Le stragi della China/14. Il supplizio dei pettini

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14. Il supplizio dei pettini

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14.

Il supplizio dei pettini


La capanna che serviva da prigione ai quattro disgraziati, in attesa di venire messi a morte fra i più spaventevoli supplizi, era così poco vasta che appena potevano starvi le tre gabbie e così bassa che il signor Muscardo era costretto a starsene accoccolato.

Solo un piccolo spiraglio, così stretto da non permettere il passaggio nemmeno a un gatto, e aperto presso il tetto, illuminava l’interno.

Mobili nessuno; solamente un vaso contenente dell’acqua puzzolente si trovava in un angolo.

— Mio povero fratello, figlio mio — disse il signor Muscardo, appena la porta fu chiusa.

— Siamo rassegnati ormai — disse padre Giorgio, gettando uno sguardo disperato su Enrico.

— Rassegnati? Ah, no! — gridò l’ex bersagliere. — Spero ancora.

— Su chi? Siamo circondati da uomini che non ci risparmieranno, fratello.

— Ping-Ciao attende qualche cosa da noi e se vorrà sapere dove si trova suo figlio, bisognerà che ci lasci liberi.

— E credi tu che dopo saputolo ci accorderebbe la libertà?

— Non sarò così sciocco da dirglielo subito.

— Quali idee hai tu, fratello? — chiese padre Giorgio, nei cui sguardi balenava un lampo di speranza.

— Voglio ingannarlo per guadagnare tempo.

— In quale modo?

— Ho un progetto che da qualche ora mi frulla nel cranio. Se riesco ad attuarlo, Ping-Ciao si guarderà bene dal mandarci a morte.

— Conti su Wang?

— Tu lo sai meglio di me che quel bravo giovane, che non somiglia per nulla a suo padre, si trova nascosto in una città, in Manciuria.

— Può essere tornato a Pechino udendo le stragi commesse dai boxers.

— Ah! La splendida idea! — esclamò il signor Muscardo. — Se potessi indurre Ping-Ciao a condurci a Pechino!

— In qual modo?

— Facendogli balenare la speranza che suo figlio si trova nascosto nella capitale.

— Poi ci ucciderebbero egualmente accorgendosi che noi l’abbiamo ingannato.

— Intanto guadagneremo tempo. Chi può dire cosa può succedere in dieci o quindici giorni? Ho udito raccontare dai banditi che ci accompagnavano, che le truppe europee muovono su Pechino per proteggere le ambasciate.

— Dubito molto, fratello, che i ribelli permettano a loro di giungervi in tempo per salvarle — disse padre Giorgio, con accento sfiduciato. — Si dice che le truppe imperiali abbiano fatto causa comune coi boxers.

— Non importa: per noi si tratta di guadagnare tempo e di salvare pel momento le nostre teste.

— Io condivido le tue speranze, babbo — disse Enrico che fino allora non aveva preso parte al dialogo. — Inventa ciò che vuoi purché mi liberino da questa orribile gabbia.

— Mio povero Enrico, temo molto che non ti concedano presto la libertà — disse il signor Muscardo colla voce rotta da qualche singhiozzo.

— Ho le membra rattrappite.

— Se avessi le mani libere spezzerei i bambù, mentre invece mi trovo più impotente di tutti. Miserabile Ping-Ciao! Tutto non è finito tra me e lui e mi vendicherò di queste torture.

In quel mentre la porta si aprì ed entrò una giovane donna, con la pelle quasi bianca, i tratti del volto spaziosi, e la capigliatura abbondante.

Come tutte le cinesi di media e di alta condizione, aveva i piedi piccolissimi, rinchiusi in babbucce non più grandi d’una mano e portava pesanti orecchini d’argento e braccialetti ai polsi.

L’uso di deformarsi i piedi per impedire loro di crescere, è ancora molto sparso in Cina, quantunque nelle città marittime, frequentate dagli europei, si sia per abbandonarlo.

