Le stragi della China/13. Il campo di Palikao

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13. Il campo di Palikao

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12. La vittoria dei banditi 14. Il supplizio dei pettini

13.

Il campo di Palikao


Due ore dopo i banditi lasciavano il tempio marciando verso il settentrione, onde giungere all’accampamento dei boxers, che era stato piantato ad oriente di Pechino, a Palikao, piccolo borgo già famoso per la sconfitta subita dai cinesi dall’armata anglo-francese, durante la spedizione del 1860.

Dietro ad un piccolo drappello d’avanguardia, composto d’una ventina di banditi armati di fucile, venivano tre piccole gabbie di bambù, sorrette da pertiche portate a spalla da uomini robusti.

Entro esse, malamente rannicchiati in causa della strettezza, si trovavano padre Giorgio, Enrico e Sheng. I disgraziati non potevano fare quasi nessun movimento, nemmeno per sbarazzarsi dalle mosche e dalle zanzare che li martirizzavano. Guai se avessero dovuto rimanere lungo tempo là dentro!

Per trasportare i loro prigionieri, i cinesi fanno uso di queste gabbie e si studiano di costruirle più piccole che sia possibile, perché i miseri che vi entrano non possano muoversi. E si noti che talvolta li tengono rinchiusi per dei mesi, trasportandoli sovente da provincie lontanissime, specialmente quando trattasi di prigionieri politici che devono venire giudicati dal consiglio dell’impero che ha sede a Pechino.

Dietro alle tre gabbie, guardato da quattro banditi, veniva il signor Muscardo.

Camminava libero, eppure doveva molto invidiare i suoi compagni rannicchiati fra i bambù e portati come polli che si mandano al mercato.

Come già dissi, il mandarino, esasperato dalla calciata di fucile datagli così opportunamente dall’ex bersagliere, aveva chiesto al capo dei banditi di cercargli una kangue.

Questo istrumento di tortura, è molto usato in Cina. Consiste in una tavola pesante quindici, venti e anche trenta chilogrammi, con un buco nel mezzo e due più piccoli dai lati.

Il paziente viene così ad avere il collo e le mani rinchiusi in quei fori ed a sorreggere le tavole sulle spalle.

Il supplizio non sarebbe forse tanto atroce, quantunque i disgraziati, che devono sopportarlo, si condannino talvolta perfino a tre mesi di questa pena, se non si trattasse della fame.

Il paziente, avendo le mani imprigionate, si trova nell’assoluta impossibilità di nutrirsi da se stesso, quindi deve aspettare il beneplacito dei carcerieri. Accade così, e molto di frequente, che siano morenti di fame per incuria o per malvagità di coloro che sono incaricati di nutrirli.

Quando hanno scontata la pena, tutti sono spaventosamente magri ed hanno piaghe orribili ai polsi ed al collo. Molti non riescono a sopportare il supplizio e ci lasciano la pelle dopo qualche mese.

Il signor Muscardo, appena aveva veduto la kangue portata dal bandito, aveva indovinato a chi la destinavano. Preso da un tremendo accesso di furore, aveva opposto una disperata resistenza, rompendo la testa a più d’un boxer, poi aveva dovuto cedere al numero e lasciarsi imprigionare il collo ed i polsi.

— Mi darete almeno da mangiare, canaglie! — aveva urlato contro il mandarino che si puliva ancora del sangue.

— Sì, per prepararti bene al grande viaggio — aveva risposto Ping-Ciao, con un sogghigno atroce.

La banda s’era messa in cammino di buon passo, frettolosa di giungere a Palikao e godersi il supplizio degli stranieri.

Ping-Ciao non aveva ancora rivolta alcuna parola al missionario dopo che lo aveva catturato. Era molto probabile che aspettasse il momento di vederlo dibattersi fra le torture per strappargli le confessioni che desiderava.

Se non gli parlava, non lo perdeva di vista un solo istante. Ogni dieci o quindici passi lasciava il capo dei banditi che gli teneva compagnia, per andarlo a vedere e gettargli addosso sguardi pieni d’odio feroce.

