Le stragi della China/9. Sul Canale Imperiale

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9. Sul Canale Imperiale

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8. Il fiume di fuoco 10. La laguna della morte

9.

Sul Canale Imperiale


La nave che li attendeva, non era una di quelle grosse giunche che si vedono navigare nel Mar Giallo e che vengono chiamate tsao; era semplicemente una barca da pesca, fornita d’un solo albero, munita di ponte e colla prora e la poppa molto elevate.

Al par di tutte le altre imbarcazioni cinesi, era di forme massicce, grossolane, priva di ogni eleganza. Aveva però la prora adorna d’una mostruosa testa di drago e l’albero irto di banderuole di carta di seta a diversi colori.

Il suo proprietario era una vecchia conoscenza del missionario e del signor Muscardo. Era un vecchietto ancora arzillo e robusto malgrado le sessanta primavere che gli pesavano sul groppone, con una magnifica coda ancora nerissima, della quale era molto orgoglioso.

Come tutti gli uomini di età, portava gli occhiali, oggetto indispensabile quanto il ventaglio per i cinesi, i quali usano adoperarli... senza lenti! E nemmeno il vecchio Men-li ne aveva, ritenendole forse inutili pei suoi occhi ancora molto buoni.

Quel pescatore era stato uno dei primi a dare un calcio alle vecchie istorie di Confucio e di Buddha, ad abbracciare la religione cristiana e siccome nutriva una vera affezione pel signor Muscardo e pel missionario, dai quali aveva ricevuto più di un favore, alle prime notizie corse d’una imminente invasione di boxers, aveva messo generosamente a loro disposizione la sua giunca ed il suo equipaggio.

— Contate di essere in casa vostra — disse al missionario ed all’ex bersagliere, quando ebbe udito il loro racconto. — Noi inganneremo quel briccone di Ping-Ciao e tutti i boxers che lo accompagnano. Dovete essere stanchi ed anche affamati.

— Cadiamo dal sonno e dalla fame — disse il signor Muscardo.

— Ho dell’eccellente thè, polvere di cannone da offrirvi, del sam-sciù e anche dei viveri. I miei marinai stanno preparandovi la cena.

— Grazie, Men-li — disse padre Giorgio.

— Si sono mostrati qui i boxers? — chiese Muscardo.

— Non ho veduto nessun battello sospetto navigare in questa palude — rispose il pescatore. — I ribelli hanno ben altro da fare che dare la caccia alla mia vecchia giunca.

— È vero che marciano su Pechino?

— Devono già aver cominciato l’assedio della capitale.

— Ed i soldati?

— Si sono uniti a loro.

— Allora tutti gli europei che si trovano in Pechino corrono il pericolo di venire assassinati — disse padre Giorgio.

— Tutte le legazioni estere sono già bloccate.

— Anche quella italiana? — chiese il signor Muscardo, impallidendo.

— Sì — rispose il pescatore.

— Ah! Se avessi sotto mano un reggimento di bersaglieri! Che marmellate vorrei fare di quei bricconi!

— E le truppe internazionali? — chiese padre Giorgio. — Mi hanno detto che sono sbarcate a Taku.

— Sì, dopo d’aver espugnati i forti, si racconta che marcino su Tien-tsin, dove si combatte contro gli europei rifugiatisi in quella città.

— Come finirà questa guerra atroce? — si chiese padre Giorgio, coprendosi il viso. — Quanto sangue vedo! Sarà la distruzione del cristianesimo in Cina?

— Temo che dei cristiani ve ne siano ormai ben pochi — disse il vecchio pescatore, con un sospiro. — Ogni giorno ne massacrano in gran numero.

— L’Europa vendicherà un giorno queste atroci stragi — disse il signor Muscardo, — e farà pagare ben caro l’assassinio dei suoi rappresentanti.

— Tu non speri nella loro salvezza, fratello?

— No, Giorgio. Prima che gli Stati d’Europa possano radunare tante forze da poter impadronirsi di Pechino, delle legazioni non rimarrà pietra su pietra.

Mentre si scambiavano le loro impressioni ed i loro timori, i cinque marinai, che costituivano l’equipaggio della giunca, avevano preparata una zuppa di pesce, alla quale avevano unito delle eccellenti olive salate, delle castagne d’acqua e delle radici eduli chiamate pun-hoa.