Si comincia con lo stringerli tra fasce di tela molto resistenti, quando la donna è ancora giovanissima, anzi quasi bambina, arrestandone così lo sviluppo a scapito del collo dei piedi, il quale invece s’ingrossa in modo poco piacevole.

Questo martirio, poiché è veramente un tormento, dura parecchi anni e cioè fino a che la donna abbia raggiunto il massimo sviluppo.

Allora le fasce si tolgono per sempre e se il piede è rimasto piccolo è tutt’altro che bello. Presenta una vera deformazione che non ha nulla d’attraente.

Le donne che subiscono simile barbaro trattamento, che come dissi, sono ancora moltissime, si trovano molto impacciate nei loro movimenti e quando camminano si dondolano in modo ridicolo, come se pestassero degli aghi.

Una marcia di qualche ora riuscirebbe impossibile a quelle disgraziate.

La donna entrata nella capanna portava un vaso ripieno di riso ed una zucca con alcune sorsate d’acquavite di riso.

— Chi siete voi? — chiese il signor Muscardo.

— Una carceriera — rispose la giovane.

— Non sapevo che gl’insorti si servissero di donne per un così poco onorifico mestiere.

— L’ho accettato per salvare la vita.

— Eri una cristiana? — chiese il missionario.

— Sì.

— Ed ora?

— Lo sono ancora — mormorò la giovane con un filo di voce, guardandosi intorno con apprensione.

— Ed hai accettato di fare la carceriera?

— Sì, perché trovo ancora il mezzo di essere utile ai miei correligionari.

— In qual modo? — chiese il signor Muscardo, con una leggera punta d’ironia.

— Impedendo sovente a loro di morire di fame e...

— Continua — disse padre Giorgio, vedendola esitare. — Noi siamo tutti cristiani ed io sono un sacerdote.

— Ed aiutandoli a fuggire quando si presenta l’occasione. Siamo in parecchie e tutte fedeli.

— Ecco una ragazza degna d’ammirazione — disse il signor Muscardo. — Se potesse fare qualche cosa anche per noi!

— Sì, penso già a voi — disse la cinese.

— Per farci fuggire! — esclamarono Enrico e suo padre.

— Silenzio! Le pareti hanno orecchie. Pel momento nulla possiamo fare per voi, perché vi si sorveglia attentamente; non disperate e attendete mie notizie. Io parlerò quest’oggi col capo della Croce del Pei-ho.

— Chi è costui? — chiese padre Giorgio.

— Il capo di una delle società che hanno per iscopo di proteggere i cristiani a qualunque razza appartengano.

— Ed è qui quell’uomo?

— È uno dei carnefici.

— Sicché per salvare i prigionieri, li ammazza — disse l’ex bersagliere.

— V’ingannate, signore — rispose la giovane. — Quando può farli fuggire, senza compromettersi, non esita; quando invece è costretto a sopprimerli fa in modo da abbreviare le loro torture. È già anche questa una buona azione.

— Sì — aggiunse il missionario.

— Grazie per lui, padre — disse la giovane. — Silenzio ora e attendete mie nuove.

— Vi è qualche speranza di farci fuggire? — chiese il signor Muscardo.

— Sì, farò il possibile per riuscire...

— O il vostro capo farà in modo da sopprimerci più presto che potrà — disse l’ex bersagliere, con voce cupa.

La giovane non rispose e uscì a lenti passi, senza volgersi indietro.

— Fratello, credi a quanto ha narrato quella fanciulla? — domandò il signor Muscardo, quando la porta fu chiusa. — Che sia invece qualche spia mandata dal mandarino?

— Io la credo sincera — rispose Giorgio. — Ho udito già parlare della Croce gialla, forse affine alla Croce del Pei-ho.

— Facessero almeno fuggire Enrico e Sheng! Essi sono troppo giovani per morire.