Anzi raccomandava ai portatori della gabbia di non sballonzolarlo troppo ruvidamente per paura che glielo guastassero.

— Quante attenzioni — diceva il signor Muscardo, dimenando la testa entro la strettoia. — Diventa gentile quel gaglioffo. Ah! Se avessi qui una sola mezza compagnia dei miei bersaglieri! Come li farei ballare bene questi bricconi!

A tre miglia dalla palude, la colonna si univa con una piccola truppa di marinai comandata da Sum. Il capitano della guardia imperiale, avvertito della cattura del missionario, era prontamente accorso per congratularsi col mandarino e per godere la sua parte di spettacolo.

— Ora non ci sfuggirà più — disse a Ping-Ciao. — Saremo in due a guardarlo.

— Non oserei dormire di notte per paura che quel cristiano mi sparisse — rispose il mandarino. — Se dovessimo trasportarlo più lontano, lo farei rinchiudere in dieci gabbie ed incatenare.

— Palikao è vicino e fra un paio d’ore noi saremo in mezzo ai ribelli. E di Wang hai saputo nulla?

— Non ho ancora interrogato il sacerdote.

— E perché non l’hai fatto?

— Me lo dirà poi, non aver timore.

— E perdonerai a tuo figlio?

— Non so nulla — rispose il mandarino, con voce cupa. — Vi sono dei giorni in cui mi sento tentare da un atroce desiderio di strappargli il cuore!

— A Wang! — esclamò Sum, senza nascondere il suo orrore. — Tu uccideresti tuo figlio?

— Egli è diventato cristiano e tutto il popolo cinese è insorto per sterminare i seguaci della nuova religione.

— Non lo fare, Ping-Ciao!

— Non ti posso dire né sì né no in questo momento.

— E di questi europei, cosa farai?

— E me lo domandi?

— Li ucciderai tutti?

— E fra i più atroci tormenti.

— Potrai disporre della loro vita?

— Chi si opporrà ai miei voleri? Io sono un consigliere dell’impero.

— Io credo invece che tu ci risparmierai, briccone! — disse il signor Muscardo, che, trovandosi dietro al mandarino ed al suo compagno, aveva udito quel discorso.

Ping-Ciao s’era voltato guardando l’ex bersagliere fieramente.

— Sarai tu che m’impedirai di trucidarvi? — gli chiese, con voce ironica.

— Sì, mio caro mandarino — rispose il signor Muscardo, nel cui cervello era balenata in quel momento un’idea meravigliosa.

— Ed in qual modo?

— Tu non sai dove si trova tuo figlio.

— È vero.

— Lo sappiamo ben noi.

— Lo so e prima di uccidervi vi torturerò per strapparvi la confessione che desidero.

— E questa confessione sarebbe?... — chiese il signor Muscardo, sempre ironico.

— Di farvi dire ove si trova Wang.

— Sembra che ti prema molto il saperlo.

— Sì, cane di un europeo.

— Allora senza aspettare la tortura, te lo dirò io.

— Come! Tu parlerai? — esclamò il mandarino.

— Se lo desideri.

— E mi dirai dove si trova mio figlio?

— Sì, Ping-Ciao.

— Dimmelo subito!

— Adagio, mio caro mandarino.

— Dimmelo o ti faccio stringere la kangue fino a farti spezzare la colonna vertebrale.

— Allora non potrei più parlare. D’altronde non occorre che tu faccia delle minacce che non hanno alcuna presa su di me; poiché parlerò ugualmente.

— Strappami queste inquietudini che mi lacerano il cuore!

— Ah! — esclamò l’ex bersagliere. — Tu sei inquieto! Io credevo invece che il cuore dell’illustre mandarino e consigliere dell’impero fosse tranquillo non ostante le tante bricconate commesse fino ad oggi. Che siano le vittime di Ming che ti guastano i sonni?

— Taci! — urlò il mandarino. — Lascia in pace i cristiani di Ming! Parlami invece di mio figlio, di Wang. Dove si trova?

