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Le vite de' più eccellenti pittori, scultori e architettori (1550)/Lionardo da Vinci

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../Giorgione da Castel Franco IncludiIntestazione 31 agosto 2009 75% Biografie

Proemio della terza parte delle Vite Giorgione da Castel Franco

LIONARDO DA VINCI

Pittore e Scultore Fiorentino

Grandissimi doni si veggono piovere da gli influssi celesti ne’ corpi umani molte volte naturalmente; e sopra naturali talvolta strabocchevolmente accozzarsi in un corpo solo bellezza, grazia e virtú, in una maniera che dovunque si volge quel tale, ciascuna sua azzione è tanto divina, che lasciandosi dietro tutti gli altri uomini, manifestamente si fa conoscere per cosa (come ella è) largita da Dio, e non acquistata per arte umana. Questo lo videro gli uomini in Lionardo da Vinci, nel quale oltra la bellezza del corpo, non lodata mai a bastanza, era la grazia piú che infinita in qualunque sua azzione; e tanta e sí fatta poi la virtú, che dovunque lo animo volse nelle cose difficili, con facilità le rendeva assolute. La forza in lui fu molta e congiunta con la destrezza, l’animo e ’l valore sempre regio e magnanimo. E la fama del suo nome tanto s’allargò, che non solo nel suo tempo fu tenuto in pregio, ma pervenne ancora molto piú ne’ posteri dopo la morte sua. E veramente il cielo ci manda talora alcuni che non rappresentano la umanità sola, ma la divinita istessa, acciò da quella come da modello, imitandolo, possiamo accostarci con l’animo e con l’eccellenzia dell’intelletto alle parti somme del cielo. E per esperienza si vede quegli che con qualche studio accidentale si volgono a seguire l’orme di questi mirabili spiriti, se punto sono dalla natura aiutati, quando il medesimo non sono che essi, tanto almanco s’accostano a le divine opere loro, che participano di quella divinità.

Adunque mirabile e celeste fu Lionardo, nipote di ser Piero da Vinci, che veramente bonissimo zio e parente gli fu, nell’aiutarlo in giovanezza. E massime nella erudizione e principii delle lettere, nelle quali egli arebbe fatto profitto grande, se egli non fusse stato tanto vario et instabile. Percioché egli si mise a imparare molte cose e, cominciate, poi l’abbandonava. Ecco nell’abbaco egli in pochi mesi che e’ v’attese, fece tanto acquisto, che movendo di continuo dubbi e difficultà al maestro che gli insegnava, bene spesso lo confondeva. Dette alquanto d’opera alla musica, ma tosto si risolvé a imparare a sonare la lira, come quello che da la natura aveva spirito elevatissimo e pieno di leggiadria, onde sopra quella cantò divinamente allo improviso. Nondimeno, benché egli a sí varie cose attendesse, non lasciò mai il disegnare et il fare di rilievo, come cose che gli andavano a fantasia piú d’alcun’altra. Veduto questo Ser Piero, e considerato la elevazione di quello ingegno, preso un giorno alcuni de’ suoi disegni, gli portò ad Andrea del Verrocchio, che era molto amico suo, e lo pregò strettamente che gli dovesse dire se Lionardo, attendendo al disegno, farebbe alcun profitto. Stupí Andrea nel vedere il grandissimo principio di Lionardo, e confortò Ser Piero che lo facessi attendere, onde egli ordinò con Lionardo che e’ dovesse andare a bottega di Andrea. Il che Lionardo fece volentieri oltre a modo. E non solo esercitò una professione, ma tutte quelle ove il disegno si interveniva. Et avendo uno intelletto tanto divino e maraviglioso, che essendo bonissimo giometra, non solo operò nella scultura e nell’architettura, ma la professione sua volse che fosse la pittura. Mostrò la natura nelle azzioni di Lionardo tanto ingegno, che ne’ suo’ ragionamenti faceva con ragioni naturali tacere i dotti. Fu pronto et arguto, e con una perfetta arte di persuasione mostrava le difficultà del suo ingegno, che nelle cose de’ numeri faceva muovere i monti, tirava i pesi, e fra le altre parole mostrava volere alzare il tempio di San Giovanni di Fiorenza e sottomettervi le scalee, senza ruinarlo, e con sí forti ragioni lo persuadeva, che pareva possibile, quantunque ciascuno, poi che e’ si era partito, conoscesse per se medesimo la impossibilità di cotanta impresa. Era tanto piacevole nella conversazione che tirava a sé gli animi delle genti. E non avendo egli, si può dir, nulla e poco lavorando, del continuo tenne servitori e cavalli, de’ quali si dilettò molto, e particularmente di tutti gli altri animali, i quali con grandissimo amore e pazienzia sopportava e governava. E mostrollo che spesso passando da i luoghi dove si vendevano uccelli, di sua mano cavandoli di gabbia e pagatogli a chi li vendeva il prezo che n’era chiesto, li lasciava in aria a volo, restituendoli la perduta libertà. Laonde volse la natura tanto favorirlo, che dovunque e’ rivolse il pensiero, il cervello e l’animo, mostrò tanta divinità nelle cose sue, che nel dare la perfezzione, di prontezza, vivacità, bontade, vaghezza e grazia, nessuno altro mai gli fu pari.

