Le vite de' più eccellenti pittori, scultori e architettori (1550)/Cronaca

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Guglielmo da Marcilla David e Benedetto Ghirlandai

CRONACA

Architetto Fiorentino

Molti ingegni si perdono, i quali farebbono opere rare e degne di loda, se nel venire al mondo percotessero in persone che sapessino e volessino mettergli in opera a quelle cose dove e’ son buoni. Dove egli avviene bene spesso che, chi può, non sa e non vuole; e se pure gli occorre di fare una qualche eccellente fabbrica, non si cura altrimenti cercare d’uno architetto rarissimo e d’uno spirito molto elevato. Anzi mette lo onore e la gloria sua in mano a certi ingegni ladri che vituperano spesso il nome e la fama delle memorie.

E per tirare in grandezza chi dependa tutto da lui (tanto puote la ambizione) dà spesso bando a’ disegni buoni che si gli danno e mette in opera il piú cattivo, onde rimane alla fama sua la goffezza dell’opera, stimandosi, per quegli che sono giudiciosi, l’artefice e chi lo fa operare essere d’uno animo istesso, da che ne l’opere si congiungono. E per lo contrario, quanti sono stati i príncipi poco intendenti, i quali per essersi incontrati in persone illustri, hanno dopo la morte loro non minor fama per le memorie delle fabbriche che in vita si avessero per il dominio ne’ popoli? Ma veramente il Cronaca fu nel suo tempo avventurato; che, sapendo fare, trovò chi di continuo lo mise in opera, et in cose tutte grandi e magnifiche. Di costui si racconta che, mentre Antonio Pollaiuolo era in Roma a lavorare le sepolture di bronzo che sono in San Pietro, gli capitò a casa un giovanetto suo parente, chiamato per propio nome Simone, fuggitosi da Fiorenza per alcune quistioni; il quale, avendo molta inclinazione all’arte della architettura per essere stato con un maestro di legname, cominciò a considerare le bellissime anticaglie di quella città e, dilettandosene, le andava misurando con grandissima diligenzia. Laonde seguitando, non molto poi che fu venuto a Roma, dimostrò avere fatto molto profitto, sí nelle misure e sí nel mettere in opera alcuna cosa. Per il che, fatto pensiero di tornarsene a Firenze, si partí di Roma et arrivato quivi, per essere divenuto assai buon ragionatore, contava le maraviglie di Roma e d’altri luoghi, con tanta accuratezza ch’e’ lo nominarono da indi innanzi il Cronaca: parendo veramente a ciascuno che egli fussi una cronaca di cose nel suo ragionamento. Era adunque costui fattosi tale ch’e’ fu ne’ moderni tenuto il piú eccellente architettore che fussi nella città di Fiorenza; per avere nel discernere i luoghi piú giudizio e per mostrare che era con lo ingegno piú elevato che molti altri che attendevano a quel mestiero. Conoscendosi per le opere sue quanto egli fussi buono imitatore delle cose antiche e quanto egli osservassi le regole di Vetruvio e le opere di Filippo di Ser Brunellesco.