— Ti ho già detto che io lo so.

— Dimmelo allora! Vuoi farmi morire d’impazienza, carnefice?

— Si trova in un luogo sicuro, guardato da uomini che non appartengono alla tua razza.

— Mio figlio in mano degli stranieri! — gridò il mandarino, pallido d’ira.

— Noi siamo stati più astuti di te, mio caro consigliere dell’impero — disse il signor Muscardo.

— Spiegati meglio, perché non ti comprendo.

— Come non indovini? Eppure tu sei un grande mandarino.

— Non ho il potere di indovinare le trame infernali degli europei.

— Ti ho detto che noi siamo stati più furbi di te e per ora basta. Al momento opportuno mi spiegherò meglio.

— Lo voglio ora! — urlò il mandarino.

— Non mi strapperai una sola parola di più — rispose l’ex bersagliere, con voce ferma.

— Ti farò levare la lingua!

— Ed allora non potrei più parlare.

— Ti farò rompere una mascella col teiu!

— Oh! Davvero?

— E poi ti farò tagliare in diecimila pezzi!

— E gli altri uccideranno tuo figlio.

— Hai detto? — gridò il mandarino, con voce strozzata.

— Basta, chiacchierone! Non parlerò più!

— Sì, lo uccideranno per impastare col suo sangue il vostro pane sacro! Me lo hanno detto che ai cristiani abbisogna sangue umano! Tutti lo sanno!

— Ping-Ciao, tu sei un cialtrone e fai torto alla tua sapienza a credere a simile fole. Coloro che lo asseriscono mentono infamemente.

— Me lo hanno assicurato persone degne di fede!

— Sì, lo hanno inventato per eccitare la plebe contro i cristiani.

— Rendetemi mio figlio! — ruggì il mandarino. — È carne della mia carne!

— Non te lo hanno ancora mangiato.

— Guai a voi, se dovessi perderlo! — gridò il mandarino, pazzo di furore.

— E guai a te se tu dovessi far cadere un capello delle nostre teste! La vita di tuo figlio risponderà per la nostra.

— Ah! Sì? La vedremo, cani di cristiani!

Ciò detto il mandarino passò alla retroguardia dove si trovava il capo della banda.

Il signor Muscardo invece affrettò il passo, avvicinandosi all’ultima gabbia nella quale si trovava padre Giorgio.

— Fratello — disse in lingua italiana, perché nessuno potesse comprenderlo. — Comincio a sperare!

— Ho veduto Ping-Ciao minacciarti.

— Egli trema di paura. Non una parola su Wang; lascia fare a me e vedrai che noi riusciremo a qualche cosa.

Una violenta spinta, che fece oscillare il kangue scorticandogli il collo, gli impedì di proseguire.

— Silenzio — gridò uno dei guardiani, minacciandolo col calcio del fucile.

— Appiccati, birbante — rispose l’ex bersagliere, allungandogli una pedata. — Bada che il mandarino ti guarda e che noi siamo persone sacre per ora.

— Vedremo se Ping-Ciao vi risparmierà — rispose il bandito. — Avanti e silenzio!

La colonna intanto marciava con crescente rapidità, attraversando campagne già devastate dai boxers.

Si vedevano rovine dappertutto. Dei villaggi, poco prima numerosissimi, non rimanevano che poche muraglie annerite dalle fiamme e delle palizzate mezze distrutte.

Di quando in quando dei grossi stormi di corvi piombavano su quei miseri avanzi, crocidando lugubremente: delle pestifere esalazioni annunciavano la presenza di cadaveri lasciati insepolti nei solchi dei campi.

I ribelli, pari alle orde sterminatrici di Attila e di Gengis Khan, tutto avevano distrutto sul loro passaggio, case, abitanti e raccolti.

Giunta la colonna a qualche miglio da Palikao, scorse verso occidente una immensa nuvola di fumo che si elevava a prodigiosa altezza.

Sum e Ping-Ciao si erano fermati a guardarla.

— La capitale brucia! — esclamò il mandarino, il quale non poté frenare un brivido.