— Padre! — esclamò il giovane con accento di rimprovero. — Vorresti tu che io accettassi la libertà senza di te e senza mio zio?

— La rifiuterei anch’io — disse Sheng.

— Cuori generosi! — mormorò il signor Muscardo più commosso di quanto si sarebbe creduto. — Dopo tutto non siamo ancora morti e la mia idea non mi ha ancora abbandonato. Bando alle malinconie e mangiamo un boccone.

Malgrado i loro sforzi per mostrarsi fiduciosi nell’aiuto dei membri della Croce gialla, il pasto fu tristissimo. Assaggiarono appena un po’ di riso e bevettero qualche sorso.

Il signor Muscardo, impedito dalla kangue, dovette farsi aiutare da Sheng, se volle nutrirsi.

La giornata trascorse in continue ansie. Al di fuori, nell’immenso recinto, fu un continuo urlìo.

I boxers decapitavano senza misericordia e tormentavano atrocemente i condannati prima di spedirli all’altro mondo. Gli uomini rinchiusi nella gabbia non cessarono un solo istante di ululare spaventosamente, tanta era la fame che tormentava i loro stomachi.

Una nausea invincibile prendeva i disgraziati italiani. Vi erano certi momenti in cui credevano d’impazzire per lo spavento.

Durante quelle lunghe ed angosciose ore, il signor Muscardo, che si sentiva spezzare i nervi, quantunque fosse il più coraggioso di tutti, aveva fatto più di venti volte il giro della capanna, cercando inutilmente un passaggio per fuggire o per slanciarsi in soccorso dei miseri che venivano condotti al macello.

Verso sera, quando ormai disperavano di rivedere la giovane cinese, ella ricomparve portando un vaso di riso condito con una salsa di pesce e un’altra zucca contenente un po’ di sam-sciù.

— Finalmente! — esclamò il signor Muscardo, slanciandosi verso di lei.

— Silenzio — diss’ella. — Sono seguìta.

— Da chi?

— Dal mandarino che vi ha condotti qui.

— Da quel miserabile Ping-Ciao? Ah! Venga e lo prenderò a pedate! — esclamò l’ex bersagliere, con furore. — Sento una voglia irrefrenabile di ucciderlo!

— Sii prudente, fratello — disse padre Giorgio. — Non compromettere la nostra salvezza.

— Io non spero più nulla! Lascia che lo uccida!

— E tuo figlio?

Quelle parole spensero d’un colpo l’ira che bolliva nel petto dell’ex bersagliere.

— Se non vi fosse Enrico, quel cane non uscirebbe vivo da qui! — esclamò stringendo le pugna e scuotendo furiosamente la kangue.

— Eccolo, — disse la giovane, — siate calmi e cercate di non irritarlo. Forse la vostra salvezza non è lontana.

Era appena uscita quando entravano il mandarino e Sum accompagnati da due banditi con le scimitarre snudate.

Il signor Muscardo aveva fatto uno sforzo supremo per non scagliarsi su quei manigoldi.

— Cosa vieni a fare qui, miserabile? — non poté frenarsi dal dirgli. — Vieni ad assistere all’agonia delle tue vittime? Ricordati che Wang è in mano dei nostri amici!

Il mandarino volse all’ex bersagliere uno sguardo cupo, quindi incrociando le braccia sul petto, disse:

— Saprò presto ove si trova e lo strapperò ai tuoi amici.

Il signor Muscardo impallidì e per un momento ebbe il timore che tutto il suo piano fosse crollato come un castello di carte da giuoco. Gli era balenato nel cervello il sospetto che il mandarino avesse finalmente saputo ove suo figlio si teneva nascosto.

— Se lo ha trovato, a noi non ci rimane altro che morire — pensò.

E tale fu anche il pensiero che conturbò il missionario.

L’ex bersagliere volle nondimeno andare a fondo.

— Ah! — esclamò. — Tu sai dove si trova? Sei proprio certo? Io ho i miei dubbi.

