Le stragi delle Filippine/Capitolo XX - Un supplizio spaventevole

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Capitolo XX - Un supplizio spaventevole

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Capitolo XX - Un supplizio spaventevole
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Capitolo XX


UN SUPPLIZIO SPAVENTEVOLE


I chinesi ed i tagali si erano precipitati come un solo uomo verso il maggiore, il quale li aveva attesi colle braccia incrociate, la fronte alta e serena ed un sorriso sprezzante sulle labbra, nell'atteggiamento d'un uomo che sfida imperterrito la morte.

Obbedendo ai loro istinti sanguinari, tutti avevano alzate le armi, ululando come una torma di fiere disputatesi la preda, spingendosi e respingendosi per essere i primi a vibrare il colpo mortale, ma ad un tratto si erano arrestati. Un pensiero infernale era balenato nella mente d'un chinese, il quale aveva gridato:

— Tagliamolo a pezzi!...

La proposta aveva trovato eco.

— Sí, — avevano risposto alcuni. — facciamogli soffrire il ling-chi!...

Alcuni chinesi, i piú vicini, avevano allungate le mani verso il maggiore e lo avevano atterrato, senza che il valoroso spagnuolo manifestasse il menomo sentimento di terrore per quell'atroce martirio a cui lo condannavano e senza che opponesse la menoma resistenza.

Non ignorava cosa fosse il ling-chi, parola che significa «taglio in diecimila pezzi» la pena piú spaventevole inventata dai chinesi, poiché consiste nel legare il paziente ad un cavalletto e tagliuzzargli tutte le parti carnose, e strappargli brano a brano; pure si preparava ad affrontare serenamente quella morte crudele.

Già alcuni tagali avevano tagliati parecchi rami per improvvisare il cavalletto, quando un chinese di statura gigantesca, che era decorato delle insegne di sotto-capo, ebbe un'idea ancora piú feroce.

— Non il ling-chi, — diss'egli. — Mettiamolo nella gabbia di bambú e facciamolo danzare all'estremità d'un albero. Il divertimento sarà piú bello.

— Sí, sí, — urlarono altri venti. — La gabbia di bambú!...

— Sí, facciamolo danzare in aria!... — gridarono altri ancora.

— La gabbia!... la gabbia!... — gridarono tutti.

Alcuni uomini si slanciarono nel bosco dove avevano veduto alcuni macchioni di bambú e poco dopo ritornavano portando alcuni fasci di quelle canne chiamate teba-teba, armate di formidabili spine che producono ferite dolorosissime. Altri, pratici nelle costruzioni di tali gabbie, si misero subito al lavoro con febbrile attività, mentre due o tre dei piú agili, arrampicatisi su di un colossale tamarindo, gettavano una corda vegetale, un lunghissimo calamo, all'estremità di un ramo flessibile sí, ma tanto solido da sopportare anche un peso considerevole.

Il maggiore, che era stato circondato da dieci tagali armati di fucili, assisteva a quei preparativi colla piú perfetta calma. Nemmeno il sorriso aveva abbandonato le sue labbra; solamente la sua fronte appariva bagnata d'alcune grosse gocce di sudore.

Poteva essere un coraggioso, un uomo che non paventava la morte, ma quei sinistri preparativi dovevano però aver scosso la sua fiera anima. Sapeva cos'era il ling-chi, ma non ignorava anche il supplizio della gabbia spinosa, un martirio forse piú spaventevole dell'altro, poiché piú lento, piú atroce.

Questa pena, che i chinesi usano per lo piú contro i prigionieri di guerra, e che usarono non di rado contro i soldati francesi caduti nelle loro mani durante l'ultima campagna del Tonchino e dell'Yun-Nan, è infatti una delle piú orribili, peggiore del palo dei turchi e dei persiani.

L'istrumento usato è una specie di gabbia di mezzo metro quadrato, formato da otto bambú spinosi e col fondo pure coperto di spine, le quali non lasciano libero che un piccolo spazio, appena sufficiente da permettere alla vittima di posare i piedi.