Trovasi che Lionardo per l’intelligenzia de l’arte cominciò molte cose e nessuna mai ne finí, parendoli che la mano aggiugnere non potesse alla perfezzione de l’arte ne le cose, che egli si imaginava, con ciò sia che si formava nella idea alcune difficultà tanto maravigliose, che con le mani, ancora che elle fussero eccellentissime, non si sarebbono espresse mai. E tanti furono i suoi capricci, che filosofando de le cose naturali, attese a intendere la proprietà delle erbe, continuando et osservando il moto del cielo, il corso de la luna e gli andamenti del sole. Per il che fece ne l’animo un concetto sí eretico, che e’ non si accostava a qualsivoglia religione, stimando per avventura assai piú lo esser filosofo che cristiano. Acconciossi per via di Ser Piero suo zio nella sua fanciullezza a l’arte con Andrea del Verocchio, il quale faccendo una tavola dove San Giovanni battezzava Cristo, Lionardo lavorò uno angelo, che teneva alcune vesti; e benché fosse giovanetto, lo condusse di tal maniera, che molto meglio de le figure d’Andrea stava l’angelo di Lionardo. Il che fu cagione ch’Andrea mai piú non volle toccare colori, sdegnatosi che un fanciullo ne sapesse piú di lui. Li fu allogato per una portiera, che si aveva a fare in Fiandra d’oro e di seta tessuta, per mandare al Re di Portogallo un cartone d’Adamo e d’Eva, quando nel Paradiso terrestre peccano: dove col pennello fece Lionardo di chiaro e scuro lumeggiato di biacca un prato di erbe infinite con alcuni animali, che invero può dirsi che in diligenza e naturalità al mondo divino ingegno far non la possa sí simile.