Gli europei, che erano molto affamati, non avendo mangiato che pochi bocconi in quarant’otto ore, fecero molta buona accoglienza alla cena, quantunque da principio si fossero trovati non poco imbarazzati ad adoperare i bastoncini d’avorio che, presso i cinesi, surrogano le forchette ed i cucchiai.

Quei bastoncini che da secoli e secoli non sono mai stati modificati d’una sola linea, sono lunghi venti centimetri e non più grossi di una penna d’istrice. Vengono chiamati kwai-tsz, che vuol dire agili ragazzi e bisogna vedere come i cinesi sanno adoperarli bene.

Anche quando mangiano il riso, che costituisce il principale nutrimento delle classi povere, non ne lasciano cadere un granello.

Il vecchio pescatore fece poscia servire il thè ed una zucca piena di sam-sciù e distribuì tabacco a chi ne desiderava, avendone una discreta provvista nella sua giunca.

— Mentre voi riposate, io lascerò la palude e cercherò di guadagnare, inosservato, il Canale Imperiale — disse al signor Muscardo.

— E dove ci condurrai? — chiese l’ex bersagliere.

— Possibilmente a Tien-tsin, dove troveremo le truppe internazionali.

— Ce lo permetteranno i boxers?

— Di questo non sono certo — rispose il pescatore. — Vorrei darvi un consiglio.

— Quale?

— Di lasciare le vostre vesti ed indossare dei costumi cinesi.

— Ne hai tu?

— Io ed i miei pescatori siamo bene provvisti.

— La nostra pelle non è gialla.

— Voi sapete che nella Manciuria vi sono degli uomini che hanno la pelle quasi bianca.

— Questo è vero, Men-li.

— Dunque passerete per manciù.

— Noi non abbiamo alcuna difficoltà a rinunciare alle nostre vesti.

— Vi aiuterò io a trasformarvi.

— A domani, amico.

Il signor Muscardo ed i suoi compagni, eccettuato Sheng, il quale non soffriva affatto il sonno, si ritirarono nella stiva dove i marinai avevano improvvisato dei letti con della tela da vele e con stuoie di giunchi strettamente intrecciati.

Mentre s’addormentavano d’un sonno profondo, il vecchio pescatore aveva fatto ritirare l’àncora e spiegare la grande vela quadra, sospesa all’unico albero.

Il vento era debole, tuttavia era sufficiente ed anche favorevole, soffiando dalla parte del fiume.

La giunca lasciò silenziosamente il canale e s’inoltrò nella vasta palude, procedendo lentamente. Due pescatori misuravano senza posa la profondità dell’acqua, onde la piccola nave non si arenasse su qualche banco fangoso.

Un silenzio assoluto regnava sulla palude. Anche verso il fiume non si udivano più né colpi di fucile, né grida.

I boxers, ormai convinti dell’inutilità dell’inseguimento e trattenuti dalla profondità dell’acqua, dovevano essersi diretti altrove, forse verso il Canale Imperiale per aspettare in quel luogo il passaggio degli europei.

Il vecchio pescatore, da buon marinaio, si era collocato al timone ed aveva fatto spegnere la grande lanterna che ardeva all’estremità dell’albero. Voleva guadagnare il canale senza farsi scorgere, né destare sospetti.

La traversata della palude occupò tutta la notte. Fu solamente verso l’alba che la giunca poté sboccare inosservata nel Canale Imperiale, in un luogo che pareva deserto.

Nel momento che virava di bordo per scendere verso occidente, il signor Muscardo comparve sulla coperta.

— Come va, amico? — chiese al pescatore, il quale stava osservando con particolare attenzione le rive del canale.

— Sembra che la fortuna ci sia propizia — rispose il vecchio mongolo. — Vedo delle capanne ancora in piedi e dei campi che non sono ancora stati incendiati.

— I boxers non sono ancora venuti qui?

— Sembra che siano lontani — rispose il pescatore. — Nondimeno non addormentiamoci, né fidiamoci troppo. Conosco il mandarino Ping-Ciao e so quanto sia vendicativo. Io ero già stato avvertito da un mio parente di Pechino che vi avrebbe assaliti, ma non giunsi in tempo per mettervi in guardia. C’è poi quel Sum che lo istiga a sbarazzarsi di voi.

— Io non ho udito parlare ancora di questo Sum. Chi è?

— Un ufficiale della guardia imperiale che ha giurato odio eterno agli europei. Pare che un inglese o un russo gli abbia ucciso un fratello e abbia promesso di vendicarsi di tutti gli uomini di razza bianca.

