Le stragi della China/4. La strage

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4. La strage

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3. Il missionario 5. Il mandarino prigioniero

4.

La strage


Il mandarino Ping-Ciao, appena uscito dalle rovine di Khang-hi, insieme al suo amico Sum ed ai capi del Giglio azzurro, si era rivolto al vecchio boxer, per chiedergli l’immediato adempimento delle sue promesse.

— Sono tre anni che attendo la mia vendetta — gli aveva detto. — Se io ti ho promesso di aiutarti a rovesciare il governo imperiale che non ha ancora avuto il coraggio di finirla una buona volta con gli stranieri, esigo di avere, questa notte stessa, nelle mie mani, l’uomo che ha indotto mio figlio ad abbandonare la religione dei suoi padri.

— I boxers mantengono la parola data — aveva risposto il vecchio capo — ed ora io te ne darò una prova.

— Mi fornirai una banda scelta fra le più valorose?

— L’avrai.

— Bene armata? Tu sai che i cristiani hanno dei fucili.

— Ti darò la meglio fornita d’armi da fuoco.

— E tu mi accompagnerai?

— No — rispose il vecchio. — Mentre tu varcherai il Canale Imperiale, io andrò a bruciare tutti i villaggi del settentrione onde far credere al tuo nemico che il pericolo si allontana dalla sua borgata. Le mie orde già sono in marcia e forse hanno circondati i villaggi. Seguimi e vedrai che io non ti avrò ingannato.

Attraversata una risaia divisa da piccoli argini, il vecchio capo condusse il mandarino in mezzo ad un campo coltivato a cotone, che si estendeva in prossimità del Canale Imperiale e da uno dei suoi capi fece muggire una conca marina del genere dei triton, usata come tromba dai soldati cinesi.

Subito il mandarino vide sorgere, dal di sotto delle piante di cotone, un gran numero di ombre umane.

— Ecco la tua banda — disse il vecchio. — Come vedi, i miei uomini sono astuti e prudenti.

In men che lo si dica, senza confusione e senza scambiare una sola parola, gl’insorti si erano radunati sul margine della piantagione, formando una doppia colonna.

Erano duecento, scelti fra i più valorosi ed i meglio armati, tutte persone che avevano sulla coscienza un bel numero di delitti.

Dobbiamo però convenire che quegli uomini, racimolati fra i briganti ed i contadini delle regioni centrali del vasto impero, non avevano l’aspetto di gente guerresca.

Erano stracciati, luridi, infangati e vestiti in cento maniere differenti. Alcuni indossavano dei camiciotti di cotone grossolano con ampie maniche e non avevano né calzoni, né scarpe; altri, invece, avevano i calzoni e mancavano della casacca; alcuni non portavano che un semplice gonnellino stretto ai fianchi come i selvaggi dell’Yun-nan o del deserto di Gobi.

Le loro armi erano disparate: taluni avevano dei fucili a retrocarica, i più non possedevano che dei vecchi moschetti a pietra od a miccia, delle scimitarre, dei coltellacci o degli archi con delle frecce lunghissime.

Vedendo quella banda di straccioni, il mandarino, abituato ad ammirare l’equipaggiamento del corpo imperiale di Pechino, aveva fatto una smorfia molto significativa.

— Sono questi i tuoi leoni? — chiese al vecchio capo, con tono ironico.

— Tu non li hai ancora veduti combattere — rispose il vecchio. — Una volta lanciati, questi uomini sono più feroci delle tigri e non si arrestano più. Con questi uomini io ho attraversato le provincie centrali dell’impero ed ho espugnato parecchie città difese da buone artiglierie. Della borgata di Ming, faranno un solo boccone.

— Li vedremo all’opera — rispose il mandarino. — Però dubito dell’impresa.

— Cosa ti spaventa?

— So che la borgata è cintata.

— I miei uomini hanno superato dei bastioni e vuoi che si arrestino dinanzi ad una semplice muraglia? Tu non li conosci ancora; domani non avrai più così pessima opinione di loro. Addio e buona fortuna. Io vado a scaldarmi le mani nei villaggi del settentrione.

Scambiò alcune parole con un cinese che portava tre penne d’airone sul suo cappello di paglia in forma di fungo e che pareva fosse il capo della banda, poi sparve in mezzo alle risaie, seguìto dai capi del Giglio azzurro.