— Non lo so ancora — disse il mandarino; — voi fra poco me lo direte.

— Forse siamo salvi — mormorò il signor Muscardo, rasserenandosi e scambiando un rapido sguardo con suo fratello.

Il mandarino volse le spalle all’ex bersagliere e si fermò dinanzi alla gabbia di padre Giorgio, dicendo:

— Sarai tu che mi dirai dove si trova mio figlio.

Fece un cenno ai due banditi che lo avevano accompagnato e la gabbia fu sollevata.

Un grido d’angoscia era fuggito a Enrico, suo padre ed a Sheng.

— Dove lo conduci? — gridò l’ex bersagliere, avvicinandosi minaccioso al mandarino.

— Dove lo si aspetta — rispose Ping-Ciao, con voce ironica. — Quest’uomo mi appartiene ed io posso fare di lui quello che meglio mi talenta.

— Miserabile! Io ti uccido!

Il signor Muscardo, pazzo di rabbia, si era scagliato contro il mandarino a testa bassa, pari ad un toro che si prepara a caricare l’avversario. La kangue, in quel momento, poteva diventare un’arma d’offesa.

Il mandarino con un’agilità sorprendente aveva evitato l’urto, quindi si era slanciato fuori della capanna, mentre Sum chiudeva rapidamente la porta.

Il signor Muscardo, vinto dall’emozione, era caduto al suolo singhiozzando sordamente, mentre Enrico gridava con accento disperato:

— Rendetemi mio zio! Assassini!

Appena fuori, la gabbia contenente il disgraziato missionario era stata circondata da dieci banditi armati di fucili, comandati dal capo che conosciamo.

Le esecuzioni erano state sospese o erano terminate, perché nessun lamento s’alzava nel vasto recinto. Solamente si udivano le urla sempre più spaventose dei dodici disgraziati condannati a morire di fame.

Essendo calata già la notte, sotto la tettoia che serviva di tribunale erano stati accesi parecchi lanternoni di carta oliata e presso due pali altissimi ardevano due grandi cataste di legna.

I curiosi che durante il giorno si affollavano nei dintorni della cinta, erano scomparsi forse per ordine del capo dei ribelli o per ritirarsi nelle loro capanne o tende per riposarsi.

Solamente pochi gruppi di uomini armati stazionavano dinanzi alle capanne racchiudenti i prigionieri.

Padre Giorgio, quantunque non ignorasse la sua sorte e si sentisse spezzare il cuore, faceva sforzi sovrumani per mostrarsi tranquillo. Una voce interna gli diceva d’altronde di non disperare ancora.

Quali angosce però lo travagliavano! Non era uomo da temere la morte, essendovisi preparato da molti anni; tremava pei suoi compagni e particolarmente per Enrico, non ignorando l’efferatezza dei carnefici cinesi.

Quando la gabbia giunse dinanzi alla grande tettoia illuminata, venne posata al suolo e aperta.

— Esci — disse Ping-Ciao.

Padre Giorgio vi si provò, senza riuscirvi. Le sue membra erano rattrappite e si rifiutavano di sorreggerlo.

Due banditi furono costretti a levarlo di peso e trasportarlo a braccia sotto la tettoia, fra gli scherni e le risa dei bricconi che si erano radunati in quel luogo.

Dinanzi ad un tavolo tre vecchi cinesi dalla pelle incartapecorita e che puzzavano d’acquavite, stavano discutendo animatamente con Sum, l’anima dannata del mandarino. Quegli straccioni, quasi sempre ubriachi d’oppio e di sam-sciù, erano i rappresentanti della giustizia.

Un cancelliere, non meno brillo di loro, che faceva pompa d’una camicia di seta tutta a brandelli e lorda d’inchiostro, imbrattava fogli di carta a gran colpi di pennello.

Vedendo entrare il missionario, i tre rappresentanti della giustizia s’erano alzati per guardarlo meglio.

