Le stragi della China/3. Il missionario

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3. Il missionario

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3.

Il missionario


Un silenzio profondo regnava su quelle acque stagnanti e fra le immense risaie che circondavano la palude.

Solamente di quando in quando, qualche airone e qualche shin-sui, chiamato anche schiavo d’acqua, perché non si allontana mai dai fiumi, spaventati dal rumore prodotto dalle pagaie, s’alzavano mandando un debole grido che subito si spegneva.

Sheng ed il suo compagno, sicuri di non venire più disturbati, non essendovi in quei luoghi terreni adatti per gli accampamenti dei ribelli, avevano gettate via le canne per remare più liberamente.

La barca, sotto i loro vigorosi colpi, correva rapidamente fiancheggiando le risaie e producendo una lieve risacca, la quale andava a rompersi, gorgogliando, fra gli steli già alti.

Anche la palude fu ben presto attraversata ed i nostri due giovani, giunti all’estremità, imboccarono un piccolo corso d’acqua che si scaricava fra le risaie.

Qualche capanna cominciava a distinguersi lungo le rive del fiumicello, ed in lontananza qualche piccola torre a diversi piani, indizio di un villaggio.

— Siamo sulla buona via? — chiese il giovane europeo, dopo qualche tempo. — Mi pare di non riconoscere più questi luoghi.

— Fidatevi di me, padroncino — rispose il cinese. — Noi giungeremo egualmente a Ming.

— Giungeremo in tempo per salvare quei poveri abitanti?

— Prima che i capi del Giglio azzurro possano radunare i boxers sparsi sulle rive del canale, noi saremo al villaggio.

— Io sono inquieto.

— Ed io non meno di voi.

In quel momento, in lontananza, si fece udire una cupa detonazione seguìta da un rimbombo prolungato.

Il giovane europeo ed il cinese si erano arrestati, guardandosi in viso con estrema ansietà.

— Cos’è questo rimbombo? — chiese Sheng.

— È un colpo di cannone — rispose l’europeo, il quale era diventato pallido.

— Non v’ingannerete, signor Enrico?

— Io non m’inganno.

— Allora i boxers si sono già messi in marcia.

— Odi questo crepitìo? Sono scariche di moschetteria.

— Vengono dal nord?

— Sì, Sheng. Vi sono villaggi in quella direzione?

— Sì, padroncino, e sono abitati per la maggior parte da cristiani.

— Dio! Che strage faranno i ribelli! — esclamò il giovane europeo, con voce commossa.

— E faranno altrettanto di noi se non ci affrettiamo.

— Guarda! Non vedi quella luce rossastra che si diffonde in cielo.

— Sì, padroncino.

— Arde qualche villaggio.

— Poveri abitanti!

Verso il settentrione, al di là del Canale Imperiale, tutto l’orizzonte appariva illuminato, come se fosse avvenuta una eruzione spaventevole di lave.

Quantunque la distanza fosse grande, si vedevano immense lingue di fuoco alzarsi vertiginosamente, con delle contrazioni paurose, mentre fra le tenebre correvano, pari a stelle, miriadi di scintille che la brezza notturna spingeva attraverso le campagne.

Di quando in quando delle nutrite scariche di moschetteria rintronavano, alle quali poi si univa il cupo rimbombo del cannone.

I boxers dovevano essersi messi in campagna, tutto incendiando e tutto distruggendo sul loro passaggio. Feroci al pari delle tigri, essendo le lor bande formate dalla peggior feccia delle popolazioni del centro, si sapeva che non risparmiavano né sesso, né età, né condizione. Nemmeno le autorità trovavano salvezza, anzi i governatori erano i primi a venire macellati da quei furibondi.

Sheng ed il giovane europeo, ambedue atterriti, avevano abbandonato i remi. I loro sguardi, dilatati dal terrore, non si staccavano da quella luce intensa che si allargava sempre più come se dovesse estendersi fino all’immensa capitale dell’impero.

— Fuggiamo — disse ad un tratto l’europeo. — Se i boxers hanno cominciato l’attacco, anche il mandarino si sarà messo in campagna con gli uomini del Giglio azzurro.

— Sì, padroncino, fuggiamo!

Ripresero i remi e si misero ad arrancare con vigore disperato rimontando un fiumicello, mentre in lontananza si udivano sempre rimbombare le scariche di moschetteria.

S’avanzarono così per un altro chilometro, poi si accostarono alla riva destra dove si vedevano rizzarsi parecchie casette di legno coi tetti arcuati e sormontati da antenne di legno sostenenti delle bandiere.

— Presto, padroncino — disse Sheng, legando la barca.

Il giovane europeo prese la sua piccola carabina e s’arrampicò sulla riva che in quel luogo era molto erta e cosparsa d’arbusti molto fitti.

— Dormono tutti — disse, volgendosi verso il compagno che lo aveva seguìto. — Non sospettano nemmeno il grave pericolo che li minaccia.

La borgata che avevano dinanzi agli occhi, era quella di Ming, una delle più piccole che si trovano nei pressi del Canale Imperiale, eppure una delle meglio conosciute della provincia di Pecili, essendo uno dei maggiori centri del cattolicismo.