Il cinese dalle tre penne si era accostato al mandarino, dicendogli:

— I miei uomini sono ai tuoi ordini, signore, e sono impazienti di mostrarti come sanno combattere.

— Conosci la borgata? — chiese Ping-Ciao.

— Sono andato a visitarla ieri mattina — rispose il capo di quella collezione di briganti.

— È fortificata?

— Da una doppia cinta.

— Potranno superarla i tuoi uomini?

— Nessun ostacolo li tratterrà e poi abbruciando le case costringeremo i difensori della chiesa ad arrendersi se non preferiranno morire arrostiti.

— Allora guidami.

Ad un segnale del capo, la banda si mise in movimento nel più profondo silenzio, procedendo su due colonne parallele.

Attraversata la piantagione di cotone, superarono l’argine e scesero sulla riva del Canale Imperiale, dove si trovavano arenate due di quelle grandi barche chiamate dai cinesi fu k’wan, veri omnibus galleggianti che servono pel trasporto dei passeggeri.

Spintele in acqua, i ribelli s’imbarcarono, traghettando senza incidenti il canale.

Superato l’argine opposto, i banditi tornarono a cacciarsi nelle risaie, immergendosi nell’acqua putrida e schiumosa fino alla cintura, non potendo tutti tenersi sulle strette lingue di terra che dividevano quelle piantagioni.

Camminavano da una mezz’ora, attraverso a paludi ed da pantani, quando il primo colpo di cannone, udito già anche da Sheng e dal giovane europeo, avvertì il mandarino che l’assalto dei villaggi del settentrione era già cominciato.

— Questo fracasso inopportuno guasterà la nostra impresa — disse a Sum, che gli cavalcava a fianco.

— Tutt’altro, Ping-Ciao — rispose il manciù. — Gli abitanti di Ming crederanno i boxers molto lontani e non si allarmeranno.

— Se quel vecchio briccone ci avesse dato quel cannone, la presa della borgata sarebbe stata cosa facile.

— Questi banditi ne faranno a meno, Ping-Ciao. Sono uomini solidi.

— A me sembrano degli straccioni.

— Hanno fatte le loro prove.

— Fra poco vedremo le loro prodezze, Sum. Guarda: il vecchio boxer si scalda le mani attorno alle fiamme. I villaggi bruciano in gran numero dietro le nostre spalle.

— Compiango i loro abitanti!

— Bah! — fece il mandarino, alzando le spalle. — Ne abbiamo perfino troppi dei contadini nel nostro impero.

Per due ore ancora i banditi procedettero in mezzo alle risaie che si estendevano verso il sud, poi il loro capo comandò di arrestarsi.

— Siamo vicini, signore — disse, volgendosi verso il mandarino. — Lascia i cavalli che potrebbero, coi loro nitriti, tradire la nostra presenza.

— Vuoi assalire il villaggio di sorpresa? — chiese Ping-Ciao.

— L’assalto improvviso è il migliore.

Il mandarino ed il suo compagno scesero di sella, affidando i loro corsieri ad un bandito.

Erano allora giunti presso un boschetto di gelsi, il quale cresceva solitario in mezzo a quei terreni acquitrinosi, prolungandosi in direzione di un corso d’acqua.

— Il villaggio sta dietro a queste piante — disse il capo. — Si tratta ora di avvicinarci senza farci scorgere dalle sentinelle.

— Precauzione inutile — brontolò il mandarino. — Gli abitanti dormiranno come ghiri.

I banditi si erano nuovamente divisi formando quattro piccole colonne, per poter meglio circondare il villaggio. Due, precedute dal loro capo, dal mandarino e da Sum, si cacciarono in mezzo al boschetto, le altre, invece, continuarono la loro marcia fra le risaie, procedendo curve e con infinita precauzione.

Cinque minuti più tardi, le due prime bande giungevano a due tiri di freccia dalle prime case della borgata.

— Dormono tutti — disse il mandarino, non vedendo brillare alcun lume dietro le stuoie delle finestre. — Finalmente potrò vendicarmi di quell’uomo!

— No, qualcuno veglia — disse il capo che si era sdraiato al suo fianco. — Vedo un’ombra agitarsi sulla veranda della torre.

— Che sia una sentinella?

— Da quel posto elevato si devono scorgere le fiamme che divorano i villaggi del settentrione.

— Dov’è la chiesa?

— A fianco della torre — rispose il capo.