— È questo il cristiano? — chiese il presidente, che per distintivo della sua alta carica aveva inforcato un paio d’occhiali privi delle lenti e si era cacciato in testa un cappello decorato col bottone di mandarino di terza classe.

— Sì — disse Ping-Ciao.

— Mi pare che i tuoi uomini l’abbiano un po’ guastato.

— Questi europei non posseggono la nostra elasticità — disse Sum con accento di disprezzo. — Basta chiuderli in una gabbia ventiquattro ore per tirarli fuori mezzi storpi.

— Tu, mandarino, mi avevi detto che i cristiani erano quattro.

— Gli altri li serberemo per un altro giorno.

— Ad un consigliere dell’impero, che ha abbracciata la nostra causa, nulla si può rifiutare — disse il presidente.

— Specialmente quando paga bene — aggiunse Sum, con un sorriso diabolico.

— Cosa vuoi sapere dal cristiano? — chiese il presidente, fingendo di non aver udite le parole ironiche del manciù.

— Dove si trova mio figlio.

— Wang! Sì, Sum mi ha parlato di questo affare. Lo dirà questo cristiano?

— Ecco quello che dubito.

— Penseremo noi a sciogliergli la lingua. Mi dài carta bianca?

— Io l’odio questo cristiano.

— Allora ci divertiremo, prima di mandarlo nel suo paradiso.

Il presidente ed i suoi due consiglieri erano tornati al tavolo, mentre quattro carnefici armati di larghe scimitarre e con le cinture riboccanti di coltelli d’ogni specie, si collocavano dietro a padre Giorgio, pronti ad afferrarlo ed a trascinarlo alla tortura.

— Sei cristiano? — chiese il presidente, volgendosi verso il missionario.

— Sì — rispose questi con voce ferma.

— Sai che è stata decretata la pena di morte contro tutti i cristiani?

— Da chi? — chiese padre Giorgio, con uno scatto violento.

— Da noi.

— E chi siete voi?

— I rappresentanti della nazione.

— Non vi riconosco questo diritto.

— Cosa importa a noi delle tue opinioni!

— Importa molto a me essendo io italiano e non suddito cinese.

— Ragione di più per condannarti. Noi abbiamo decretata la morte contro tutti gli stranieri residenti sul nostro suolo, quindi tu dovresti morire due volte invece di una.

— Allora uccidimi e la sia finita: penseranno le nazioni europee a vendicare più tardi la morte dei loro figli.

— Uh! L’Europa è così lontana dalla Cina! — esclamò il presidente, con un brutto sorriso. — E poi prima che le truppe straniere possano giungere fino a Pechino, non ci sarà più vivo alcun cristiano, né alcuno straniero nelle nostre provincie, compreso te.

— La morte non la temo — fece padre Giorgio, alzando fieramente il capo.

— Questo lo vedremo più tardi — disse il presidente con un risolino. — Vuoi fare delle confessioni?

— E poi morire?

— La tua vita può dipendere dalle tue risposte.

— E chi me la garantirebbe la mia vita?

— Noi.

— E chi siete voi?

— Te l’ho già detto.

— Dei bricconi che disonorano la civiltà e che gettano una macchia indelebile sull’intera nazione. Ecco chi siete voi!

— Da quest’uomo non si caverà nulla — osservò il presidente che era divenuto di cattivo umore. — Si potrebbe provare presso qualche altro.

— No — disse Ping-Ciao, che gli stava dietro. — Voglio che muoia prima quest’uomo.

— Allora sottoponiamolo alla tortura.

— Lascio a te ampia libertà.

— Mi è venuta un’idea luminosa!

— Di che cosa si tratta?

— Vedrai che sapremo subito dove hanno nascosto tuo figlio.

— Ed io dubito che me lo dicano.

— Lo vedremo.