Quivi è il fico oltra lo scortar de le foglie e le vedute de’ rami, condotto con tanto amor, che l’ingegno si smarisce solo a pensare come uno uomo possa avere tanta pacienzia. Èvvi ancora un palmizio, che ha la rotondità de le ruote de la palma lavorate con sí grande arte e maravigliosa, che altro che la pazienzia e l’ingegno di Lionardo non lo poteva fare. La quale opera altrimenti non si fece: onde il cartone è oggi in Fiorenza nella felice casa del Magnifico Ottaviano de’ Medici donatogli, non ha molto, dal zio di Lionardo. Dicesi che Ser Piero da Vinci zio di Lionardo, essendo alla villa, fu ricercato domesticamente da un suo contadino, il quale d’un fico da lui tagliato in su ’l podere, aveva di sua mano fatto una rotella, che a Fiorenza gnene facesse dipignere, e che egli contentissimo e volentieri lo fece, sendo molto pratico il villano nel pigliare uccelli e ne le pescagioni, e servendosi grandemente di lui Ser Piero a questi esercizii. Laonde fattala condurre a Firenze, senza altrimenti dire a Lionardo di chi ella si fosse, lo ricercò che egli vi dipignesse suso qualche cosa. Lionardo, arrecatosi un giorno tra le mani questa rotella, veggendola torta, mal lavorata e goffa, la dirizzò col fuoco, e datala a un torniatore, di rozza e goffa che ella era, la fece ridurre delicata e pari. Et appresso ingessatala et acconciatala a modo suo, cominciò a pensare quello che vi si potesse dipignere su, che avesse a spaventare chi le venisse contra, rappresentando lo effetto stesso che la testa già di Medusa. Portò dunque Lionardo per questo effetto ad una sua stanza, dove non entrava se non e’ solo, lucertole, ramarri, grilli, serpi, farfalle, locuste, nottole et altre strane spezie di simili animali: da la moltitudine de’ quali, variamente adattata insieme, cavò uno animalaccio molto orribile e spaventoso, il quale avvelenava con l’alito e faceva l’aria di fuoco. E quello fece uscire d’una pietra scura e spezzata, buffando veleno da la gola aperta, fuoco da gli occhi e fumo dal naso sí stranamente, che e’ pareva monstruosa et orribil cosa. E penò tanto a farla, che in quella stanza era il morbo de gli animali morti troppo crudele, ma non sentito da Lionardo, per il grande amore che e’ portava alla arte. Finita questa opera, che piú non era ricerca né dal villano né dal zio, Lionardo gli disse che ad ogni sua comodità mandasse per la rotella, che quanto a lui era finita. Andato dunque Ser Piero una mattina a la stanza per la rotella e picchiato alla porta, Lionardo gli aperse, dicendo che aspettasse un poco; e ritornatosi nella stanza acconciò la rotella al lume in su ’l leggio et assettò la finestra, che facesse lume abbacinato, poi lo fece passar dentro a vederla. Ser Piero nel primo aspetto, non pensando alla cosa, subitamente si scosse, non credendo che quella fosse rotella, né manco dipinto quel figurato che e’ vi vedeva. E tornando col passo a dietro, Lionardo lo tenne, dicendo: "Questa opera serve per quel che ella è fatta: pigliatela dunque e portatela, ché questo è il fine, che dell’opere s’aspetta". Parse questa cosa piú che miracolosa a Ser Piero, e lodò grandissimamente il capriccioso discorso di Lionardo; poi comperata tacitamente da un merciaio una altra rotella dipinta d’un cuore trapassato da uno strale, la donò al villano che ne li restò obligato sempre mentre che e’ visse. Appresso vendé Ser Piero quella di Lionardo secretamente in Fiorenza a certi mercatanti, cento ducati. Et in breve ella pervenne a le mani di Francesco Duca di Milano, vendutagli CCC ducati da detti mercatanti.

Fece poi Lionardo una Nostra Donna in un quadro, ch’era appresso Papa Clemente VII, molto eccellente. E fra l’altre cose che v’erano fatte, contrafece una caraffa piena d’acqua con alcuni fiori dentro, dove oltra la maraviglia della vivezza, aveva imitato la rugiada dell’acqua sopra, sí che ella pareva piú viva che la vivezza. Ad Antonio Segni, suo amicissimo, fece in su un foglio un Nettuno condotto cosí di disegno con tanta diligenzia, che e’ pareva del tutto vivo. Vedevasi il mare turbato et il carro suo tirato da’ cavalli marini con le fantasime, l’orche, et i noti et alcune teste di dèi marini bellissime. Il quale disegno fu donato da Fabio suo figliuolo a Messer Giovanni Gaddi, con questo epigramma:
PINXIT VIRGILIVS NEPTVNVM, PINXIT HOMERVS
DVM MARIS VNDISONI PER VADA FLECTIT EQVOS.
MENTE QVIDEM VATES ILLVM CONSPEXIT VTERQVE
VINCIVS AST OCULIS, IVREQVE VINCIT EOS.