— Che quell’uomo che scruta le tenebre sia quello che io cerco? — si chiese il mandarino, mentre un lampo d’odio gli balenava negli sguardi.

— Può essere lui — disse Sum. — Con un buon fucile si potrebbe forse abbatterlo.

— No — rispose il mandarino. — Lo voglio in mia mano vivo, per fargli provare i più atroci tormenti, prima di fargli subire il ling-cih (taglio dei diecimila pezzi).

— Avanti — disse in quel momento il capo dei banditi. — Le due altre colonne hanno già circondato le borgate dalla parte delle risaie. Avanziamoci strisciando, onde quell’uomo che veglia sulla torre non dia l’allarme prima del tempo.

I banditi, coricati fra le erbe ed in mezzo ai cespugli, avevano cominciata la loro marcia in avanti, strisciando come serpenti. Procedevano così cautamente, che l’orecchio meglio esercitato non avrebbe potuto distinguere alcun rumore.

Pochi minuti dopo il capo e il mandarino giungevano dinanzi alla prima cinta, la quale si estendeva tutta intorno alla borgata. Le altre due, più solide e più alte, si trovavano attorno alla chiesa, alla torre e alla casa del missionario, le quali formavano insieme una specie di cittadella o di castelletto fortificato.

— Fermatevi qui e aspettatemi — disse il capo, volgendosi verso il mandarino ed il manciù.

— Vai in esplorazione? — gli chiese Ping-Ciao.

— Faccio qualche cosa di meglio — rispose il bandito, con un crudele sorriso. — Giacché gli abitanti dormono, approfitto del loro sonno per espugnare la piazza.

Comandò ai suoi uomini di tenersi pronti, poi strisciò verso la cinta, scivolando agilmente fra i cespugli e gli sterpi che crescevano sul margine del fossato.

Da quella parte vi era un piccolo prato di bambù, il quale metteva ad una porta. Il bandito lo attraversò con la celerità d’una freccia e si provò a spingere l’uscio.

— Ci vorrebbe la scure per abbatterlo — mormorò. — Però sono così agile da dare dei punti ad un gatto.

Cacciò le magre dita fra la fessura lasciata fra due pali e con uno slancio improvviso si sollevò fino ad una piccola feritoia che s’apriva a tre metri dal suolo. Di là issarsi fino al margine superiore della cinta, fu cosa facilissima per quell’agile briccone.

Aveva varcato la palizzata, quando vide a pochi passi agitarsi un’ombra.

Era un abitante della borgata, svegliato pochi minuti prima da Sheng. Il povero uomo, sebbene avesse prestato poca fede alla vicinanza dei boxers, che credeva invece in marcia verso le regioni settentrionali, era uscito per fare il giro delle palizzate.

Il capo dei banditi, vedendolo accostarsi si era rannicchiato dietro un cespuglio di peonie fiammeggianti, brandendo il largo coltellaccio che portava alla cintura.

Pareva una jena in agguato pronta a slanciarsi sulla preda.

Quando l’uomo gli fu vicino, con uno scatto fulmineo gli piombò addosso. Con una mano gli chiuse la bocca per impedirgli di dare l’allarme, poi coll’altra gli cacciò nel cuore il coltellaccio con tanta violenza, che il sangue gli spruzzò il viso.

— Ora il villaggio è nostro — disse il miserabile, distogliendo gli sguardi dalla sua vittima che si agitava ancora sotto le ultime strette dell’agonia.

S’avvicinò alla porta e levò le traverse che la barricavano.

Il mandarino, Sum ed i banditi entrarono silenziosamente nell’interno della borgata, mentre alcuni, armati di fucili, salivano rapidamente sulla cinta per meglio bersagliare i disgraziati abitanti.

Tutto ciò era stato eseguito senza rumore e con tale rapidità che padre Giorgio non aveva potuto accorgersi dell’entrata dei nemici.

La banda però aveva appena fatti pochi passi, quando un rumore assordante si alzò nella borgata.

Alcuni abitanti, pure stati svegliati da Sheng, avevano scorti gli assalitori e avevano dato l’allarme con alte grida.

Ohimè! Era troppo tardi per poter respingere quei nemici, numerosi quanto l’intiera popolazione e ormai padroni della cinta.

I banditi si scagliano in mezzo alle capanne, mentre le due colonne, che avevano circondato il villaggio dalla parte delle risaie, sfondano le altre porte, entrando da tutte le parti.