Si volse verso i due consiglieri che gli sedevano ai fianchi e scambiò con loro alcune parole sottovoce, quindi, alzandosi, disse:

— Il tribunale dei boxers ti ha condannato nella tua qualità di cristiano e di straniero; preparati a morire.

Un sorriso sdegnoso fu l’unica risposta del missionario.

Subito i quattro carnefici che gli stavano dietro lo afferrarono, strappandogli di dosso le vesti e denudandolo fino alla cintola.

— Posso almeno sapere a quale morte mi ha condannato questo tribunale? — chiese padre Giorgio, prima di lasciare la tettoia.

— Hai fretta di morire? — chiese il presidente.

— Io ti ho detto che non temo la morte.

— Allora armati di pazienza e aspetta.

Il capo dei carnefici, un vecchio di statura imponente, che doveva possedere una forza non comune, con una spinta brutale costrinse il missionario ad uscire, dicendogli:

— Ora appartieni a me e non al tribunale.

— Fa’ il tuo dovere — rispose padre Giorgio. — Io ti ho già perdonato.

Quegli lo trasse verso uno dei due pali che si trovavano presso la catasta di legna fiammeggiante e mentre i suoi aiutanti stavano calando una fune fornita d’una puleggia, con una funicella gli legò le braccia dietro al dorso.

Nel curvarsi aveva accostate le labbra ad un orecchio del prigioniero, dicendogli rapidamente:

— Io sono il capo della Croce del Pei-ho.

Padre Giorgio trasalì, guardandosi bene dal fare qualsiasi atto di stupore per non tradirsi.

La corda, sospesa ai due pali, gli venne legata sotto le ascelle, poi gli aiutanti del carnefice cominciarono ad innalzarlo a sette od otto metri dal suolo.

Quando fu lassù, il povero missionario capì a quale orribile supplizio lo aveva condannato il tribunale dei ribelli. Era quello dei pettini, uno dei più atroci inventati dalla crudele fantasia dei cinesi, veri maestri in simili efferatezze.

Questo supplizio consiste in due pali, lontano l’uno dall’altro una quindicina di metri e che portano, ad una data altezza, delle traverse armate di lance taglientissime e di forma leggermente ricurva.

Per mezzo di una corda attaccata alle estremità superiori dei pali, si imprime al paziente una spinta che diventa sempre più vigorosa, fino a che va a toccare i due pettini.

Ad ogni colpo le punte aguzze gli penetrano ora nel dorso ed ora nel petto, lacerandogli atrocemente le carni.

Questo supplizio dura però parecchie ore, perché i carnefici si guardano bene dal guastare troppo la vittima e fanno il possibile per prolungare l’agonia.

All’ultimo slancio lo si lascia poi infilzare su l’uno o l’altro dei pettini e lo si abbandona ai corvi.

Padre Giorgio, vedendo le lame aguzze scintillare a metà altezza dei pali, aveva provato un brivido d’orrore.

— Crudeli! — aveva esclamato.

In quel momento Ping-Ciao gli si era posto di fronte, alla base di uno dei due pali. Alzò il capo e guardando fisso il missionario che impallidiva a vista d’occhio, gli disse:

— Parlerai ora?

— Io non so cosa tu voglia sapere da me — gli rispose padre Giorgio. — Se è per chiedere il mio perdono, tu l’hai già.

— Io non so cosa farne — rispose il mandarino, alzando le spalle. — Io voglio sapere dove si trova mio figlio.

— Fra i cristiani.

— Non mi basta.

— Vorresti saperlo per uccidere anche lui?

— Ciò non ti riguarda.

— È carne della tua carne.

— Non occorre che tu me lo dica. Dimmi dove si trova.

— Io lo ignoro e poi, anche se lo sapessi e te lo dicessi, tu non mi salveresti dalla morte perché mi odi troppo. Una cosa però ti dico: che Wang, quando apprenderà la mia morte, non ti perdonerà mai una simile crudeltà.

— Te lo ha detto lui? — chiese il mandarino con accento turbato.

