Lettere (Sarpi)/Vol. I/79

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LXXIX. — A Giacomo Leschassier

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LXXIX. — A Giacomo Leschassier
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LXXIX. — A Giacomo Leschassier.1


Molti riflessi oggi c’invitano, eccellentissimo Signore, ed anche sforzano ad applicar l’animo alle materie beneficiarie: di qui, infatti, piglian cuore i romaneschi a dominarci e dividerci. Se potessimo imitar voi, o almeno gli Spagnuoli, ci tratterebbero bene; [p. 262 modifica]ma già in Italia ha prevalso il costume che il papa dispensi ogni benefizio a suo grado. I più (cioè i grassi), in virtù delle regole di cancelleria, sono riservati; gli altri pochi e di minor frutto distribuisce lo stesso papa, se vachino da sei mesi; e ai vescovi non resta quasi nulla. Fronteggiare apertamente tanto sconcio, non va a sangue a molti, e non è agevole impresa: bisogna usar l’arte. Noi, come tante volte le ho scritto, mettiamo a profitto la legge, che niun fornito di benefizio possa pigliarne possesso senza lettere del Principe. Per venire a capo di qualche cosa, occorre allargarne il concetto. Davvero che è lunga la via; ma val meglio contentarsi anche del poco, che seguir partiti violenti.

Più disegni agito in mente; ma, solo, a qual pro? Oh! m’avessi qui persona a Lei simigliante, con la quale mi fosse dato svolgere questo istesso argomento! ben mi lusingherei che si trovassero espedienti di pronta efficacia. Ciò negandomisi, la prego a giovarmi così lontano. Le mando la formola delle lettere del Principe pel possesso dei benefizi; la esamini, e mi dica se ci si può aggiungere altro, che sia secondo la legge e faccia al nostro intento. Bisogna però che la giunta sia brevissima, e sfugga all’avvertenza e agli attacchi dei partigiani della curia; occorrendoci combattere non soltanto i nemici, ma talvolta anche noi medesimi. Se poi Ella ha in pronto argomenti per oppugnar dolcemente, o in tutto in parte, le riserve, la prego a manifestarmeli. Arde la lotta circa il monastero di Camaldoli e siamo alla crise del morbo; o Curia o Repubblica dee riuscir perdente. Io m’affido che la Repubblica vincerà: sostiene, infatti, una causa giusta, pia e [p. 263 modifica]pur bella, rifiutandosi a tenere il monastero incommendato ad un nobile, come la Curia pretende, e volendo si lasci al tutto alla congregazione di Camaldoli. Aspetto dalla S.V. eccellentissima un legal parere intorno alla quistione. Ecco la storia del fatto.

