Lettera a Francesco Rapisardi
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Catania, ottobre . . . non so quanti ne abbiamo.
Caro Francesco, Non darmi del cattivo e dell'infingardo: non lo merito.
Da un pezzo in qua i miei nervi sono in tale stato da far pietà; non posso disporre in nessun modo di me; tutto mi fa male.
E il supplizio peggiore è che non son più buono a lavorare, che dico? neppure a scrivere o a leggere per un quarto d'ora di seguito. Perdonami. dunque, mio caro, se non t'ho scritto finora e se non potrò, chi sa ancora per quanto tempo, mantenerti la promessa di concorrere con uno scritto al pietoso monumento che tu stai per inalzare al nostro povero fratello1.
Me ne duole, ma ora proprio non posso: compatiscimi.
Scrivimi, carissimo, e non istare ai puntigli: parlami lungamente di te e dei tuoi e di codesto paese fatale, a cui sono attirato perennemente, e da cui sono respinto da una magica fluttuazione.
Oh, rivivere un'ora, un'ora sola della mia giovinezza! Umano core! Pronto sempre a dannarsi per l'impossibile!
Addio, mio caro, e rammentami ai tuoi con affetto fraterno.