Fu condotto a Milano con gran riputazione Lionardo a ’l Duca Francesco, il quale molto si dilettava del suono de la lira, perché sonasse: e Lionardo portò quello strumento, ch’egli aveva di sua mano fabricato d’argento gran parte, accioché l’armonia fosse con maggior tuba e piú sonora di voce. Laonde superò tutti i musici, che quivi erano concorsi a sonare; oltra ciò fu il migliore dicitore di rime a l’improviso del tempo suo. Sentendo il duca i ragionamenti tanto mirabili di Lionardo, talmente s’innamorò de le sue virtú, che era cosa incredibile. E pregatolo, gli fece fare in pittura una tavola d’altare, dentrovi una Natività che fu mandata dal duca a l’imperatore. Fece ancora in Milano ne’ frati di San Domenico a Santa Maria de le Grazie un Cenacolo, cosa bellissima e maravigliosa, et alle teste de gli Apostoli diede tanta maestà e bellezza, che quella del Cristo lasciò imperfetta, non pensando poterle dare quella divinità celeste, che a l’imagine di Cristo si richiede. La quale opera, rimanendo cosí per finita, è stata da i Milanesi tenuta del continuo in grandissima venerazione, e da gli altri forestieri ancora, atteso che Lionardo si imaginò e riuscigli di esprimere quel sospetto che era entrato ne gli Apostoli, di voler sapere chi tradiva il loro Maestro. Per il che si vede nel viso di tutti loro l’amore, la paura e lo sdegno, o ver il dolore, di non potere intendere lo animo di Cristo. La qual cosa non arreca minor maraviglia, che il conoscersi allo incontro l’ostinazione, l’odio e ’l tradimento in Giuda, senza che ogni minima parte dell’opera mostra una incredibile diligenzia. Avvenga che insino nella tovaglia è contraffatto l’opera del tessuto, d’una maniera che la rensa stessa non mostra il vero meglio.

La nobiltà di questa pittura, sí per il componimento, sí per essere finita con una incomparabile diligenzia, fece venir voglia al Re di Francia di condurla nel regno, onde tentò per ogni via, se ci fussi stato architetti, che con travate di legnami e di ferri, l’avessino potuta armare di maniera, che ella si fosse condotta salva; senza considerare a spesa che vi si fusse potuta fare, tanto la desiderava. Ma l’esser fatta nel muro, fece che Sua Maestà se ne portò la voglia, et ella si rimase a’ Milanesi. Mentre che egli attendeva a questa opera propose al duca fare un cavallo di bronzo di maravigliosa grandezza, per mettervi in memoria l’imagine del duca. E tanto grande lo cominciò e riuscí, che condur non si poté mai. Ècci opinione che Lionardo, come dell’altre cose sue faceva, lo cominciasse perché non si finisse; perché, sendo di tanta grandezza in volerlo gettar d’un pezzo, lo cominciò, acciò fosse difficultà di condurlo a perfezzione. Venne al suo tempo in Milano il re di Francia; onde pregato Lionardo di far qualche cosa bizzarra, fece un lione, che caminò parecchi passi, poi s’aperse il petto e mostrò tutto pien di gigli. Prese in Milano Salaí Milanese per suo creato, il quale era vaghissimo di grazia e di bellezza, avendo begli capegli, ricci et inanellati, de’ quali Lionardo si dilettò molto; et a lui insegnò molte cose dell’arte, e certi lavori che in Milano si dicono essere di Salaí, furono ritocchi da Lionardo.