Al disgraziato condannato si legano le braccia e le gambe onde non possa muoversi, poi viene deposto nella gabbia ed abbandonato a se stesso, privandolo del cibo e dell'acqua.

È allora che il supplizio comincia. Guai se si abbandona un istante, poiché cade contro le punte acute dei bambú che gli lacerano le carni.

Bisogna che resista finché può, se vuole godere alcuni giorni di vita, ma poi, dopo d'aver lottato contro il sonno e vinto dalla estrema debolezza, viene il momento in cui è costretto a cadere.

Impotente di mantenersi ritto, comincia a oscillare, ma la vista delle punte acute, pronte a lacerarlo, gli danno un ultimo istante di vigore. Si curva, ma si risolleva: la lotta diventa allora spaventosa; il martirio atroce. La debolezza finalmente lo vince e s'abbandona, impotente a piú oltre a resistere, contro le punte di bambú che gli si cacciano nelle carni.

Il corpo del povero martire rimane ancora appeso a quelle punte e non si stacca piú, ma la morte è sovente lunga a venire. Si sono veduti condannati vivere due o tre giorni in quell'orribile posizione e non si saprebbe dire con precisione se poi morivano per lo strazio o per la mancanza di sonno o per fame.

Mancando alle bande il tempo di poter assistere a quella lunga agonia, avevano pensato di issare la gabbia all'estremità del flessibile ramo di un tamarindo e di farla vivamente dondolare, per assister agli sforzi disperati che avrebbe dovuto fare la vittima per non perdere l'equilibrio e farsi subito infilzarsi dalle punte dei bambú. Era una specie di supplizio dei pettini, altra tortura usata in China, in cui il condannato, sospeso ad un anello di ferro e ad una carrucola, viene fatto oscillare vivamente, onde vada a farsi strappare le carni contro alcune punte di ferro o d'acciaio infisse in una parete.

Terminata la gabbia da quegli abilissimi lavoratori di bambú, il maggiore fu afferrato, legato per bene onde impedirgli di fare qualsiasi movimento e deposto fra le otto canne, vedendosi fra quelle punte, lo spagnuolo ebbe uno scatto di ribellione.

— Vili! —gridò con voce tuonante. — Io sono un soldato e non un malfattore. Uccidetemi colle vostre armi piuttosto.

I chinesi ed i tagali risposero con un'atroce risata.

— Issa!... — gridò il sotto-capo dei chinesi.

Sei uomini si precipitarono verso la corda vegetale per innalzare la gabbia, ma s'arrestarono tosto stupiti ed inquieti.

Un grido terribile era echeggiato verso la casa.

— Fermi o vi uccido tutti!...

Un uomo si era precipitato fuori dall'abitazione, stringendo in mano un fucile, che teneva impugnato per la canna, come si preparasse a servirsene d'una mazza. Aveva i lineamenti sconvolti da una collera tremenda e gli occhi che brillavano d'una fiamma minacciosa.

Hang-Tu, che fino allora non si era mosso, come se tutto ciò che si era svolto attorno a lui non lo avesse menomamente interessato, udendo quella voce era balzato in piedi esclamando:

— Romero?...

Poi si era gettato innanzi chiudendogli il passo.

— Hang!... — gridò Romero, che pareva in preda ad una viva esaltazione. — Salva quell'uomo!

— No, — rispose il chinese, con tono risoluto.

— È il padre di Teresita.

— È un nemico dell'insurrezione.

— Ma è il padre di colei che amo, m'intendi?

— L'amore è una parola che non si conosce, quando si lotta pel trionfo della libertà e della patria. Qui si combatte e si muore.

— È l'uomo che ti ha salvato, Hang.

— È l'uomo che io odio.

— Ebbene, uccidi anche me: il fratello d'armi spenga di suo pugno il fratello.

