Lettere (Andreini)/Lettera CXV

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CXV. Scherzi amorosi honestissimi.

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CXV. Scherzi amorosi honestissimi.
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Scherzi amorosi honestissimi.


M
Isero io mi muoio, in presenza di colei, che mentre m’uccide non s’avvede, e non sà d’offendermi. O bellezza, ò bellezza, che quanto più sei micidiale, tanto più sei degna, per l’innocenza tua di scusa, di perdono, e di pietade. O divina bellezza, non mi duole di morir per te, duolmi

[p. 113r modifica]solo di non poter dir morendo la cagione della mia morte. Ohime, che quando voi stessa (dolce Signora mia) mi dimandaste, per qual cagione io porto così languido il ciglio, così mesta la fronte, e così scolorita la guancia (chiarissimi segni della vicina mia morte) dubitando di non offendervi, non ardirei di dire, che ciò m’avvenisse per amarvi. Ben è vero, che quando io cominciai ad arder per voi mi feci à credere, che fosse sovverchio il servirsi della lingua, per manifestar le passioni del cuore, perch’io non v’ho mai conosciuta Donna; ma Dea; e come à gli Iddij son palesi tutti i nostri pensieri, benche chiusi nel centro dell’anima, così pensai, ch’esser dovessero à voi, e forse che sono: ma voi, che siete come nella bellezza, e nella bontà, simile à gli Iddij: volete anch’esser loro simile ne i costumi. Essi benche sappiano i bisogni nostri, vogliono intendergli per mezo delle parole, e tallhor delle lagrime, così voi, beche conosciate il mio male, volete per avventura, ch’io ’l vi dica, e volete, ch’io pianga prima, che rimediarvi. Ciò farei volontieri; ma la presenza vostra m’empie così di riverente orrore, che tutto tremo, mi scorre un freddo rigor per l’ossa, si smarriscono i sensi, perdo la ragione, s’agghiacciano le lagrime, e si fa smalto la lingua, e sò, che tutto questo m’avviene, per esser troppo conoscitor del vostro merito, e della mia indegnità; ond’io procuro di celar la mia fiamma, e mi dispiace, ch’io non posso tanto chiuderla nel profondo del cuore, ch’ella alcuna volta, mal mio grado non voglia mostrarsi nel volto, e ne gli occhi, non [p. 113v modifica]mi parendo giusto, ch’altri sappia il mio sovverchio ardire, che boschi, antri, e luoghi remoti, sol da me eletti per fidi segretari de’ miei dolori. Con questi parlo, e piango sovvente; ma non havrei già baldanza di raccontar altrove le mie pene, temendo severamente d’esserne ripreso. Infelice me, poiche la cagione del mio tormento è tale, che non comporta, ch’io pur osi di sospirar allhora, che più aspre sento le mie amorose passioni. Convien (lasso) ch’io soffra dolor senza dolermi, & è maggiore il dolor, ch’io sopporto per non potermi dolere, che non è l’istesso dolor, che m’affligge: onde se le anime, che nella profonda tormentosa notte, vivono in continui martiri, possono dolersi della loro infelicità, veggo che sostengono minor pena della mia, poich’a me solo è tolto il poter disacerbar le amare angoscie, con le giuste querele: ma perche i’ non vorrei, che questo foglio imparasse dalla mia doglia a dolersi, e dolendosi a farvi palese quello, ch’io per debito di riverenza, ho caro che vi sia sempre occulto, chiudendo con chiave di tormento la porta del dolore, lascio alla lingua il silentio, & a gli occhi il pianto.