Ritornò a Fiorenza, dove trovò che i frati de’ Servi avevano allogato a Filippino l’opere della tavola dello altar maggiore della Nunziata; per il che fu detto da Lionardo che volentieri avrebbe fatto una simil cosa. Onde Filippino inteso ciò, come gentil persona ch’egli era, se ne tolse giú; et i frati perché Lionardo la dipignesse, se lo tolsero in casa, facendo le spese a•llui et a tutta la sua famiglia. E cosí li tenne in pratica lungo tempo, né mai cominciò nulla. In questo mezzo fece un cartone dentrovi una Nostra Donna et una Santa Anna, con un Cristo, la quale non pure fece maravigliare tutti gli artefici, ma finita ch’ella fu, nella stanza durarono duoi giorni di andare a vederla gli uomini e le donne, i giovani et i vecchi, come si va a le feste solenni, per vedere le maraviglie di Lionardo, che fecero stupire tutto quel popolo. Perché si vedeva nel viso di quella Nostra Donna tutto quello che di semplice e di bello può con semplicità e bellezza dare grazia a una madre di Cristo; volendo mostrare quella modestia e quella umiltà che in una vergine contentissima di allegrezza del vedere la bellezza del suo figliuolo, che con tenerezza sosteneva in grembo; e mentre che ella con onestissima guardatura a basso scorgeva un santo Giovanni piccol fanciullo che si andava trastullando con un pecorino, non senza un ghigno d’una Santa Anna che, colma di letizia, vedeva la sua progenie terrena esser divenuta celeste. Considerazioni veramente dallo intelletto et ingegno di Lionardo. Ritrasse la Ginevra d’Amerigo Benci, cosa bellissima; et abbandonò il lavoro a’ frati, i quali lo ritornarono a Filippino, il quale sopravenuto egli ancora dalla morte non lo poté finire. Prese Lionardo a fare per Francesco del Giocondo il ritratto di Mona Lisa sua moglie; e quattro anni penatovi lo lasciò imperfetto, la quale opera oggi è appresso il Re Francesco di Francia in Fontanableo; nella qual testa chi voleva vedere quanto l’arte potesse imitar la natura, agevolmente si poteva comprendere, perché quivi erano contrafatte tutte le minuzie che si possono con sottigliezza dipignere. Avvenga che gli occhi avevano que’ lustri e quelle acquitrine che di continuo si veggono nel vivo, et intorno a essi erano tutti que’ rossigni lividi et i peli, che non senza grandissima sottigliezza si posson fare. Le ciglia per avervi fatto il modo del nascere i peli nella carne, dove piú folti e dove piú radi, e girare secondo i pori della carne, non potevano essere piú naturali. Il naso, con tutte quelle belle aperture rossette e tenere, si vedeva essere vivo. La bocca, con quella sua sfenditura con le sue fini unite dal rosso della bocca con la incarnazione del viso, che non colori ma carne pareva veramente. Nella fontanella della gola, chi intentissimamente la guardava, vedeva battere i polsi: e nel vero si può dire che questa fussi dipinta d’una maniera da far tremare e temere ogni gagliardo artefice e sia qual si vuole. Usòvi ancora questa arte, che essendo Mona Lisa bellissima, teneva mentre che la ritraeva, chi sonasse o cantasse, e di continuo buffoni che la facessino stare allegra, per levar via quel malinconico che suol dare spesso la pittura a i ritratti che si fanno. Et in questo di Lionardo vi era un ghigno tanto piacevole che era cosa piú divina che umana a vederlo, et era tenuta cosa maravigliosa, per non essere il vivo altrimenti.