— Che abbiano assoldati i banditi che ci hanno dato così ostinatamente la caccia?

— È probabile, signore: Ping-Ciao è uno dei più ricchi mandarini di Pechino e non lesinerà il denaro per vendicarsi.

— Sai tu dove sia suo figlio?

— Si dice che si sia rifugiato nella Manciuria per sottrarsi all’ira di suo padre. Sapete che questi sarebbe capace di ucciderlo?

— E glielo permetterebbero?

— Fra noi, signore, i padri hanno diritto di vita o di morte sui figli e possono ucciderli senza che i magistrati nulla abbiano a ridire.

— Auguro a quel povero Wang di non incontrarsi più mai con suo padre.

— Si guarderà bene dall’abbandonare la Manciuria.

Mentre chiacchieravano, la giunca continuava ad avanzarsi lentamente rimontando il canale.

Le due rive erano quasi deserte, non vedendosi che radi gruppi di capanne e qualche torre solitaria abitata da bonzi, ossia da sacerdoti di Buddha. Le campagne invece apparivano splendidamente coltivate.

Abbondavano soprattutto le piantagioni di thè.

A questi arbusti, poiché non sono veri alberi, i cinesi dedicano delle cure straordinarie, ed a ragione, costituendo essi la principale ricchezza dell’impero.

La quantità che se ne raccoglie è così copiosa da non poterne avere un’idea. Oltre il consumo straordinario che se ne fa nell’interno, se ne trasporta in Europa una grande quantità che si vende a prezzi altissimi.

Ordinariamente è la qualità scadente che rimane in Cina; quello scelto si preferisce venderlo agli europei, ricevendo più di cento milioni in oro all’anno.

La raccolta delle foglie richiede delle cure minuziose che solamente i cinesi ed i giapponesi, che sono dotati di una pazienza infinita, riescono a condurre a buon termine.

La prima raccolta si fa in aprile, allorché le foglie sono ancora piccolissime e coperte da una leggera peluria e questo è il thè migliore; la seconda, che dà una qualità un po’ più scadente, si fa invece in luglio ed è la più copiosa e la terza alla fine dell’agosto. Questo è il meno apprezzato.

Le foglie, subito dopo raccolte, prima si lasciano seccare per alcuni giorni, poi si torrefanno in grandi padelle di ferro, spremendole fortemente onde non rimanga alcuna goccia di succo, quindi si manipolano per bene arrotolandole e finalmente si torna a esporle al fuoco. Così preparate, si scelgono e si pongono in commercio sotto il nome di thè polvere di cannone, thè dai capelli bianchi, thè fiore di perla, ecc. a seconda delle qualità più o meno apprezzate.

Oltre alle piantagioni di thè si vedevano di frequente anche vasti campi coltivati a indaco ed a gelsi. Quest’ultimi non vengono lasciati crescere come da noi, perché i cinesi affermano che le piante giovani dànno la foglia migliore. Ed infatti ormai è saputo da tutto il mondo che la seta più bella è sempre quella cinese fornendo quei bachi un filo molto più resistente e molto più brillante di quello che si ricava da quelli allevati in Europa.

Verso il mezzodì la giunca che continuava a navigare lentamente, essendo il vento scarsissimo, faceva l’incontro di una nave da guerra che si teneva ancorata in mezzo al fiume.

Era un grosso legno, poco dissimile per forma a quello montato dai fuggiaschi, fornito però da tre alberi che reggevano delle ampie vele di cotone e armato di due cannoni di vecchio modello.

Quantunque quell’incontro non avesse nulla di straordinario, avendo il governo cinese mandate le sue vecchie navi da guerra nei fiumi, dopo la costruzione delle corazzate e degli incrociatori, mise in apprensione il vecchio pescatore ed il signor Muscardo.

— Non vorrei che fosse stato mandato qui per impedire la fuga agli stranieri — disse il cinese. — Ormai tutti sanno che l’imperatrice si è alleata ai boxers per sterminare i cristiani.

— Che ci faccia fermare?

— È anzi probabile che mandi degli uomini a visitare la giunca — rispose il cinese.

— Cosa ci consigli di fare?

— Travestirvi da mongoli e senza perdere tempo. Fra mezz’ora, noi passeremo dinanzi a quel legno.