— Sì — rispose padre Giorgio.

Successe un breve silenzio: Ping-Ciao pareva che avesse perduta tutta la sua calma.

— Mio figlio non lo saprà mai — disse poi.

— T’inganni, Ping-Ciao. Un uomo che si trova fra i boxers s’incaricherà di andarlo a trovare e di dirglielo.

— Tu cerchi d’ingannarmi.

— Un cristiano non mente mai.

— Io cercherò quell’uomo e lo farò tagliare in diecimila pezzi.

— Nessuno fuor di me sa chi sia.

— Me lo dirai.

— No, Ping-Ciao.

— La morte ti sfiora.

— Io l’attendo serenamente.

— Maledetto cristiano — urlò il mandarino che ebbe una terribile esplosione di collera.

— Carnefice, fa’ il tuo dovere — disse padre Giorgio.

— Non ancora! — gridò Ping-Ciao, vedendo che gli aiutanti avevano afferrata la corda per imprimere al paziente la prima scossa.

— Cosa vuoi ancora da me? — chiese il missionario. — Prolungare la mia agonia?

— Ti ho detto che voglio sapere dove si trova mio figlio! — urlò il mandarino.

— Tu non lo saprai mai e questo sarà il tuo castigo.

— E se ti promettessi salva la vita?

— Non mi fiderei della tua parola, e poi non sta a me a dirtelo.

— Ed a chi?

— A mio fratello.

Non aveva ancor finito di pronunciare quelle parole che già il mandarino era corso via dirigendosi verso la capanna.

Sum, che aveva assistito a quel colloquio senza prendervi parte, si era slanciato dietro all’amico.

— Dove corri? — gli chiese.

— Dal fratello del missionario.

— Essi cercano d’ingannarti.

— I cristiani non guadagnerebbero nulla a farlo. Non sono forse in mia mano?

— Io non mi fiderei di costoro.

— Taci, uccello del cattivo augurio — proruppe il mandarino.

Entrò a precipizio nella capanna e si accostò vivamente al signor Muscardo che giaceva contro la parete, dicendogli:

— Se ti preme salvare tuo fratello, seguimi subito.

— Non l’hai ancora ucciso, assassino? — gridò l’ex bersagliere con voce rantolosa.

— Lo farò se ti ostinerai a non parlare. Vieni o sarà troppo tardi!

Il signor Muscardo s’era alzato di scatto, mentre Enrico e Sheng gridavano:

— Padre!

— Mio povero padrone!

— Non temete — disse a loro l’ex bersagliere in lingua italiana, perché non lo intendesse il mandarino. — Indovino di cosa si tratta e forse questo è il momento che attendiamo.

Si mise dietro a Ping-Ciao che era già uscito dalla capanna, sforzandosi di seguirlo nella sua pazza corsa.

Intanto gli aiutanti, per ordine del presidente del tribunale, il quale temeva di vedersi strappare il cristiano, avevano cominciato a far dondolare il disgraziato missionario.

Il loro capo però, che aveva capito la feroce intenzione del vecchio, si era impadronito della corda e si studiava di non far toccare i pettini alla vittima. Quando vedeva che il corpo stava per trafiggersi, con una scossa improvvisa, data a tempo opportuno, rallentava l’ondeggiamento.

Il mandarino giungeva furioso.

— Fermate! — gridò con voce minacciosa. — Fermate o vi faccio tagliare gli orecchi.

— Quest’uomo è condannato — disse il presidente. — Perché vuoi indugiare a farlo morire?

— Vattene, vecchio ubriacone! — gridò Ping-Ciao. — Il cristiano è mio e non tuo!

Il capo dei carnefici aveva arrestato il dondolamento.

— Miserabili! — gridò il signor Muscardo, precipitandosi fra i due pali. — Me lo uccidete!

— Non abbiamo ancora cominciato — disse Sum.

— Calatelo o vi accoppo.

— Vorrei vederti!