La disperazione del meticcio era diventata tale, che la fiera anima del chinese fu scossa. Fece un cenno ai chinesi ed ai tagali onde si fermassero, ma nessuno obbediva, anzi vedendo che la preda stava forse per sfuggire loro di mano, si preparavano ad affrettare l'esecuzione.

Una vampa d'ira guizzò negli occhi del capo delle società segrete.

Con un gesto rapido snudò la formidabile catana e si slanciò innanzi, gridando:

— Qui comanda Hang-Tu, il capo degli uomini gialli. Fate largo!...

il chinese era terribile a vedersi. La lama scintillante della catana, pareva pronta ad aprire un solco sanguinoso fra quei duecento uomini.

— Largo!... — ripeté. — Lasciatemi quell'uomo!...

Tutti retrocessero vivamente dinanzi a lui, meno uno. Era il sotto-capo dei chinesi, colui che aveva fatto la proposta di chiudere il maggiore nella gabbia. Quel gigante si era aggrappato alla corda vegetale e non pareva affatto disposto a obbedire.

— Vattene!... — gli gridò Hang.

— No, capo, — rispose il chinese. — Quest'uomo ce l'hai dato e morrà.

— Vattene o t'uccido, — ripeté Hang.

— No.

La pesante lama del capo delle società segrete scese rapida come un fulmine, sulla testa del gigante.

Il gigante agitò pazzamente le braccia brancolando nel vuoto, poi stramazzò al suolo rimanendo immobile.

— Cosí muoiano tutti coloro che non obbediscono ai capi dell'insurrezione, — disse Hang, gettando sugli uomini che lo circondavano uno sguardo tale da farli tutti indietreggiare.

Poi s'avvicinò alla gabbia e disse al maggiore, che teneva fissi gli occhi su Romero:

— La vostra vita dipende da Romero Ruiz, ma spero di strappargliela ancora di mano.

Tornò vicino al meticcio, lo afferrò per un braccio e lo trasse verso una macchia facendolo sedere su di un tronco atterrato, poi incrociando le braccia e sedendosigli di fronte, disse:

— Ed ora, a noi due!

La voce di Hang era grave, quasi minacciosa; la sua fronte cupa. Era forse la prima volta che cosí parlava a Romero, pel quale, fino a pochi minuti prima, aveva nutrito un affetto immenso, piú che fraterno.

Lo guardò fisso per alcuni istanti in silenzio, ma con uno sguardo cosí acuto che pareva volesse penetrare fino in fondo all'animo del fratello d'armi, poi disse con voce lenta, ma nella quale si sentiva vibrare una profonda commozione.

— Che cosa vuoi tu?

— Salvarlo, — disse Romero.

— E quali pretese accampi, perché debba cederti quell'uomo?...

— Hang-Tu, non mi sei piú amico adunque?...

— Lo sono ancora.

— Allora tu sai che è il padre di Teresita.

— E che importa di Teresita all'insurrezione?... Quell'uomo è uno spagnuolo, è un nemico, è un comandante di coloro che da quattro mesi combattono con fortuna contro le nostre bande e che ci fanno pagare, con un fiume di sangue, il grido lanciato su queste isole di: viva la libertà!...

«Essi fucilano i nostri capi che cadono nelle loro mani, perché vuoi tu ora salvare lui, che è caduto nelle nostre?... Perché è il padre della donna che tu ami?... Ma la patria vale ben piú che l'amor tuo per una fanciulla, per una figlia dei nostri nemici, dei nostri oppressori. La libertà d'un popolo intero vale ben piú che la felicità d'un solo uomo, sia pure questo il capo supremo dell'insurrezione, sia pure un prode e si chiami pure Romero Ruiz, il patriotta.»