— Sì, Pechino è in fiamme — rispose Sum.

— Che i ribelli siano già entrati?

— Essi stanno assaltando le ambasciate europee. Hanno giurato di distruggerle.

— E l’imperatrice lascia fare?

— Io suppongo che a quest’ora l’imperatrice abbia finito di regnare e che anche il giovane imperatore non sia più nel numero dei viventi.

— Allora a Pechino si deve nuotare nel sangue.

— Si dovevano uccidere tutti i partigiani dell’imperatore. Così aveva detto il capo supremo dei boxers.

— E noi? — chiese il mandarino, impallidendo.

— Noi ci divideremo più tardi il potere — rispose Sum. — Il capo ha promesso a noi cariche ed onori.

— Si sfasci anche l’impero allora — disse il briccone.

In quel momento la colonna entrava in Palikao.

Di questo villaggio, importante solamente perché dominava contemporaneamente il Canale Imperiale ed il fiume Pei-ho, ossia le due vie fluviali che conducevano a Pechino, i ribelli ne avevano fatto il loro quartiere generale onde impedire l’avanzamento delle truppe europee.

Orde numerosissime, disordinate, ebbre di sangue e di saccheggio, si erano accampate confusamente attorno alle case, spingendo le loro ali fino al fiume ed al canale.

Era una moltitudine composta dei più barbari e dei più sanguinari abitanti dell’impero. Vi erano uomini di tutte le provincie e di tutte le religioni, buddisti, confuciani e maomettani, esclusi i cristiani.

Nessuna coesione e nessuna disciplina regnava fra quei predoni piombati su Pechino per esterminare gli europei e per avidità di saccheggio. Il numero però suppliva l’una e l’altra e già le truppe imperiali che si erano provate a batterli, avevano subiti degli scacchi sanguinosi.

All’annunzio sparsosi che la colonna recava dei cristiani, una folla immensa si era rovesciata verso le gabbie. Era così inferocita, da temere che i prigionieri non potessero andare molto innanzi. Ping-Ciao, Sum ed il suo capo, visto il pericolo, si erano stretti attorno alle gabbie comandando ai banditi di far fuoco al primo tentativo di strappare a loro i prigionieri.

La folla, che aumentava di momento in momento, si pigiava addosso ai banditi con aria minacciosa. Insultava i disgraziati rannicchiati nelle gabbie, li minacciava coi coltelli, colle picche, colle scimitarre, coi fucili, colle forche, sputando loro addosso.

Il signor Muscardo poi, era particolarmente fatto segno alla rabbia di quei furiosi. Lo si scherniva, gli tiravano addosso frutta marce, sassi, manate di terra e si cercava di farlo ruzzolare al suolo perché si scorticasse il collo.

Il brav’uomo, a cui la pazienza faceva difetto, rispondeva con un torrente d’ingiurie e quando qualcuno gli giungeva a tiro, non potendo far uso delle mani, distribuiva pedate così poderose da far strillare dolorosamente coloro che le prendevano.

Quella resistenza da parte dell’ex bersagliere, eccitava maggiormente la rabbia di quei birbaccioni.

— De-hervei! — urlavano.

— Accoppatelo.

— Fate provare a loro il ling-cih (taglio dei diecimila pezzi).

— No, applicate il supplizio degli schiaffi per ora.

— Strappate a loro la lingua.

— A morte! A morte!

E le armi si alzavano minacciose e le mani si allungavano verso le gabbie e la kangue per strappare e massacrare i prigionieri.

I banditi, che erano uomini di fegato, non si lasciavano né vincere, né intimorire. Coi calci dei fucili percuotevano i più vicini obbligandoli a retrocedere ed a lasciare il passo libero, minacciando ad ogni momento di fare fuoco.

— Dove li conduciamo? — chiese Ping-Ciao, che temeva glieli strappassero di mano.

— Nel campo della giustizia — rispose il capo dei banditi.

— Saranno sicuri colà?

— Nessuno oserà toccarli.