Quel villaggio, prima della sua distruzione, contava un centinaio e mezzo di casettine di legno ed una chiesa costruita pure in legno. Se era uno dei meno popolati, era però annoverato come uno dei più belli e dei più puliti, avendo i missionari messo ogni loro studio per renderlo più gradito ai suoi abitanti e anche per mostrare agli altri i vantaggi della civiltà.

Già da tre anni l’intera popolazione si era convertita al cattolicismo, con grande scandalo delle vicine borgate e non poca irritazione della corte imperiale, la quale ha sempre cercato di creare mille ostacoli alla propaganda delle missioni.

Parecchie volte delle bande di bricconi, aizzate nascostamente dal governo, avevano tentato d’incendiarlo per costringere i cristiani ad andarsene lontano dal Canale Imperiale e pure parecchie volte dei fanatici avevano tentato di assassinare i missionari.

Le minacce degli ambasciatori europei di Pechino, ai quali i missionari si erano rivolti per tenere in freno quei bricconi, avevano finito col trionfare ed il villaggio aveva potuto godere una calma relativa e svilupparsi pacificamente.

Scomparso ogni pericolo pei loro neofiti, i missionari avevano trasportate altrove le loro tende per proseguire la loro attiva propaganda nella vicina provincia di Scian-si, lasciando un solo sacerdote a guardia della chiesa.

Quest’uomo, che aveva accettato il pericoloso incarico di vegliare sulla sicurezza di quei trecento cristiani, era il padre Giorgio, che abbiamo già udito nominare da Sheng e contro cui s’appuntava l’odio del mandarino Ping-Ciao.

Il giovane europeo ed il suo compagno, attraversate parecchie vie del villaggio, malamente rischiarato da poche lampade di carta oliata sospese a pali, lusso affatto sconosciuto anche in molte città cinesi dell’interno, si fermarono dinanzi ad una robustissima palizzata, la quale cingeva la chiesa e la casa del pastore.

Per metterle al coperto dagli attentati dei bricconi, nel punto importante, i suoi costruttori, oltre la cinta molto alta e solida, avevano innalzata una muraglia massiccia che girava intorno al fabbricato, in modo da rendere impossibile una sorpresa e possibile una vigorosa difesa.

Sopra la casa e la chiesa ed intorno al campanile avevano anche costruito numerose verande e terrazze dalle quali i difensori avrebbero potuto fare delle scariche sul nemico, senza correre molto pericolo.

Il giovane europeo e Sheng, trovata una scala a mano, superarono la palizzata, la cinta e si fermarono dinanzi alla casa la quale sorgeva a fianco della chiesetta.

Le finestre del pianterreno erano illuminate, quantunque la mezzanotte fosse già suonata da parecchio tempo.

— Mio zio veglia ancora — disse il giovane europeo. — Che abbia avuto sentore del pericolo che lo minaccia?

Vedendo che la porta era aperta, entrò risolutamente, dicendo:

— Zio, si può?

Un uomo d’alta statura, d’aspetto imponente, con una lunga barba ancora nerissima, sebbene il volto non apparisse più giovane, comparve sulla soglia.

Indossava la veste nera dei missionari, con una croce rossa sul petto, e sul capo portava una calotta di finissima paglia di riso.

Quel sacerdote era padre Giorgio, uno dei più rispettati e dei più venerati missionari della provincia di Pecili.

Siciliano di nascita, da cinque anni si trovava in Cina, predicando con zelo ardente la fede di Cristo.

Aveva attraversate quasi tutte le provincie settentrionali della Cina facendo numerosi proseliti, poi, stanco di quella vita errabonda, aveva accettato il titolo di parroco a Ming, per riposarsi qualche tempo e anche per unirsi con un suo fratello che era emigrato nella Cina all’epoca delle prime costruzioni ferroviarie di Tien-tsin, conducendo con sé l’unico figlio, il nostro Enrico.

Vedendo entrare il giovane seguìto da Sheng, padre Giorgio aveva fatto due passi indietro, facendo un gesto di stupore.

— Da dove vieni, nipote? — chiese. — Io credevo che tu non avessi abbandonata la tua stanza.

— Vi eravate ingannato, zio — rispose il giovane. — Io ho voluto accompagnare Sheng alle rovine di Khang-hi.

— I boxers sono comparsi?

— Tutta la regione settentrionale è in fiamme.

— Tuo padre l’aveva sospettato — disse il sacerdote. — Ah! Quali orrendi massacri si preparano! Quali tristi giorni per i poveri cinesi che hanno abbracciata la nostra religione!

— Zio, dov’è mio padre? — chiese il giovane.

— È partito per radunare un gruppo di operai europei che si trovano a otto miglia da qui.

— Sapeva dunque che i boxers erano comparsi?

— Siamo stati avvertiti dopo la partenza di Sheng.

— Allora mio padre corre a quest’ora un grave pericolo!

— Tu mi hai detto che i boxers vengono dal nord.

— È vero, zio.

— E tuo padre è partito pel sud.

— E poi verrà qui?