— Noi siamo pronti a ubbidirti — disse il signor Muscardo. — Fingeremo di essere cinesi delle provincie settentrionali che vanno ad arruolarsi a Pechino per far la guerra agli stranieri.

I fuggiaschi si misero subito all’opera per compiere la loro trasformazione. Per meglio ingannare i marinai della giunca, si lavarono per bene con una soluzione di zafferano, diventando più gialli dei cinesi, calzarono scarpe di feltro dalla punta quadra e dalla suola molto alta, indossarono ampie casacche di nanchino a fiorami ed a lune sorridenti, abbottonate da un lato e con maniche molto ampie e calzoni larghissimi che formavano sul ventre come una doppia piega.

Per nascondere gli occhi si misero degli occhiali affumicati e si coprirono la testa con cappellacci di paglia in forma di fungo. Mancavano le code; l’ex bersagliere, che era ricco di espedienti, ne fabbricò in fretta alcune, intrecciando alla meglio delle vecchie corde incatramate che potevano, fino ad un certo punto, passare per capelli.

Così trasformati si sdraiarono nella stiva, scegliendo l’angolo più oscuro e nascondendo le armi sotto le coperte di feltro che servivano a loro da letti.

— Fingete di russare e non temete — disse il vecchio pescatore. — Se i marinai della giunca vorranno svegliarvi, fate molto strepito e ricorrete alle minacce.

— Romperò il muso a qualcuno — disse il signor Muscardo, impugnando un vaso di terra. — Anzi minaccerò di ricorrere al mandarino Ping-Ciao.

Quando il vecchio pescatore risalì in coperta, la giunca da guerra aveva lasciata scorrere molta catena dell’àncora per impedire il passo alla piccola nave.

— Ohe! Dateci posto! — gridò il pescatore, vedendo che gli si tagliava la via.

Sulla prora e sulla poppa della nave erano comparsi numerosi marinai armati di fucili e di sciaboloni.

— Non si passa! — gridò una voce.

— Forse che è impedita la navigazione del Canale Imperiale? — chiese il pescatore.

— Pel momento sì.

— Per ordine di chi?

— Del mandarino Ping-Ciao.

— Io sono un suo dipendente — disse audacemente il pescatore. — Porto anzi a lui alcune reclute.

— Tu conosci il mandarino? — chiese un ufficiale vestito di seta azzurra, salendo sulla prora.

— È mio protettore.

— Allora ci dirai dove si trova.

— In questi dintorni ove dà la caccia ad una banda di maledetti cristiani.

— Vedo che sei bene informato — disse l’ufficiale. — Chi sei?

— Un servo di Sum.

— Del capitano delle guardie imperiali?

— Ed amico intimo del mandarino.

— Sono stati presi i cristiani?

— Credo che stiano cucinando sopra un bel fuoco.

— Ed il missionario?

— Quello che gli ha convertito il figlio? È morto durante l’assalto di Ming.

— Se tu sai queste cose, devi essere veramente un dipendente di Sum o del mandarino.

— Allora lasciatemi passare.

— Dove vai?

— A Pechino.

— Quante reclute porti?

— Otto persone solide che non hanno paura degli europei.

— Conducili sul ponte.

— Dormono nella stiva — disse il pescatore. — Volete venirle a vedere?

— Va’, il passo è libero — rispose l’ufficiale. — Credo alle tue parole.

La giunca da guerra si era ritirata raccogliendo la catena. La piccola nave del pescatore fu lesta ad approfittare del passo per continuare la sua marcia verso occidente.

— L’abbiamo passata liscia — mormorò il pescatore. — Or si tratta di fuggire più presto che si può e di guadagnare più via che ci sarà possibile. Se Ping-Ciao si accorge del tiro, ci manderà dietro quel vascello e verremo calati a picco con poche cannonate.

Il signor Muscardo ed i suoi compagni lo attendevano in preda ad angosce facilmente immaginabili. Quantunque camuffati da mongoli, non si sentivano troppo tranquilli circa la loro sorte, poiché sarebbe bastata una semplice imprudenza a perderli.

Quando udirono il pescatore scendere e la giunca muoversi, le loro apprensioni cominciarono a calmarsi.

— Pel momento siamo salvi — disse Men-li, rassicurandoli con un gesto della mano.

Poi raccontò loro come erano passate le cose.

— Hai avuto una bella audacia — disse padre Giorgio. — Il pericolo non è ancora cessato.

