Le stragi della China/Conclusione

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Conclusione

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21. La vendetta del gigante

Conclusione


Un’ora dopo gli avvenimenti narrati, il signor Muscardo, Enrico e Sheng lasciavano la villa del mandarino sotto la scorta di Wang e dei due tartari.

Il bravo giovane, dopo aver ordinato ai servi di preparare splendidi funerali alla vittima e all’assassino, si era assunto l’incarico di condurre in salvo i suoi amici.

L’impresa era tutt’altro che facile. Pechino nuotava nel sangue e le turbe scatenate dei boxers, non ancora sazie di carneficina, scorrazzavano la città dando la caccia a tutti i cristiani indigeni.

Indicibili orrori erano stati commessi dopo l’assedio della legazione inglese. Imbaldanziti dalla vittoria e appoggiati dal nuovo imperatore, il quale aveva ordinato l’esterminio di tutti i cristiani e di tutti gli stranieri sparsi nell’immenso impero, i boxers e la plebaglia, unitamente alle truppe, si erano abbandonati ad atrocità incredibili.

Più di cinquemila cristiani erano stati trucidati nel modo più barbaro, nei quartieri della città cinese. Avevano scannati gli uomini, troncate le mani, le gambe e le orecchie alle donne che lasciavano poi morire svenate, e schiacciata la testa ai fanciulli facendone uscire le cervella.

Pure la strage non era ancora finita.

Distrutti i cristiani, i ribelli se l’erano presa anche con tutti coloro che potevano aver avuto rapporti con gli europei, mitragliandoli in massa nelle loro abitazioni, non risparmiando né sesso, né età.

E non solamente a Pechino si nuotava nel sangue. Anche nelle altre provincie si macellavano i cristiani e si torturavano atrocemente le monache ed i missionari prima di decapitarli.

Ad alcuni, più disgraziati degli altri, si faceva subire perfino il supplizio dei diecimila pezzi, il più atroce di tutti, poiché il paziente deve sentirsi strappare di dosso la pelle a piccole liste, prima di venire tagliuzzato in un numero indefinito di pezzi.

La Cina, dal nord al sud, dall’oriente all’occidente, era in fiamme.

Wang, valendosi del nome di suo padre, poté, nondimeno, far uscire i suoi protetti dalla città tartara, dove le stragi erano pure cominciate contro gli avversari o creduti tali dal nuovo imperatore e li aveva momentaneamente condotti nella torre di Yung-ti, dove erano ritornati gli affigliati della Croce gialla. Il fratello di Han non aveva più fatto ritorno.

Ucciso il mandarino, per vendicare forse la strage di Ming, era scomparso senza lasciare più traccia di sé. Probabilmente nel fuggire aveva incontrato orde di boxers e come tanti altri era stato ucciso.

Wang tenne nascosti nella torre i suoi amici per alcuni giorni, non osando affrontare le bande dei ribelli che assediavano ancora la legazione inglese e che mettevano a ferro ed a fuoco tutti i quartieri, accumulando rovine, poi una notte oscura poté condurli inosservatamente al Canale Imperiale dove si trovava una giunca da pesca montata da cristiani.

— Tornate a Pechino? — chiese il signor Muscardo al bravo giovane.

— No — rispose Wang. — Io ho promesso a mio padre di salvarvi e non vi lascerò finché non vi vedrò fra le truppe europee.

La giunca poté così scendere, senza cattivi incontri, fino a quaranta miglia da Tien-tsin. Colà gli europei furono costretti a sbarcare per non farsi prendere dagl’insorti.

I boxers avevano occupate le rive del canale per impedire l’avanzata delle truppe internazionali e non era prudente arrischiarsi fra le loro orde.

Tutto il paese era stato messo a sacco e villaggi interi erano stati distrutti assieme agli abitanti.

Il terrore regnava tanto sulle rive del Pei-ho, quanto su quelle del Canale Imperiale.

A Tien-tsin si combatteva da parecchi giorni con furore estremo. Le truppe internazionali, formate da marinai inglesi, russi, italiani, tedeschi e francesi, sotto il comando dell’ammiraglio Seymour, avevano già replicatamente attaccata quella grande città per aprirsi la strada che conduceva a Pechino.

In quei giorni si sperava ancora nella salvezza delle ambasciate, scomparse invece, una ad una, fra il fuoco ed il ferro, quella inglese eccettuata.

Immense orde di ribelli e migliaia e migliaia di soldati si erano concentrati, con un gran numero di cannoni, nella città, respingendo vittoriosamente le esigue per quanto valorose colonne europee.

I nuovi rinforzi, mandati più tardi, durante il luglio, dalle nazioni europee e dal Giappone per vendicare la morte dei loro connazionali, non avevano potuto ottenere che parziali successi e con immensi sacrifici d’uomini.

Wang, trovandosi nell’impossibilità di continuare quella via, condusse i due italiani in una sua possessione che si trovava più a settentrione, sfuggendo felicemente alle orde sanguinarie.

Si intrattenne colà sino alla fine di luglio, cioè fino a quando le truppe europee e giapponesi, con uno sforzo supremo, ebbero spazzate dinanzi a loro le truppe imperiali e le bande dei ribelli; poi imbarcò i due italiani su una giunca che scendeva il Pei-ho, conducendoli felicemente a Taku.

— Ecco la vostra bandiera — disse il valoroso giovane, indicando a loro il vessillo che sventolava sulla poppa di una nave da guerra. — La mia missione è finita. Perdonerete voi ora a mio padre?

— Sì — disse il signor Muscardo, abbracciandolo.

— Voi siete generosi — rispose il giovane capitano, che aveva le lagrime agli occhi. — Grazie per mio padre.

— Perdoniamo anche a Sum — disse l’ex bersagliere. — Ditegli, quando lo rivedrete, che si penta delle sue infamie.

— Grazie anche per lui. Ed ora, andate, tornate nella vostra patria e ricordatevi qualche volta di me e di padre Giorgio che dorme il sonno eterno presso colui che lo ha ucciso.

— Taci, Wang — disse il signor Muscardo, soffocando un singhiozzo.

— Addio, miei buoni amici; torno a Pechino con in cuore le vostre parole di ricordo e di perdono.

— Ci rivedremo un giorno? — chiese Enrico.

— Forse, se la morte mi risparmierà — rispose il giovane con voce triste.

— Tu vai a cercarla: io lo leggo nei tuoi occhi, Wang — disse il signor Muscardo.

— Ho il dovere di espiare anch’io i delitti commessi nel mio paese.

— Ed in quale modo?

— Accorrendo in difesa dei cristiani ed a morire con loro. Addio, amici, siate felici.

Pochi istanti dopo il signor Muscardo, Enrico e Sheng s’imbarcarono su una scialuppa che doveva condurli a bordo dello stazionario italiano, in attesa di far ritorno in patria.