— Hang, — disse Romero. — Ho dato tutto per la causa della libertà, ho perduto tutte le mie ricchezze per essa, ho veduto distruggere le mie piantagioni, demolire le mie case, confiscare i miei beni, ho dato il mio braccio ed il mio ingegno, ho lottato, ho provato le amarezze dell'esilio, ho cercato perfino d'infrangere la passione che m'ardeva il cuore, ho dato perfino il mio sangue... Forse che non ho il diritto di esigere anch'io qualche cosa da essa?... Che cos'è che chiedo per tutto quello che ho perduto?... La vita d'un uomo e nulla di piú.

— Ma la vita di quell'uomo può essere fatale a qualcuno.

— A chi?...

— Forse un giorno lo saprai e solo allora comprenderai quante gocce di sangue sarà costata ad Hang-Tu, al tuo fratello d'armi che ti ha immensamente amato, che ha vegliato su te come tu fossi un suo figlio, la parola che tu cerchi ora di strapparglieli dalle labbra.

— Quali parole sono coteste Hang?... Che cosa significano?...

— Oh! Hang-Tu non te lo dirà mai.

— Tu nascondi al tuo fratello d'armi un segreto.

— Può essere, ma questo segreto non appartiene che a me.

— Hang-Tu, amico mio!

— Silenzio, Romero. Parliamo del maggiore d'Alcazar.

— Ebbene, concedimi la vita di quell'uomo.

— Per salvarlo, per lasciarlo andare libero, per dare ai nostri nemici un capo che potrebbe un giorno piombarci ancora addosso a far strage dei nostri uomini? Tu hai vantato i tuoi diritti perché l'insurrezione ti ceda quell'uomo, ma io non ho vantato ancora i miei, Romero.

«Anch'io ho dato per la causa, pel trionfo della quale combattiamo, la mia vita. Anch'io ho veduto distruggermi dagli spagnuoli, dai soldati di questo nemico che io tengo fra le mie mani, le mie piantagioni e le mie case; anch'io ho provato l'esilio, sono stato condannato a morte, ho lottato ed ho sofferto ed avevo giurato di vendicarmi se il destino m'avesse gettato dinanzi questo d'Alcazar, che ora tu vuoi strappare alla morte. Perché Hang-Tu che l'ha fatto prigioniero colla propria audacia, non si vendicherà del suo mortale nemico?»

— Ma tu non dimentichi, Hang, la notte che ci rifugiammo nel suo giardino.

— Non l'ho scordata.

— Quest'uomo che tu odii, quella notte ti ha salvato, mentre poteva perderti.

— Ma anch'io non ho fatto fuoco, quando lo tenevo dinanzi la canna della mia rivoltella.

— Tu sei generoso, Hang.

— Forse, ma non lo si può essere sempre.

— Hang-Tu, io salvo il padre della fanciulla che amo.

— E darai un nemico di piú alla nostra causa.

— È bello talvolta mostrarsi generosi. Almeno non si dirà che tutti gl'insorti sono feroci.

— E rideranno della nostra generosità e continueranno a combatterci con furore.

— È nel loro diritto il difendersi.

— Ed è nostro diritto sopprimere i nostri piú formidabili nemici.

— Basta, Hang: grazia per lui.

— L'ami dunque immensamente la fanciulla bianca, per strappare all'insurrezione uno dei suoi piú temuti avversari?

— Sí, l'amo, Hang.

— Sempre?...

— Sempre.

— E tu credi di non poterla dimenticare.

— No.

— Per nessun'altra donna?... — chiese Hang, la cui voce tremava.

— No.

— Nemmeno per... Than-Kiú?... — chiese il chinese, con estrema ansietà.

— Than-Kiú!... — esclamò Romero — io le voglio bene...

— Le vuoi bene!... — gridò Hang, balzando in piedi.

— Sí, ma come una sorella.

Il chinese era diventato pallido come un cencio lavato, anzi livido. Ricadde sul tronco dell'albero come se le forze lo avessero improvvisamente abbandonato, prendendosi il capo fra le mani:

— Ah!... È vero... tu non puoi amare le donne del mio paese, — mormorò egli con triste accento. — Non sono bianche come la Perla di Manilla.