— È vero — disse il signor Muscardo. — Se il mandarino va a bordo del vascello da guerra si accorgerà dell’inganno e vi farà inseguire.

— Non potevo fare diversamente — rispose il pescatore. — Un momento d’esitazione e forse voi eravate perduti.

— Troveremo delle altre giunche? — chiese padre Giorgio.

— È possibile — rispose il pescatore. — Ping-Ciao cerca di chiudervi tutte le vie di scampo sia dalla parte di terra che del canale.

— Quanto accanimento in quell’uomo! — esclamò Enrico.

— Ha giurato di vendicarsi e farà il possibile per riuscire — disse il pescatore.

— Cosa fare ora? — chiese il signor Muscardo.

— Vi consiglio di rimanere con me fino all’arrivo dei boxers. Quando si mostreranno io vi sbarcherò in qualche luogo deserto e cercherete di raggiungere Tien-tsin. Colà troverete probabilmente le truppe europee.

— E tu?

— Se il pericolo stringerà, abbandonerò la mia giunca e verrò con voi. Ormai è tanto vecchia che non vale più nulla.

— Ti rifonderemo della perdita, uomo generoso — disse il signor Muscardo. — Ho un bel gruzzolo d’oro nella mia cintura.

— Grazie signore — disse il pescatore, sorridendo. — Non ne vale però la pena: la mia nave era ormai condannata. Ancora qualche viaggio e poi l’avrei abbandonata.

— Te ne comprerai un’altra migliore, Men-li.

— Silenzio, signor Muscardo.

— Cosa vuoi?

— Udite! Degli spari in direzione della giunca da guerra!

— Che il mandarino sia giunto o che la ciurma si sia accorta del nostro stratagemma?

Il vecchio pescatore non rispose, era diventato pallidissimo e assai inquieto.

— I boxers, è vero? — chiese il signor Muscardo, dopo aver ascoltato qualche minuto secondo.

— Non possono essere che loro — rispose il pescatore, il cui viso si oscurava.

— Che siano quelli che ci hanno inseguiti sul fiume?

— Non ne abbiamo veduti altri in questi dintorni. Le bande del Giglio azzurro, della Campana d’argento e del Berretto giallo devono già essere giunte a Pechino.

— Allora il pericolo è grave.

— Gravissimo, signore. La ciurma della giunca da guerra, a quest’ora si è messa in relazione con loro e deve averli avvertiti del nostro passaggio.

— Cosa faremo noi?

— Non ci resta che un mezzo.

— Quale? — chiese padre Giorgio.

— Abbandonare la giunca, o meglio affondarla per far sparire le nostre tracce e gettarci in mezzo alle paludi che abbiamo alla nostra destra.

— Le conosci tu?

— Vi sono andato parecchie volte a cercare inutilmente dei pesci — rispose il vecchio.

— Potremo raggiungere qualche rifugio.

— Sì, un tempio abbandonato, molto più vasto di Khang-hi.

— Andiamo, Men-li — disse l’ex bersagliere.

— Un momento solo — rispose il vecchio. — Prendete intanto le vostre armi e dei viveri.

Diresse la giunca verso la riva destra la quale era molto bassa e interrotta da un gran numero di canali che servivano di scolo alle acque d’una immensa palude, che si estendeva a perdita d’occhio verso il nord.

— Imbarcatevi nella scialuppa ed aspettatemi — disse il vecchio mongolo, armandosi di una scure.

Il signor Muscardo, il missionario, i loro compagni ed i cinque marinai della giunca si calarono nella scialuppa portando con loro le armi, le munizioni e delle provviste da bocca.

Un momento dopo il vecchio pescatore li raggiungeva dicendo:

— È fatto: ho sfondato i fianchi alla mia nave e l’acqua entra a torrenti. Povera vecchia! Ha terminata la sua lunga esistenza! Purché non sia un brutto augurio per me.

— Partiamo — disse il signor Muscardo.

In quel momento sul ponte della piccola nave si udì un lugubre latrato.

— Ho lasciato il mio cane — disse il pescatore.

— Potrebbe tradirci coi suoi latrati — disse il signor Muscardo.

— Forse avete ragione. Prendiamo il canale di destra e arranchiamo.

La scialuppa sotto la spinta di otto remi poderosamente maneggiati si cacciò nella palude, mentre la giunca affondava lentamente girando su se stessa e scricchiolando.