Approfittando dello scompiglio, i boxers, più feroci delle tigri, si rovesciano nelle case e cominciano a massacrare uomini, donne e fanciulli, per nulla impietositi dalle grida, dai pianti e dai lamenti di quei disgraziati.

— Morte ai cristiani! — tale è il grido che risuonava dappertutto.

Alcuni abitanti, guidati da Sheng, cercano di far argine a quel torrente spaventoso e vengono invece respinti, tagliati a pezzi ed i superstiti non riescono a salvarsi che con una pronta fuga.

Il massacro diventa generale. I banditi, resi furibondi dalla resistenza opposta da quel piccolo gruppo di abitanti, espugnano una ad una le case, gettando dalle finestre gli inquilini i quali vengono subito presi, decapitati o fucilati; e vanno ad arrestarsi dinanzi alla seconda cinta ululando come fiere e agitando pazzamente le armi grondanti di sangue.

Padre Giorgio aveva assistito, impotente, a quell’orrendo massacro. Non aveva ancora raggiunto la veranda della sua casa dove tenevansi in serbo alcuni buoni fucili, che già quasi tutta la popolazione giaceva scannata per le vie della borgata.

Solamente il giovane Sheng era riuscito a sfuggire al massacro assieme ad una dozzina di uomini ed aveva potuto superare la seconda cinta, avendo trovata la scala che Enrico non aveva ritirata.

— Padre! — gridò il povero giovane, colle lagrime agli occhi. — Sono stati tutti uccisi!

— Coraggio, figliuolo — rispose padre Giorgio, con voce rotta dai singhiozzi.

— Essi vengono ad assalirci anche qui.

— Cercheremo di opporre resistenza fino all’arrivo di mio fratello. Presto, sulla veranda e sulla torre e non risparmiate le cartucce.

I tredici cinesi, sfuggiti miracolosamente all’eccidio, avevano seguìto Enrico e padre Giorgio.

I banditi si erano arrestati dinanzi alla cinta, troppo alta per venire superata senza scala e troppo solida per venire sfondata.

Il mandarino pareva furioso di essersi trovato dinanzi quell’ostacolo che gli pareva insuperabile.

— Ecco l’osso duro — aveva detto al capo dei banditi.

— Noi lo supereremo — rispose questi. — Non avete veduto come abbiamo scalata anche l’altra cinta?

— Bella fatica! Non vi era un solo difensore.

— E come abbiamo scannati quei cani di cristiani?

— Li avrei lasciati in vita pur di aver in mano quel missionario.

— I miei uomini sono invincibili.

— Comanda allora ai tuoi uomini di superare questo bastione.

— Lo faranno, signore.

Il furfante, che non mancava d’un certo ingegno, e che ci teneva a mostrarsi bravo agli occhi del mandarino, avendo scorta una lunga trave, la fece appoggiare al margine superiore della palizzata, poi comandò ad alcuni di spingersi in alto.

Dieci banditi si slanciarono sulla trave e facendo forza di braccia e di gambe, giunsero ben presto in alto.

Stavano per mettersi a cavalcioni della cinta, quando una scarica nutrita partì dalla veranda sovrastante la casa del missionario.

Enrico ed i tredici cinesi, vedendo comparire i nemici, avevano fatto fuoco, decisi a non lasciarsi trucidare come i poveri abitanti del villaggio.

Tre banditi, colpiti da quella scarica, stramazzarono al suolo fracassandosi le membra, mentre gli altri, che non si aspettavano una simile accoglienza, abbandonavano precipitosamente la cinta.

— Ecco come meritano di venire trattati quei bricconi! — gridò il giovane italiano, ricaricando prontamente la sua carabina.

Mentre quei valorosi si preparavano a dare una seconda lezione a quei feroci banditi, il missionario aveva messo in batteria, sulla veranda della torre, una grossa spingarda.

Il brav’uomo avrebbe ben volentieri risparmiato la vita a quei furfanti traviati dal fanatismo, ma si trattava di salvare i pochi superstiti del villaggio e di conservare a suo fratello il figlio.

— Dio mi perdonerà del sangue che sto per versare — disse. — In questo momento supremo il mio dovere mi impone di conservare la vita a questo pugno di valorosi.

Ed alzando la voce, gridò:

— Figli miei, non lasciatevi vincere dalla paura. I soccorsi non sono lontani!