Per la eccellenzia dunque delle opere di questo divinissimo artefice, era tanto cresciuta la fama sua, che tutte le persone che si dilettavano de l’arte, anzi la stessa città intera intera desiderava che egli le lasciasse qualche memoria. E ragionavasi per tutto di fargli fare qualche opera notabile e grande, donde il publico fusse ornato et onorato di tanto ingegno, grazia e giudizio, quanto nelle cose di Lionardo si conosceva. E tra il gonfalonieri et i cittadini grandi si praticò che, essendosi fatta di nuovo la gran sala del Consiglio, vi si dovesse dargli a dipignere qualche opera bella; e cosí da Piero Soderini Gonfaloniere allora di giustizia, gli fu allogata la detta sala. Per il che volendola condurre Lionardo, cominciò un cartone alla sala del papa, luogo in Santa Maria Novella, dentrovi la storia di Niccolò Piccinino capitano del Duca Filippo di Milano, nel quale disegnò un groppo di cavalli che combattevano una bandiera, cosa che eccellentissima e di gran magisterio fu tenuta per le mirabilissime considerazioni che egli ebbe nel far quella fuga. Percioché in essa non si conosce meno la rabbia, lo sdegno e la vendetta ne gli uomini che ne’ cavalli; tra’ quali due, intrecciatisi con le gambe dinanzi, non fanno men vendetta coi denti che si faccia chi gli cavalca nel combattere detta bandiera, dove appiccato le mani un soldato, con la forza delle spalle, mentre mette il cavallo in fuga, rivolto egli con la persona, agrappato l’aste dello stendardo, per sgusciarlo per forza delle mani di quattro, che due lo difendono con una mano per uno, e l’altra in aria con le spade tentano di tagliar l’aste; mentre che un soldato vecchio con un berretton rosso gridando tiene una mano nell’aste, e con l’altra inalberato una storta, mena con stizza un colpo per tagliar tutte a due le mani a coloro, che con forza digrignando i denti, tentano con fierissima attitudine di difendere la loro bandiera; oltra che in terra fra le gambe de’ cavagli v’è dua figure in iscorto, che combattendo insieme, mentre uno in terra ha sopra uno soldato, che alzato il braccio quanto può, con quella forza maggiore gli mette alla gola il pugnale, per finirgli la vita, e quello altro con le gambe e con le braccia sbattuto, fa ciò che egli può per non volere la morte. Né si può esprimere il disegno che Lionardo fece negli abiti de’ soldati variatamente variati da lui; simile i cimieri e gli altri ornamenti, senza la maestria incredibile che egli mostrò nelle forme e lineamenti de’ cavagli: i quali Lionardo meglio ch’altro maestro fece, di bravura, di muscoli e di garbata bellezza. La notomia di essi scorticandoli disegnò insieme con quella de gli uomini, e l’una e l’altra ridusse alla vera luce moderna. Dicesi che per disegnare il detto cartone fece uno edifizio artificiosissimo, che stringendolo, s’alzava, et allargandolo, s’abbassava. Et imaginandosi di volere a olio colorire in muro, fece una composizione d’una mistura sí grossa, per lo incollato del muro, che continuando a dipignere in detta sala, cominciò a colare, di maniera che in breve tempo abbandonò quella. Aveva Lionardo grandissimo animo et in ogni sua azzione era generosissimo. Dicesi che andando al banco per la provisione, ch’ogni mese da Piero Soderini soleva pigliare, il cassiere gli volse dare certi cartocci di quattrini, et egli non li volse pigliare, rispondendogli: "Io non sono dipintore da quattrini". Essendo incolpato d’aver giuntato, da Piero Soderini fu mormorato contra di lui; perché Lionardo fece tanto con gli amici suoi, che ragunò i danari e portolli per restituire, ma Pietro non li volle accettare. Andò a Roma col Duca Giuliano de’ Medici nella creazione di Papa Leone, che attendeva molto a cose filosofiche, e massimamente alla alchimia, dove formando una pasta di una cera, mentre ch’e’ caminava faceva animali sottilissimi pieni di vento, ne i quali soffiando, gli faceva volare per l’aria; ma cessando il vento, cadevano in terra. Fermò in un ramarro, trovato dal vignaruolo di Belvedere, il quale era bizzarrissimo, di scaglie di altri ramarri scorticate, ali addosso con mistura d’argenti vivi, che nel moversi quando caminava tremavano; e fattoli gli occhi, corna e barba, domesticatolo e tenendolo in una scatola, tutti gli amici a i quali lo mostrava, per paura faceva fuggire. Usava spesso far minutamente digrassare e purgare le budella d’un castrato, e talmente venir sottili, che si sarebbono tenuto in palma di mano. Et aveva messo in un’altra