando vengo? rispondeli: questa sera: e ritorna a casa, e lascia far a me. Venuto adunque il giorno seguente, Giliola secondo l’usanza sua andò per cavare l’acqua della fonte, e trovò messer Simplicio che con sommo desiderio l’aspettava, e dissegli: Buon giorno, messere. [p. 119 modifica]A cui messer Simplicio rispose: Ticco; — ed ella a lui disse: Tacco. Ed egli a lei: Quando vengo? — In questa sera! Giliola rispose. Ed egli — In questa sera sia, disse: Ritornata Giliola adunque a casa, disse al marito: Io ho operato tanto quanto imposto m’avete. — E che ti ha egli risposto? disse Ghirotto. — In questa sera sia, disse Giliola. Ghirotto, che già aveva carico lo stomaco d’altro che di lasagne e di maccheroni, disse: Giliola, andiamo a misurare dodici sacchi di biada, perchè io voglio fingere di andare al molino; e venendo messer Simplicio, fagli accoglienze, e ricevilo onoratamente. E fa che tu abbi apparecchiato uno sacco vuoto appresso quelli che pieni saranno di biada: e come tu sentirai ch’io sia giunto a casa, fa che entri nel sacco apparecchiato e si nascondi; e poscia lascia l’impaccio a me. — E’ non vi sono in casa tanti sacchi che siano al numero che voi volete, disse Giliola. Disse allora Ghirotto: Manda la Cia vicina nostra da messer Simplicio: e fa ch’egli te ne impresti duo: e fa che gli dica che io gli voglio per andar questa sera al molino. E tanto fu fatto. Messer Simplicio che ottimamente considerate aveva le parole della Giliola, e veduto come egli aveva mandato a richieder duo sacchi imprestito, credendo veramente che ’l marito se n’andasse al molino, si trovò il più felice ed il più contento uomo del mondo: pensando tuttavia che ancor ella fusse del lui, come egli del lei amore accesa; ma non s’avedeva il poverello di ciò che era ordito e tramato contra lui, perciò che forse più cautamente sarebbe proceduto di quello che egli fece. Messer Simplicio che nel cortile aveva molti buoni caponi, ne prese duo e de gli migliori; e mandolli per lo suo valletto a Giliola, commettendoli che li facesse cucinare, che verrebbe [p. 120 modifica]la sera a lei secondo l’ordine dato. Venuta la bugia notte, messer Simplicio nascosamente di casa si partì: ed alla casa di Ghirotto se n’andò: e da Giliola fu graziosamente ricevuto. Vedendo allora messer Simplicio i sacchi pieni della biada, e credendo che ’l marito fosse andato al molino, disse a Giliola: Dov’è Ghirotto? Io credevo che oramai egli fusse al molino; ma vedendo i sacchi ancor qui in casa, non so che dirmi. Rispose Giliola: Messer Simplicio, non vi ramaricate, nè abbiate punto di paura, che ’l tutto passerà bene. Sapiate che nell’ora di vespro venne qui a casa suo cognato, e gli disse come la sorella sua era molto gravata da una continova febbre, e che la non vederebbe dimane. Onde egli, montato a cavallo, se ne è partito per vederla innanzi che la moia. Messer Simplicio, che ben semplice chiamar si poteva, credendo ciò esser il vero, s’acchetò. Mentre che Giliola s’affaticava di cuocere i caponi ed apparecchiare la mensa, ecco che Ghirotto suo marito sopragiunse nel cortile; ed avendolo Giliola sentito, e fingendo di esser addolorata, disse: Ahi, miseri noi, che siamo morti: — e senza metter indugio alcuno, ordinò che messer Simplicio entrasse nel sacco, che ivi vuoto era rimaso: ed entratovi dentro, quantunque non molto volontieri v’intrasse, accostò il sacco, con messer Simplicio, dietro a gli altri sacchi che erano pieni di biada, ed aspettò che ’l marito venisse in casa. Venuto Ghirotto in casa, e veduta la mensa apparecchiata ed i caponi che nella pentola si cucinavano, disse alla moglie: Che vuol dire questa sontuosa cena che parata mi hai? A cui Giliola rispose: Io pensavo che voi doveste ritornare stanco e lasso a casa, ancor che mezza notte fusse; ed acciò che voi poteste rifocillarvi alquanto e mantenervi nelle fatiche che di [p. 121 modifica]continovo fate, io vi ho voluto apparecchiare alcuna cosa di sostanza a cena. — Per mia fè, disse Ghirotto, che tu hai fatto gran bene; perciò che mal disposto mi trovo, e non vedo l’ora di cenare e andarmene a riposare, acciò che domattina per tempo io possi girmene al molino. Ma prima che noi se n’andiamo a cena, io voglio che noi vediamo se gli sacchi, apparecchiati per andar al molino, sono al peso e giusti. Ed accostatosi a gli sacchi, li cominciò prima annomerare, e trovolli tredeci; e fingendo di non averli bene annomerati, da capo li tornò a raccontare: e ritrovandoli pur tredeci, disse alla moglie: Giliola, e che vuol dire che gli sacchi sono tredeci? E pur n’abbiamo apparecchiati solamente dodeci: E dove viene questo? A cui ella rispose: Io so che quando noi insaccassimo la biada, gli sacchi erano dodeci: ma come sia aggiunto il terzo decimo, io non ve lo so dire. Messer Simplicio che nel sacco si stava e ben sapeva che erano tredeci, che così per lui non fussero stati: stavasi cheto, e tra se stesso dicendo Pater nostri bassi, maladiceva lei ed il suo amore e sè che fidato se n’era; e se uscire delle sue mani avesse potuto, volontieri si sarebbe fuggito: e quasi più temeva il scorno assai che ’l danno. Ma Ghirotto che ’l sacco ben conosceva, lo prese e lo strassinò fino fuori de l’uscio che astutamente aveva fatto lasciare aperto: e questo, perchè, dandogli delle busse, avesse campo largo di uscire del sacco e fuggire alla buona ventura. Aveva preso Ghirotto un bastone nodoso, a tal effetto apparecchiato, e lo incominciò sí fattamente pistare, che non gli rimase membro che tutto pisto e rotto non fusse: e poco mancò che morto non rimanesse. E se non fusse stata la moglie che per pietà o per temenza del marito che bandito non fusse, glielo tolse [p. 122 modifica]di mano, facilmente ucciso l’arrebbe. Partitosi adunque Ghirotto ed abbandonata l’impresa, messer Simplicio se ne uscì del sacco: e così maltrattato a casa se n’andò, parendoli di aver Ghirotto col bastone sempre alle spalle. E messosi in letto, stette molti giorni innanzi che riaver si potesse. Ghirotto fra questo mezzo con la sua Giliola a costo di messer Simplicio avendo ben cenato, se ne andò a riposare. Passati alquanti giorni, la Giliola andando alla fonte vide messer Simplicio che passeggiava nella loggetta della sua casa: e con allegro viso lo salutò, dicendo: Ticco. Ma messer Simplicio che ancor sentiva le battiture per tali parole ricevute, altro non le rispose fuor di questo:

Nè più buon dì, nè più Ticco, nè Tacco,
     Donna, che non m’avrai più nel tuo sacco.

Il che udendo, Giliola si tacque, ed arrossita ritornossi a casa. E messer Simplicio, così stranamente trattato, mutò pensiero; ed alla moglie, che quasi in odio aveva, con maggior cura ed amorevolezza attese, odiando le altrui, acciò che più non gli avenisse ciò che per lo adietro avenuto gli era.

Già era finita la favola da Vicenza raccontata, quando le donne ad una voce dissero: Se il Trivigiano ha maltrattate le donne con la sua favola, parimente Vicenza con la sua peggiormente ha mal trattato gli uomini, lasciando messer Simplicio per le ricevute busse tutto franto e pisto. E perciò che tutti ridevano, chi l’una cosa e chi l’altra dicendo, la Signora comandò che oramai si mettesse termine alle tante risa, e che Vicenza con lo enimma l’ordine seguisse. La quale, vedendosi quasi vittoriosa dell’ingiuria fatta dal Trivigiano alle donne, in tal guisa il suo enimma incominciò: [p. 123 modifica]

Mi vergogno di dir qual nome m’abbia:
     Sì son aspra al toccar, rozza al vedere:
Gran bocca ho senza denti, ho rosse labbia,
     Negra d’intorno e più presso al sedere.
L’ardor spesso mi mette entro tal rabbia,
     Che fammi gettar spuma a più potere.
Certo son cosa sol da vil fantesca,
     Ch’ogn’un a suo piacer dentro mi pesca.

Non si potevano gli uomini dalle risa astenere, quando videro le donne ponersi il capo in grembo e sorridere alquanto. Ma la Signora, a cui l’onestà molto più che la disonestà aggradiva, guatò con rigido e turbato viso Vicenza, e dissele: Se io non avesse rispetto a questi gentiluomini, io ti farei conoscere quello che importa il sozzo e disonesto dire; ma per questa fiata ti sia perdonato: e fa che ne l’avenire tal cosa, o simil, più non t’intervenga, perchè sentiresti ciò che vale e puote la mia Signoria. Vicenza, tutta arrossita come mattutina rosa, e vedendosi sí sconciamente improperare, prese alquanto d’ardimento, ed in tal guisa rispose: Signora mia, s’io avesse detto parola alcuna che offendesse le orecchie vostre e di queste onestissime madonne, io veramente sarei degna non pur di riprensione, ma di aspro castigo. Ma per che le parole mie sono state semplici e pure, non meritano questa acra riprensione. E che questo sia il vero, la interpretazione dell’enimma, malamente da voi inteso e considerato, dimostrerà la innocenza mia. Lo enimma adunque altro non significa eccetto che la pentola che d’ogni intorno è nera, e dal fuoco fieramente riscaldata, bolle e gitta d’ogni parte la spuma. Ella ha la bocca grande, ed è senza denti; e tutto ciò che dentro se gli pone, [p. 124 modifica]abbraccia: ed ogni vil fantesca dentro vi pesca, quando si minestrano le vivande a’ patroni quando desnino o cenano. Intesa l’onesta interpretazione dello enimma, tutti gli uomini e parimente le donne molto commendorono Vicenza, e falsamente dalla Signora esser stata ripresa la giudicorono. E perciò che l’ora era molto tarda, e già incominciava la rosseggiante aurora scoprirsi, la Signora, senza altra iscusazione fare della sua ammonizione, licenziò la brigata, comandando a tutti che nella sera seguente, sotto pena della disgrazia sua, ognuno più per tempo al concistorio si riducesse.



Il fine della seconda notte.