Le piacevoli notti (1927)/Notte decimaterza/Favola decima

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Notte decimaterza - Favola decima

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FAVOLA X.

Cesare Napolitano, lungamente stato in studio a Bologna, prende il grado del dottorato; e venuto a casa, infilza le sentenzie per saper meglio giudicare.

[Cateruzza]

Tre cose, leggiadre donne, distruggono il mondo e mandano ogni cosa sottosopra: la pecunia, il dispetto e rispetto. Il che agevolmente potrete intendere, se alla mia favola benigna audienza prestarete.

Lodovico Mota, sí come avete altre volte inteso, fu uomo aveduto, saggio e di primai della città di Napoli; e non avendo moglie, prese per donna la figliuola di Alessandro di Alessandri, cittadino napolitano, e di lei ebbe un solo figliuolo, a cui pose nome Cesare. Venuto il figliolo grandicello, gli diede un precettore, che gl’insegnasse le prime lettere. Indi mandollo a Bologna per studiare in ragion civile e ragion canonica, e ivi avealo tenuto lungo tempo; ma poco profitto avea però egli fatto. Il padre, desideroso che il figliuolo diventasse eccellente, gli comprò tutti e’ libri di giureconsulti di ragion canonica e di dottori, che hanno scritto nell’una e nell’altra facoltà, e pensava che egli di gran lunga superasse tutti i causidici di Napoli, e davasi ad intendere che per tal causa gli avessino a toccare de’ buoni clientuli e cause di molta importanzia. Ma Cesare, dottissimo giovane, mancandogli i primi fondamenti legali1 , era cosí nudo di lettere, ch’egli non intendeva quello che leggeva, e quello ch’aveva imparato recitava con grande audacia, anzi senza ordine, e preposteramente, ponendo una cosa al contrario dell’altra, e dimostrando l’ignoranza sua, perciò che togliendo il vero per lo falso e il falso per lo vero, contendeva molte volte con gli altri. E cosí come un otre pieno [p. 221 modifica]di vento ne andava alla scuola, turati gli orecchi e facendo castelli in aria; e perchè a tutti quelli che sono ignoranti, è in bocca quel detto che dice che gli è cosa disdicevole e brutta il studiare a quelli c’hanno molte ricchezze, cosí costui ch’era ricco, o poco niun profitto fece ne’ studii di ragion civile e canonica. Per il che volendo con la sua ignoranzia agguagliarsi a coloro ch’erano dottissimi, nè avevano perso l’oglio e il tempo ne’ continoi studij, tentò prosontuosamente d’ascendere al grado del dottorato. Propose adunque il fatto in senato, e accettati i punti della disputa in presenzia del popolo fece publicamente la sperienza, dimostrando il nero per il bianco e il verde per il nero, credendo esso cieco che parimenti gli altri fussero ciechi. Nondimeno per buona sorte, sí per danari, sí per gran favore e amicizia, fu approvato e fatto dottore. Per il che accompagnato da gran comitiva di onorate persone, andando per la città con suoni di trombe e piffari, venne a casa con veste di seta e di porpora, sí che parea piú presto uno ambasciatore, che un dottore.

Un giorno questo eccellente magnate, vestito di porpora con la stola di veluto, fece alcune cartelle, e legatele a guisa delle filze de’ notai, quelle riponeva in un certo vaso. E sopravenendogli per aventura il padre, gli adimandò quello che far volesse di quelle carte. A cui diede egli questa risposta: — Trovasi scritto, o padre, ne’ libri di ragion civile che le sentenzie si deono connumerare tra i casi fortuiti. Io che ho considerata la mente e non la corteccia della legge, ho fatto queste filze per sorte, nelle quali ho notate alcune sentenzie, le quali, a Dio piacendo, quando pel vostro aiuto sarò giudice della gran corte, pronunzierò senza fatica a’ litiganti. Non vi par egli, padre, ch’io abbia sottilmente investigato questa cosa? — Il padre, inteso questo, rimaso pel dolor mezzo morto, voltò le spalle, lasciando il disutel figliuolo nell’ignoranza sua. —

  1. [p. 239 modifica]leggali, ’53 e ’54