— Andiamo presto o ce li porteranno via prima di giungervi.

I banditi, continuando a percuotere senza misericordia, riuscirono finalmente a farsi largo e partirono di corsa, seguìti sempre da quella folla furibonda che agitava le armi.

Dopo cinque minuti entravano in un vastissimo recinto formato da una robusta palizzata e guardato da numerosi drappelli di boxers armati di fucili e da qualche pezzo di cannone.

Tutto all’intorno vi erano delle capannucce molto basse, con le mura di fango secco ed i tetti di paglia e nel mezzo una vasta tettoia dove sedevano otto o dieci straccioni, veri manigoldi, che avevano la pretesa di amministrare la giustizia.

Due o tre di loro, muniti di pennelli grondanti inchiostro di china, e che fra i mongoli surrogano le nostre penne, scarabocchiavano dei fogli di carta. Erano i cancellieri di quel sanguinario tribunale.

Il recinto presentava uno spettacolo atroce poiché era l’ora delle esecuzioni. File di prigionieri, per la maggior parte cinesi, accusati di aver abbracciata la religione cristiana, attendevano la loro sorte.

Intorno alla tettoia, una squadra di carnefici improvvisati, eseguiva le sentenze pronunciate dal tribunale, fra urla acute, pianti, lamenti.

Alcuni condannati subivano la pena della fustigazione. Per bastonarli meglio, i carnefici cinesi stendono a terra il paziente, gli scoprono le reni e il sedere e l’uno dirimpetto all’altro, seduti sul collo e sulle gambe del condannato, lo percuotono con gran vigore, adoperando dei bambù che vengono sempre tenuti in acqua perché rimangano elastici.

I colpi si succedono con una rapidità prodigiosa e conviene di quando in quando fermarsi perché il torturato possa rifiatare, altrimenti correrebbe il pericolo di morire soffocato.

La pena minore arriva ai venti colpi; per la grave a cento e anche a centocinquanta ed allora il suppliziato diventa un ammasso di carne sanguinolenta.

Ad altri cristiani infliggevano invece pene più atroci, facendo sfoggio d’una crudeltà inaudita. Ve ne erano di quelli che subivano il supplizio degli schiaffi, pel quale si adopera una specie di suola formata da quattro lamine di cuoio.

Basta un colpo per rompere i denti o fracassare la mascella.

Ve n’erano di quelli che avevano le gambe rinchiuse in morse di legno che i carnefici stringevano fino a schiacciare la noce dei piedi; altri che subivano la scorticazione, la quale consiste nel fare delle leggere incisioni sul corpo del paziente e poi strappare la pelle a listelle piccolissime.

Molti invece venivano decapitati, pena assai temuta dai cinesi perché considerata infamante e applicata ordinariamente ai più famigerati delinquenti.

Il signor Muscardo, nauseato da quelle barbarie, aveva chiuso gli occhi per non vedere quel macello. Enrico e padre Giorgio si erano nascosti il viso fra le mani. Solamente Sheng, abituato a quei crudeli spettacoli, guardava freddamente, senza manifestare alcuna commozione.

La colonna, attraversato quel campo di sangue, si fermò dinanzi ad una capanna, presso la quale dodici cinesi rinchiusi in una gabbia tanto stretta da impedire a loro di fare qualsiasi movimento, urlavano spaventosamente. Erano cristiani stati condannati a morire lentamente di fame.

— Cannibali! — urlò l’ex bersagliere, al colmo dell’indignazione. — Date da mangiare a quei miseri.

E vedendo Ping-Ciao e Sum, gridò loro:

— Voi vi disonorate dinanzi alla civiltà europea.

I due soci si limitarono ad alzare le spalle.

Il capo, invece, spinse ruvidamente l’ex bersagliere dentro la capanna, facendo deporre presso di lui le tre gabbie contenenti i compagni.

— Liberami almeno della kangue! — gridò il signor Muscardo.

— Sì, quando ti taglieremo la testa — rispose il bandito.

— Muori, mascalzone!

Il capo se n’era già andato, chiudendo la porta.