Era allora in Fiorenza quel Filippo Strozzi, che oggi a differenzia del figliuolo si chiama il Vecchio, il quale per le sue ricchezze desiderava lassare di sé alla patria et a’ figliuoli, tra le altre, una memoria di un bel palazzo. Per la qual cosa Benedetto da Maiano, chiamato a questo effetto da lui, gli fece un modello isolato intorno intorno, che poi non si fece, non volendo alcuni vicini fargli commodità de le case loro. Onde cominciò il palazzo in quel modo che e’ poté, e condusse il guscio di fuori avanti la morte sua pressoché al fine. Fecelo di fuori con ordine rustico e graduato, come si vede: percioché la parte de’ bozzi dal primo finestrato in giú, insieme con le porte, è rustica grandemente e la parte dal primo finestrato al secondo è meno rustica assai. Ora accadde che, partendosi Benedetto di Fiorenza e tornandovi da Roma il Cronaca, fu messo per le mani a Filippo, e gli piacque tanto per il modello fattoli da lui del cortile e del cornicione che va di fuori intorno al palazzo, che conoscuta la eccellenzia di quello ingegno, volle che tutto si governasse per le sue mani, e servissi da indi innanzi sempre di lui. Fecevi dunque il Cronaca, oltra la bellezza di fuori con ordine toscano, in cima una cornice corinzia molto magnifica, ch’è per fine del tetto. Della quale la metà al presente si vede finita e con tanto singular grazia e garbo all’occhio si mostra, che desiderando apporgli menda nessuna non vi si può mostrare. Similmente le pietre di tutto il palazzo sono tanto finite e sí ben commesse, che non può nessuno quasi vedere ch’elle siano murate. Et in detto palazzo per ornamento fece fare ferri di finestre mirabili e campanelle con bellissimo garbo, e similmente le lumiere su canti che da Niccolò Grosso Caparra, fabbro fiorentino furono con grandissima diligenza lavorate. Vedesi in quelle le cornici, le colonne, i capitegli, le mensole saldate di ferro con maraviglioso magistero. Né mai ha lavorato moderno alcuno di ferro machine sí grandi e sí difficili con tanta scienza e pratica.

Era Niccolò Grosso persona fantastica e di suo capo, ragionevole nelle sue cose e d’altri, né mai voleva di quel d’altrui. Non volse mai far credenza a nessuno de’ suoi lavori, ma sempre voleva l’arra, e per questo Lorenzo de’ Medici lo chiamava il Caparra e da molti altri ancora per tal nome era conosciuto.

Egli aveva appiccato alla sua bottega una insegna, nella quale erano alcuni libri ch’ardevano; per il che, quando uno gli chiedeva tempo a pagare, gli diceva: "Io non posso, perché i miei libri abbruciano e non vi si può piú scrivere debitori".

Gli fu allogato per i signori Capitani di Parte Guelfa, magistrato in Fiorenza non mediocre, un paio d’alari, i quali avendo egli finiti, piú volte gli furono mandati a chiedere per gli loro donzelli.

Et egli di continuo usava dire: "Io sudo e duro fatica su questa ancudine e voglio che qui su mi siano pagati i miei danari. Per il che essi di nuovo rimandarono per il lor lavoro e che per li danari andasse, che subito sarebbe pagato, et egli ostinato rispondeva che prima gli portassero i danari, et il lavoro li darebbe. Laonde il provveditore venuto in collera, perché i capitani li volevano vedere, gli mandò dicendo ch’esso aveva avuto la metà de i danari e che mandasse gli alari che del rimanente lo sodisfarebbe. Per la qual cosa il Caparra, avvedutosi del vero, diede al donzello uno alar solo, dicendo: "Te’ porta questo, ch’è il loro e, se piace a essi, porta l’intero pagamento che te gli darò, percioché questo è mio". Gli ufficiali, veduto l’opera mirabile che in quello aveva fatto, gli mandarono i danari a bottega et esso mandò loro l’altro alare. Dicono ancora che Lorenzo de’ Medici volse far fare ferramenti per mandare a donar fuora, acciò che l’eccellenza del Caparra si vedesse; perché andò egli stesso in persona a bottega sua e per avventura trovò che lavorava alcune cose che erano di povere persone, da le quali aveva avuto parte del pagamento per arra. Per che lo richiese Lorenzo, et egli mai non gli volse promettere di servirlo se prima non serviva coloro, dicendogli che erano venuti a bottega inanzi lui e che tanto stimava i danari loro quanto quei di Lorenzo.