L’anno di fondazione del monastero è il 994. L’ordine Camaldolense ebbe vita nel 1012. Per che modo i religiosi di quel convento addivennero Camaldolensi, non si sa: il certo si è che, nel 1258, Alessandro IV soggettò tutti i monasteri di quell’Ordine al priore dell’eremo di Camaldoli per una bolla che si conserva anc’oggi, in cui son nominati tutti i monasteri, e segnatamente quello di Vangadizza. A forma dei regolari statuti, vissero i monaci coll’abate eletto dal capitolo e raffermato dal priore dell’eremo fin presso al 1400, quando allora s’incommendò per la prima volta. E andò sempre fino ad oggi soggetto a commenda; ma nelle bolle fu ricordato di continuo il monastero dei Camaldolensi. Il 1513, Leone X creò la congregazione di quell’Ordine, detta dell’Eremo e di San Michele, alla quale unì diciassette conventi della stessa famiglia, e di cui alcuni si tenevano allora in commenda, altri in titolo; decretando però, che alla prima vacanza per renunzia o per morte, s’avessero subito per uniti alla congregazione; e se superiori vi si stabilissero, durassero non a perpetuità, ma un triennio. E si fa special menzione dei monasteri, e di questo pure. Fassi l’aggregazione, e la congregazione già ottiene i diciassette monasteri. Aggiunge papa Leone, che, vacando, s’uniscano effettualmente gli altri conventi alla congregazione medesima. Dal 1513 ad oggi, il nostro monastero vacò due volte per morte o [p. 264 modifica]resignazione; e la congregazione non esperimentò i suoi dritti. Finalmente, il 1608, uscì di vita l’ultimo commendatario. Il prior generale della congrega camaldolense, toscano, che per caso trovavasi allora a Venezia, di suo moto elesse l’abate, a tenore degli statuti della congregazione. In questo mezzo, il Senato dimandò al papa che volesse far ragione ai dritti di essa congregazione. Negò ricisamente il pontefice, per la ragione che quel monastero era boccone da un nipote di papa, e lo incommendò a suo nipote; il quale non chiese pure possesso al Senato, secondo che l’uso portava. Dopo di che, l’abate istituito si rivolse al Principe, domandando facoltà di possesso. Il Principe rispose, che in tale affare non voleva recar danno a chicchessia. Il monaco allora soggiunse, ch’avea fatto la petizione per sola dimostrazione di reverenza alla Serenità Sua; che, del resto, il costume della Repubblica non portava che si desse il possesso agli abbati che sono in congregazione, mediante lettere del Senato: ad essi bastavano le sole lettere di collazione dei superiori; e però desiderava, quando non gli fosse disdetto, prender possesso alla consueta maniera. E il Principe replicò, che se non voleva far detrimento ad alcun diritto in essa causa, nè anco intendeva danneggiare la congregazione. Ciò inteso, il religioso si congedò, entrò in possesso e fu ricevuto da tutti i sottoposti, e sta pur ora al governo della sua congregazione, siccome ogni altro abate di monastero. Sostiene la curia che tal monastero non gli è dovuto, perchè investito oramai da commende, perchè uso ad essere incommendato, perchè riservato giusta le regole di cancelleria. Sostiene la congregazione, in forza del privilegio di [p. 265 modifica]Leone, che il convento le va aggregato ipso jure, e però era autorizzata a crearsi l’abate generale. E abbiamo pure una sentenza media, che riconosce il vincolo antico del monastero, ma afferma, per la fondazione e il decreto del Tridentino alla Sessione 25, cap. 21, non potersi dal pontefice incommendare, ma doversi per lui ridurre in titolo e incorporare alla congregazione, stante il privilegio menzionato. Di questo passo va la controversia. Più dotti palesarono la loro opinione; ma per me starà innanzi a tutte quella della S.V. eccellentissima.

Nel leggere gli opuscoli sulle libertà gallicane raccolti in un solo volume, mi prese curiosità di riscontrare quella protesta che fu vinta in una adunanza di vescovi, in ordine alla bolla di Gregorio XIV, per cui lor comandavasi di rompere obbedienza al re. La vidi una volta, ma con animo ben dal presente diverso: la prego di contentarmi. Anche bramo sapere se, quando vi vengono delle bolle pontificie che il Senato accetta, e pur hanno dispiacevoli clausole e lesive della ecclesiastica libertà, si cancellino nelle loro parti inammissibili, o si notino nel decreto di accettazione le formole rifiutate. Volentieri vedrei qualche esemplare di decreto che in parte accetta e in parte respinge una bolla papale.

Io non porrei mai termine allo scrivere, e sono uno sconsigliato a stancarla con queste lungaggini. La pagina è piena: non più ciance. Prego la S.V. a scusarmi. Stia sana, e m’ami di quell’affetto che io pure l’amo.

Venezia, 25 giugno 1609.


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2Ai nobili e sapienti signori N.N., Potestà e Capitano della nostra città N., e ai successori fedeli e diletti.


Vacando la chiesa cattedrale di cotesta città per morte del R.S. N.N., vescovo ultimo in possesso, l’attual sommo Pontefice la conferì a N., siccome consta per le presenti lettere papali, munite di annessa bolla, date presso a S. Pietro il giorno... mese... anno... Però vi comandiamo che facciate immettere lo stesso N. vescovo, o il legittimo procuratore di lui; e dopo immesso, lo conserviate nella tenuta e real possesso dell’anzidetta chiesa, con la corresponsione di tutti i frutti e redditi a quella riferentisi e appartenenti. Ma se abbiate qualche cosa in contrario, soprassedete e a noi riscrivete, astenendovi dal mettere alcuno in possesso per le nostre lettere. Queste poi registrate, rendete a chi le presenti.




Note

  1. Tra le pubblicate in latino, nelle Opere, ec., pag. 56.
  2. Questa che segue è la formula che il Sarpi dice di mandare al suo amico, e colla quale il governo di Venezia permetteva ai magistrati di mettere i vescovi in possesso delle loro chiese e dei redditi ad esse relativi. Il Leschassier fece a questa Lettera del nostro gran canonista e teologo, un’assai lunga risposta.