— Calatelo, vi dico!

— Sì, quando mi avrai detto dove si trova mio figlio — disse Ping-Ciao. — La vita di tuo fratello è in mano tua.

— È a Pechino.

Un urlo di gioia selvaggia era uscito dalle labbra del mandarino.

— A Pechino?

— Sì — disse l’ex bersagliere. — In una casa che noi soli conosciamo e guardato da persone fedeli.

— Prigioniero?

— Sì, prigioniero.

— Rendetemi mio figlio, ed io concedo la vita a tutti voi.

— Conducici a Pechino e noi te lo daremo.

— Bada! — disse il mandarino con voce minacciosa. — Non sperare nella protezione del tuo ambasciatore! Se io avessi il menomo sospetto che tu cerchi d’ingannarmi, non puoi nemmeno idearti quali atroci martirii ti farei provare.

— Non ho alcuna intenzione d’ingannarti.

— Tuo fratello sa dove si trova?

— Sì — disse il signor Muscardo dopo una breve esitazione.

— Io lo condurrò a Pechino.

— E noi? — chiese il signor Muscardo, con voce strozzata.

— Voi rimarrete qui in ostaggio fino al mio ritorno.

Il signor Muscardo si era appoggiato ad un palo per non cadere. Aveva creduto d’ingannare il mandarino, mentre invece l’astuto mongolo d’un sol colpo rovesciava le sue speranze. Nondimeno, con uno sforzo supremo, reagì per non tradirsi.

— Perché non condurre anche noi alla capitale? — chiese, cercando di rendere ferma la voce.

— Preferisco lasciarvi qui, sotto la guardia dei miei banditi. Se tu avrai detto il vero io manterrò la mia parola; se avrai mentito ti farò soffrire tanto da farti invocare la morte come una liberazione.

— Lascia almeno che io abbracci mio fratello.

Ad un cenno del mandarino padre Giorgio fu calato a terra e liberato dalle corde che gli stringevano i polsi e le gambe.

— Fratello! — esclamò il signor Muscardo, in italiano. — Per salvarti ho perduto tutti.

— Il capo della Croce gialla penserà a proteggervi e forse vi aiuterà a fuggire prima che il mandarino ritorni.

— E tu? — chiese l’ex bersagliere frenando a stento i singhiozzi.

— Non pensare a me, fratello. Se morrò, ci rivedremo in cielo.

— Io ti salverò.

— In quale modo, mio povero fratello?

— Verrò a raggiungerti a Pechino e ricorrerò alle ambasciate.

— Pechino è in fiamme, e forse a quest’ora tutti gli europei, compresi gli ambasciatori, saranno morti. E poi, non sei ancora libero.

— Ti dico che noi fuggiremo con o senza l’aiuto della Croce gialla. Ah! Se potessi sapere dove si trova Wang!

— Non ha più dato notizie di sé, fratello, e sono trascorsi due anni.

— Non importa, tu cerca dal canto tuo di guadagnare tempo per attendere il nostro arrivo.

— In quale modo?

— Ricorri ad inganni.

— Mi ripugnano.

— Si tratta della salvezza di tutti. Dove credi che il mandarino ti conduca?

— Nel suo palazzo, per ora.

— So dove si trova e verrò a salvarti.

— Cercherò di guadagnare tempo, come tu mi consigli. Addio, fratello, e confidiamo in Dio.

— Sì, e prega per noi — concluse il signor Muscardo con voce rotta.

— Finitela — gridò Sum allontanandoli bruscamente. — Conducete quest’uomo nella sua capanna.

Due aiutanti s’erano slanciati addosso all’ex bersagliere per eseguire l’ordine.

Il capo dei carnefici li prevenne dicendo:

— Lasciate fare a me.

E preso per la cintola il prigioniero lo trascinò con sé, mentre gli mormorava in un orecchio:

— Non fare resistenza: ho da parlarti! Sono uno dei capi della Croce gialla.