— Appena radunati gli europei correrà a difenderci.

— Il pericolo stringe, zio — disse il giovane. — Io so che il mandarino Ping-Ciao marcia verso questa borgata.

— Ping-Ciao! — esclamò padre Giorgio, mentre un freddo sudore gli bagnava la fronte. — Chi te lo ha detto?

— L’ho veduto io, coi miei occhi, padre — disse Sheng, che fino allora era rimasto silenzioso. — Io ho assistito alla riunione di tutti i capi del Giglio azzurro e della Campana d’argento.

— Tu hai avuto tale audacia, Sheng? — gridò padre Giorgio, stupito. — E se ti uccidevano?

— Era impossibile che mi conoscessero fra tanta gente che infesta le campagne. Conoscendo le rovine, non avevo da temere alcun pericolo. Se poi fossi stato scoperto, non mi sarei trovato imbarazzato a cercare un rifugio nelle gallerie sotterranee.

— E tu hai veduto il mandarino?

— Come vedo voi, padre. Egli si è dato ai boxers pur di vendicarsi di voi.

— Così tanto mi odia?

— Egli vi accusa di aver indotto suo figlio a farsi cristiano, ed a ripudiare la religione dei suoi padri.

— Wang stesso venne da me a chiedermi di ammetterlo fra i seguaci di Cristo.

— Lo so, padre, ed è appunto per questo che Ping-Ciao, non potendo punire il figlio, ucciderà voi.

— La morte non mi fa paura — disse padre Giorgio, alzando fieramente il capo. — Ciò che m’inquieta è la sorte di tuo padre, mio povero Enrico.

— Mio padre è stato bersagliere — disse il giovane con orgoglio. — Egli ha combattuto valorosamente contro i briganti, guadagnandosi la medaglia al valore e non si lascerà uccidere dai boxers. Da quante ore è partito?

— Da tre.

— Solo?

— Con due cinesi fidati.

— Allora potrà forse sfuggire ai boxers — disse Sheng. — Al sud finora non ve ne sono. Padre, prepariamoci alla difesa o noi verremo tutti sacrificati.

— Va’ a svegliare gli abitanti e tu, nipote, seguimi sul campanile.

Mentre il giovane cinese usciva correndo per dare l’allarme, padre Giorgio e suo nipote erano entrati nella stanza.

Era quella una bella cameretta di stile cinese, con le pareti coperte di carta fiorita di thung, a lune sorridenti, a gruppi di fiori ed a draghi mostruosi vomitanti fuoco.

Il pavimento era di legno laccato, a grandi scacchi e lucido come uno specchio.

La mobilia consisteva in leggere sedie di bambù, in tavoli laccati e dorati, carichi di ninnoli di porcellana e di chicchere finissime, color del cielo dopo la pioggia.

Una grande lanterna, coi vetri di talco, essendo ancora sconosciuto in Cina il cristallo, illuminava la stanzetta, spandendo una luce diafana.

Padre Giorgio condusse il nipote dietro un paravento che nascondeva una porta e salì una scaletta che metteva in un corridoio tortuoso, il quale montava rapidamente.

Raggiunte le terrazze superiori che si estendevano sopra la chiesa, il sacerdote entrò in una piccola torre di legno, a due piani, sormontata da un tetto a punte ricurve, e coperto da tegole di porcellana gialla.

— Vediamo — disse il sacerdote, uscendo sulla piccola veranda che girava attorno alla torre.

Aveva appena volti gli sguardi verso il settentrione, che impallidì. Tutto l’orizzonte fiammeggiava come se ardessero venti villaggi uniti.

Immense colonne di fumo rossastro, attraversato da nembi di scintille, s’alzavano formando una nuvola immensa, la quale nascondeva gli astri.

— Quale notte d’orrore! — esclamò. — Quante vittime innocenti saranno già state immolate! Non credevo che gli insorti fossero già così vicini, né così audaci da sfidare le potenze europee. Mio povero nipote, prevedo dei giorni ben tristi per noi e pei seguaci della croce.

— Che le truppe imperiali non riescano a domare quelle orde sanguinarie? — chiese il giovane.

— Io temo, nipote, che il governo, lungi da porre un argine a tanti massacri, li incoraggi. I cinesi hanno ormai dichiarata una guerra a morte a tutti gli europei ed ai cristiani.

— Zio, prepariamoci a difenderci strenuamente. Mostriamo a loro come sanno combattere gli uomini bianchi.

— Sì, nipote, noi combatteremo in difesa della nostra fede e non permetteremo che si trucidino sotto i nostri occhi questi poveri abitanti. Vieni, nipote, organizziamo la difesa.

Stavano per abbandonare la piccola torre, quando il silenzio che regnava nella campagna fu improvvisamente rotto da clamori spaventevoli.

Pareva che una legione di belve feroci si fosse scagliata attraverso le risaie, che circondavano la borgata, avide di sangue e di stragi.

— Essi vengono, zio! — gridò il giovane con accento di terrore.

Padre Giorgio si era già slanciato giù dalle scale, gridando:

— Fratelli! Alle armi! Alle armi!