I banditi, esasperati da quel primo scacco, mentre si credevano sicuri di vincere quel pugno di difensori, ed incoraggiati dal mandarino, il quale prometteva una borsa d’oro a colui che fosse riuscito ad impadronirsi del missionario, si preparavano ad un nuovo e più vigoroso assalto.

Convinti che la cinta non si poteva sfondare, essendo appoggiata a quella formata di terra battuta, erano andati in cerca di nuove travi per formare dei ponti volanti e delle scale.

Trovatene parecchie, erano ritornati di corsa presso la cinta, appoggiandole in diversi luoghi per dividere il fuoco dei difensori.

I più arditi, alla voce del loro capo, arrampicandosi come scimmie, riescono a toccare per la seconda volta la cima della cinta.

Era il momento atteso dal missionario.

Mentre Enrico e Sheng incoraggiano i loro compagni e scaricano i loro fucili, padre Giorgio fa tuonare la spingarda.

L’effetto di quella scarica di pallettoni fu disastroso. I banditi, crivellati dai proiettili, precipitarono addosso ai loro compagni, mandando urla di dolore.

La cima della cinta fu subito abbandonata, non ostante le grida furibonde del mandarino.

— Sono questi gli uomini invincibili? — gridò al capo con accento di sdegno. — Scappano alle prime scariche come volpi.

— Non mi aspettavo di trovare simile resistenza — rispose il bandito che pareva sconcertato. — Vi devono essere delle centinaia di difensori dietro questa cinta.

— Io ti dico invece che sono ben pochi. Sono i tuoi uomini che hanno paura.

— Signore, abbiamo espugnato delle città.

— E non siete buoni a prendere questa trappola da sorci!

— Vi farò vedere io se non siamo capaci di demolirla.

— Cosa vuoi tentare?

— Faccio dar fuoco alle case e li affumico come volpi nella tana.

— Il missionario lo voglio vivo.

— Non ve lo guasterò — rispose il capo con un sorriso diabolico. — Venti uomini mi seguano all’istante.

Mentre alcuni boxers, nascosti dietro le travi, cercavano di rispondere al fuoco dei difensori con nessun profitto in causa della imperfezione delle loro armi, vecchie di parecchi secoli, il bandito fece accendere delle cataste di legna e cominciò a far gettare i tizzoni fiammeggianti sui tetti delle case.

Il legname, già ben secco, in un baleno prende fuoco. Vampe altissime si sprigionano da tutte le parti con un crepitìo sinistro, mentre nuvoloni di fumo, spinti dal vento che soffia da settentrione, s’addensano sopra la piccola piazzaforte difesa dal missionario e dai suoi seguaci.

Le scintille turbinano in alto, cadendo da tutte le parti e minacciando d’incendiare le verande della piccola torre, della casa ed il tetto della chiesa.

Per aria si espandeva un nauseante odore di carne abbruciata. Erano le vittime dei predoni che il fuoco consumava.

Lo spettacolo era spaventoso.

Il cielo rosseggiava come se un’aurora boreale lanciasse i suoi fasci infuocati al di sopra dell’orizzonte e gli astri scomparivano dietro le nuvole di fumo che diventavano di momento in momento più fitte.

— Zio! — esclamò Enrico. — Stiamo per morire tutti!

— Non perderti d’animo! — grida il missionario. — Attenti ai banditi! Coraggio, ragazzi: Dio è con noi!

I banditi si preparavano ad un assalto decisivo prima che il fuoco li costringesse ad abbandonare la cinta.

Approfittando del fumo che li nascondeva per un momento agli sguardi dei difensori, scalavano rapidamente la palizzata e si scagliavano, con le scimitarre ed i coltelli in pugno, sulla muraglia.

Le scintille però, trasportate dal vento, cadono in così gran numero in quel luogo, da costringerli a fermarsi. Le loro vesti prendono fuoco e le loro carni provano i primi morsi dell’elemento distruttore.

Quella breve agitazione è fatale per loro.

La spingarda spazza la cima della muraglia, mentre i fucili a retrocarica dei cinesi e di Enrico colpiscono gli assalitori.

Era già troppo pel coraggio di quei bricconi. Atterriti dalle fiamme che si avvicinano rapidamente alla cinta e da quella grandine di palle, per la terza volta abbandonano la posizione conquistata.

Nel medesimo momento in lontananza si ode squillare una allegra fanfara:

— Compagni! — grida Enrico, scaricando un’ultima volta la sua carabina. — Ecco la tromba di mio padre! Siamo salvi!