Lettere (Sarpi)/Vol. I/60

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LX. — A Giacomo Leschassier

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LX. — A Giacomo Leschassier
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LX. — A Giacomo Leschassier.1


Questa serenissima Repubblica non ha tant’animo, eccellentissimo signore, da dimandare che il dritto d’elezione ritorni a’ monaci; comecchè sarebbe [p. 206 modifica]un bel fatto. Ci guerreggerebbe la curia di Roma a corpo perduto. Se venissimo a quel partito, ne avremmo per la pratica un gran giovamento, alla maniera della pragmatica sanzione e del trattato della Parigina Curia a Lodovico XI, che V.S. ha menzionato. L’ho letto spesso, e gli diedi a questi ultimi giorni una corsa novella, assieme all’operetta sui Benefizi del Duareno. Ben altra è la condizione della presente lite, e ne porrò in chiaro la S.V. a brevi tratti.

È in Italia un ordine monastico che Camaldolense s’appella. Possiede molti e vasti conventi; tra cui quello di Santa Maria di Vangadizza nel Polesine di Rovigo, presso al Po, in diocesi d’Adria. A tale ordine presiedeva l’abate dell’eremo di Camaldoli, siccome fra voi è il Cistercense; e nel mezzo a’ guai dell’Italia, avea quasi tutti i monasteri incommendati. Di questa fatta era il convento testè ricordato. Il 1513 l’abate, capo dell’ordine, con altri sedici, istituì una Congregazione, cui appellò dell’eremo e di San Michele di Muriano, composta di diciassette conventi. Aveva speciali statuti; come, che gli abati si creassero per un triennio: disponimento che fu sanzionato da Leone X. Gli altri monasteri, dai 17 infuori, rimasero incommendati; e così avvenne anco a questo di Vangadizza. Ora, spirato l’ultimo commendatario, chiese la serenissima Repubblica che, a più decoroso splendore del divino culto, il convento fosse dato e riunito a quella congrega. Il pontefice rispose: È un boccone da nipote di papa; e dette la negativa. Quantunque s’accordassero i religiosi a dare al Borghesi, finche vivesse, tutte l’entrate, che assommano a più di 10,000 ducati e altro ancora, [p. 207 modifica]il papa conferillo in commenda a quel suo nipote cardinale. Il quale nascosamente, e senza lettere del principe (lo che contrastava all’uso), ne tolse anche possesso per via di procuratore, unito a un notaio mandato di Ferrara, per quanto si seppe dappoi, che alla cheticella entrando in chiesa vuota di persone, ne toccò la porta e la piccola campana. Ciò saputosi, un monaco di quella congregazione s’immise anch’esso in possesso, fra la gioia grandissima dei molti accorsi; e celebrò messa in abiti pontificali. Il principe non ha fatto valere ancora la sua autorità. Su quello che interverrà, tenebre. Gli ultra-clarissimi danno a pronosticare qualche cosa di magno. Sulle quali cose ho scritto a V.S. alla distesa, pensandomi che siensi travisate costì.

Il principe di Sarmarcanda, dalla S.V. eccellentissima delineato, che comanda ai Tartari appellati Zagatai, e ha vasto dominio in oriente e settentrione, si chiama Orbec. Il qual vocabolo è turco e suona gran signore. Se nel linguaggio di quei popoli appellisi Mogol, io non so; e non so pure il nome delle stesse genti. Geselbi gli chiamano i Turchi pe’ negri turbanti; tal voce infatti significa: nero capo. Chiselbi i Persiani, che vuol dire: capi rossi. Le notizie che detti sulla guerra e la vittoria, sono accertate; poi nient’altro si seppe.

Desidero che la V.S. eccellentissima goda buona salute, e mi porga il modo a darle qualche segno di gratitudine. Moltissimi saluti di rimando ai signori Gillot e Casaubono.

Venezia, 17 febbraio 1609.




Note

  1. Edita in latino, tra le Opere dell’autore, a pag. 49.