stanza un paio di mantici da fabbro, a i quali metteva un capo delle dette budella e, gonfiandole, ne riempiva la stanza, la quale era grandissima, dove bisognava che si recasse in un canto chi v’era, mostrando quelle trasparenti e piene di vento, da ’l tenere poco luogo in principio, esser venute a occuparne molto, aguagliandole alla virtú. Fece infinite di queste pazzie, et attese alli specchi; e tentò modi stranissimi nel cercare olii per dipignere e vernice per mantenere l’opere fatte. Dicesi che gli fu allogato una opera dal papa, perché subito cominciò a stillare olii et erbe per far la vernice; perché fu detto da Papa Leon: "Oimè costui non è per far nulla, da che comincia a pensare alla fine innanzi il principio dell’opera". Era sdegno grandissimo fra Michele Agnolo Buonaruoti e lui; per il che partí di Fiorenza Michelagnolo per la concorrenza, con la scusa del Duca Giuliano, essendo chiamato dal papa per la facciata di San Lorenzo. Lionardo intendendo ciò partí, et andò in Francia, dove il re avendo avuto opere sue, gli era molto affezzionato, e desiderava ch’e’ colorisse il cartone della Santa Anna; ma egli, secondo il suo costume, lo tenne gran tempo in parole. Finalmente venuto vecchio, stette molti mesi ammalato; e vedendosi vicino alla morte, disputando de le cose catoliche, ritornando nella via buona, si ridusse a la fede cristiana con molti pianti. Laonde confesso e contrito, se bene e’ non poteva reggersi in piedi, sostenendosi nelle braccia de’ suoi amici e servi, volse divotamente pigliare il Santissimo Sacramento fuor de ’l letto. Sopraggiunseli il re che spesso et amorevolmente lo soleva visitare; per il che egli per riverenza rizzatosi a sedere sul letto, contando il mal suo e gli accidenti di quello mostrava tuttavia quanto avea offeso Dio e gli uomini del mondo, non avendo operato nell’arte come si conveniva. Onde gli venne un parossismo messaggero della morte. Per la qual cosa rizzatosi il re, e presoli la testa per aiutarlo e porgerli favore, acciò che il male lo alleggerisse, lo spirito suo, che divinissimo era, conoscendo non potere avere maggiore onore, spirò in braccio a quel re, nella età sua d’anni LXXV. Dolse la perdita di Lionardo fuor di modo a tutti quegli che l’avevano conosciuto, perché mai non fu persona che tanto facesse onore alla pittura. Egli con lo splendor dell’aria sua, che bellissima era, rasserenava ogni animo mesto, e con le parole volgeva al sí et al no ogni indurata intenzione. Egli con le forze sue riteneva ogni violenta furia; e con la destra torceva un ferro d’una campanella di muraglia et un ferro di cavallo, come s’e’ fusse piombo. Con la liberalità sua raccoglieva e pasceva ogni amico povero e ricco, purché egli avesse ingegno e virtú. Ornava et onorava con ogni azzione qualsivoglia disonorata e spogliata stanza; per il che ebbe veramente Fiorenza grandissimo dono nel nascere di Lionardo, e perdita piú che infinita nella sua morte. Nella arte della pittura aggiunse costui alla maniera del colorire ad olio una certa oscurità; donde hanno dato i moderni gran forza e rilievo alle loro figure. E nella statuaria fece pruove nelle tre figure di bronzo che sono sopra la porta di San Giovanni da la parte di tramontana, fatte da Giovan Francesco Rustici ma ordinate col consiglio di Lionardo, le quali sono il piú bel getto e di disegno e di perfezzione, che modernamente si sia ancor visto. Da Lionardo abbiamo la notomia de’ cavalli e quella degli uomini assai piú perfetta. Laonde per tante parti sue sí divine, ancora che molto piú operasse con le parole che co’ fatti, il nome e la fama sua non si spegneranno già mai. Per il che fu detto in un suo epitaffio:
VINCE COSTVI PVR SOLO
TVTTI ALTRI; E VINCE FIDIA, E VINCE APELLE,
E TVTTO IL LOR VITTORIOSO STVOLO.

Et un altro ancora, per veramente onorarlo, disse:
LEONARDVS VINCIVS. QVID PLVRA?
DIVINVM INGENIVM, DIVINA MANVS,
EMORI IN SINV REGIO MERVERE.
VIRTVS ET FORTVNA HOC MONVMENTVM
CONTINGERE GRAVISS[IMIS] IMPENSIS CVRAVERVNT.

ET GENTEM ET PATRIAM NOSCIS; TIBI GLORIA ET INGENS
NOTA EST: HAC TEGITVR NAM LEONARDVS HVMO.
PERSPICVAS PICTVRAE VMBRAS OLEOQVE COLORES
ILLIVS ANTE ALIOS DOCTA MANVS POSVIT.
IMPRIMERE ILLE HOMINVM, DIVVM QVOQVE CORPORA IN AERE
ET PICTIS ANIMAM FINGERE NOVIT EQVIS.

Fu discepolo di Lionardo Giovanantonio Boltraffio milanese, persona molto pratica et intendente; e cosí Marco Uggioni, che in Santa Maria della Pace fece il Transito di Nostra Donna e le Nozze di Cana galilee.