Alcuni giovani cittadini gli portarono un disegno, che egli facesse loro un ferro da sbarrare e rompere altri ferri con una vite, perché egli li sgridò dicendo: "Io non vo’ far tal cosa, che non sono se non istrumenti da ladri e da rubare in casa altrui e da svergognar fanciulle, né sono cosa per me né per voi, i quali mi parete uomini da bene". Volsero che gli insegnasse chi far gli potesse altri che lui del mestiero, per che egli con villanie se li levò d’intorno. Non volse mai lavorare a’ Giudei, dicendo loro che i danari loro erano fracidi e putivano. Fu persona del suo corpo bonissima e religiosa e di cervello fantastico et ostinato; né mai volse partir di Fiorenza, ma in quella visse e morí. Onde per le qualità sue l’ho giudicato degno di memoria. Ma, ritornando al Cronaca, egli condusse a fine questo palazzo, dove il Caparra fece tanti lavori et adornollo dentro di ordine corinzio e dorico con molta delicatezza di colonne, capitelli, cornici, finestre e porte. E le modanature delle cornici e d’ogni cosa, di somma bellezza e grazia furono dallo spirito del Cronaca consideratamente condotte. Le scale di dentro similmente sono bonissime e bellissime, e lo spartimento delle stanze è tale che, considerando il tutto, ogni bello ingegno troverrà arte grandissima nella dispensazione delle stanze, comodità utilissima ne l’usarle, grandezza e maestà nel vederle, ordine regolatissimo nelle misure e proporzione sopra tutto graziatissima all’occhio. Et insomma un lavoro fatto appresso con grandissima diligenzia, sí quanto all’opera dello scarpello e sí quanto allo averlo commesso insieme. Per il che meritò e merita il Cronaca commendazione da qualunche persona conosce la bontà dello operare suo. Et il palazzo fu e sarà sempre lodato per una delle piú belle fabbriche moderne che abbia Fiorenza.

Fece ancora la sagristia di Santo Spirito in Fiorenza, tempio in otto facce lavorato con garbata proporzione e con amorevolezza commessa ogni minima pietra. Sonvi ancora alcuni capitelli condotti dalla felice mano di Andrea dal Monte San Savino, che gli lavorò in somma perfezzione. Similmente fece il ricetto della sagrestia, che è tenuta bellissima invenzione, se bene il partimento non è su le colonne ben partito. Fece Simone la chiesa di San Francesco dell’Osservanza su ’l poggio di San Miniato, e similmente tutto il convento di detti frati, il quale è cosa molto lodata e di bonissimo garbo condotta, le cappelle, le finestre e tutto quello che vi si vede. Nel palazzo della Signoria di Fiorenza nella sala del Gran Consiglio fece i cavalli di legno di pezzi per reggere il tetto, i quali sono tenuti mirabili, ingegnosi e stupendissimi, dove molta fama acquistò. Eragli entrato in capo frenesia delle cose di fra’ Girolamo Savonarola, nelle quali era tanto impazzito che altro che di quelle non voleva ragionare. Finalmente, essendo già d’età d’anni LV d’una infirmità assai lunga si morí. E fu onoratamente sepolto nella chiesa di Santo Ambruogio di Fiorenza nel MDIX, e non dopo lungo spazio di tempo fu poi fatto per lui questo epitaffio:
CRONACA

VIVO; E MILLE, E MILLE ANNI, E MILLE ANCORA
MERCÉ DE’ VIVI MIEI PALAZZI, E TEMPI
BELLA ROMA VIVRÀ L’ALMA MIA FLORA.

Ebbe il Cronaca un suo fratello scultore che si chiamò Matteo, il quale stette con Antonio Rossellino allo scultore; e per aver una agilità dalla natura nel disegno e buona pratica nel lavorar di marmo si aspettava universalmente che e’ venisse a ’l colmo della perfezzione. Ma la morte sopragiugnendolo di età di XIX anni ce lo tolse, che non si poté vedere i frutti suoi se non acerbi, benché per la bontà loro e’ paressino certo maturi.