Si era bruscamente rialzato, girando all'intorno uno sguardo smarrito. Pareva che cercasse qualcuno, e che i suoi occhi non vedessero piú nulla.

— Che cosa vuoi, fratello? — chiese Romero.

— Attendimi, — rispose il chinese.

Sulla porta della casa, appoggiata allo stipite, vi era Than-Kiú, ed il chinese, dopo una breve esitazione, si era diretto verso la fanciulla.

Quando le fu vicino, il suo viso era cosí alterato, che Than-Kiú non poté trattenere un gesto di meraviglia.

— Hang, — mormorò. — Cos'hai?...

— Nulla — rispose il chinese. — Vuoi che il padre della donna bianca viva o muoia?...

Than-Kiú non rispose: guardava il chinese, come se volesse leggergli negli occhi il motivo di quella domanda.

— Mi hai compreso? — chiese egli.

— Sí.

— La vita di quell'uomo sta nelle nostre mani.

— Ma Romero?... — balbettò la fanciulla, con voce alterata.

— Sei tu che devi decidere. Bada che se tu lo condanni, potrai scavare un abisso immenso fra il cuore della fanciulla bianca e quello di Romero, poiché non sarà stato Hang-Tu che avrà ucciso il maggiore d'Alcazar, ma le bande comandate da Hang-Tu e da Romero Ruiz. Scegli!...

— Mi fai paura Hang.

— Scegli, — ripeté il chinese.

— Io non posso ucciderlo: sono una donna e non ho il fiero cuore come te.

— Lo salvi adunque?...

Than-Kiú chinò il capo senza rispondere.

— Lo vuoi salvare per Romero, è cosí, Than-Kiú?

— Sí.

— E avrai riempito l'abisso che io volevo scavare fra la donna bianca e lui.

— Romero mi sarà riconoscente.

— Ma amerà sempre la Perla di Manilla.

— Forse penserà a me.

— T'inganni, Than-Kiú.

— Si compia il mio destino, — mormorò la fanciulla.

— E sia, — disse Hang-Tu.

Era ritornato presso Romero.

— La vita del padre della donna bianca non la dovrai né a me, né all'insurrezione, — gli disse. — La devi alla generosità di Than-Kiú!

— Grazie, Hang.

— Non ringraziarmi, Romero. Io in questo istante salvo un uomo, ma spezzo una vita gentile ed infrango un dolce sogno. Sia: Hang-Tu obbedirà!

Estrasse la catana e s'avvicinò alla gabbia, entro la quale si trovava ancora il maggiore d'Alcazar. Romero, in preda ad un vago timore, era balzato in piedi: credette per un istante che Hang, mancando alla parola, alzasse la terribile arma contro lo spagnuolo.

— Hang-Tu!... — esclamò con angoscia.

Il chinese fece un gesto colla mano, come per rassicurarlo.

Con un colpo di catana troncò i bambú spinosi, recise le corde che stringevano il maggiore e presolo per un braccio lo condusse vicino a Romero, dicendogli, con fiera nobiltà.

— È tuo, fratello: prendilo!

Poi gettò via l'arma e incrociò le braccia.

Romero vi era appressato al maggiore il quale pareva vivamente stupito di trovarsi ancora vivo e gl'indicò un cavallo sellato che si trovava lí vicino, dicendogli:

— Siete libero, maggiore d'Alcazar.

Lo spagnuolo non aprí bocca. Salí lentamente in sella, raccolse le briglie, poi spronò il cavallo; ma quando ebbe fatto pochi passi tornò indietro e avvicinandosi a Romero che era rimasto immobile al pari di Hang-Tu, gli stese la mano, mormorando con un tono di voce che leggermente tremava:

— Grazie, Ruiz. Simili generosità non si scordano.

Poi cacciò vivamente gli sproni nel ventre del cavallo e si allontanò rapidamente, scomparendo in mezzo agli alberi.