Lettere (Sarpi)/Vol. I/94
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XCIV. — A Giacomo Leschassier.1
Mi giunse finalmente un esemplare del Codice di Magonza, costì venuto in luce e inviatomi dalla S. V. eccellentissima: del che le rendo assai grazie. Mi s’offerse anco alla vista un foglietto sottoscritto di sua mano, col quale si combatte il libro d’un certo Contareno sui miracoli, e mi destò certo qual moto di gelosia. Gradirei che, siccome non ha qui persona la quale più di me, obbligato dal dovere, la osservi, reverisca ed ami; così Ella non ricerchi l’altrui servigio, semprecchè io basti a contentarla. La prego con tutta l’anima, che, se le occorrano libri di qua, voglia a me domandarli. Nessun Contareno ha scritto di miracoli. Vive tuttora un Niccolò, nobilissimo senatore di quella famiglia, che da giovane scrisse un libro sulla perfezione delle cose, il quale è come un compendio o sommario di filosofia. Se a caso abbisognasse, gliel farò subito recapitare.2
Mi piacciono assaissimo le sue interpretazioni; ma si guardino costà dall’accettar quel Concilio sulla fiducia che possa tirarsi a buon senso. Rispetto alle riserve, la romana curia vuole si tenga come articolo di fede, che la elezione in forza di decreto e di decretali fosse permessa un tempo dal romano pontefice per la durezza di cuore (uso le parole evangeliche) dei popoli e del clero, ma che l’ottima delle forme è la sola collazione pontificia. Io parlo fuori d’iperbole: se qualcuno in Italia si attentasse a dire che meglio sarebbe il provvedere alle chiese per la elezione da farsi dal clero, dal popolo e dai canonici, si terrebbe per un eretico. Mi ricordo che gl’inquisitori castigarono certo tale, per aver detto che non era a darsi mai per pastore a’ popoli chi fosse da loro malvoluto. Il punto ove il Tridentino dice che i pastori s’hanno a prendere giusta i canoni, lo intendono rispetto alle qualità degli eligendi, e non alla maniera dell’elezione. Non pensi la S.V. eccellentissima che la veneta Repubblica si strugga per le nomine dei sacerdoti; anzi sarebbe a grado dei più prudenti si proponesse una legge, per la quale niuno dell’ordine senatorio potesse per qualsivoglia ragione ascriversi al chericato. Ma questo partito è dissuaso dal timore, che il papa con la sua libertà ecclesiastica susciti nuovi subbugli. Piacesse a Dio che i cherici di questo dominio si disponessero ad appiccar lite con la curia di Roma per la collazione dei benefizi!3 La sarebbe una faccenda sbrigata. Troverebbero incoraggiamento ed appoggio nel favore del Principe. Hanno però talmente fatto il callo al servaggio, da odiare chi parli loro di racquistare la libertà. Abbiatemi fede; chi si provasse a tornare in vigore la elezione, avrebbe negli stessi cherici i più fieri nemici. Specchiamoci nella congregazione dei Camaldolensi. La Repubblica fu inabilitata a difendere le loro ragioni, perchè tutta quanta la congregazione medesima fece prima rinunzia a qualsivoglia suo diritto. Vedendo che non per questo il pontefice si placava, confessò di non avere alcun dritto, di non averlo mai avuto; e più e più volte comandò al monaco, da lei fatto abbate, di sgombrare, siccome intruso, il monastero. Come vi sareste voi diportati in questa causa? Che cuore avreste avuto a proteggere chi si metteva apertamente dal lato del torto? Si venne ad una transazione, per non dare a divedere che il papa patrocinasse una ingiustizia, per avviso degli stessi favoriti.
Veniamo a noi. Son tutto intento ad ammannire abbondevole materia sulla ragion di possesso nei benefizi. Moltissime difficoltà mi s’attraversano, nè dispero perciò; in quanto che se il conato riesce a bene, mi sarà via, in tempo opportuno, a invalidar le riserve. Rischiosa la prova; ma nelle faccende umane basta il volere. Avevo letto nel Pasquier al 3° libro, cap. 12, l’ordinanza del 1519. Rispetto al primo punto di essa, ammirai il diligente pensiero del Parlamento nel curare anco i lievi sospetti; sebbene, a dir vero, l’assolvere il re dalle censure, suona lo stesso che dichiararvelo soggetto. Veggo ora per l’esemplare che favorì inviarmi il costume che vige costà di far fronte alle innovazioni; e moltissimo lo commendo.
Non avrebbe mai fine lo scrivere, se non temessi di riuscirle grave. Ora prego Dio che la mantenga lungamente sana, e Lei a continuarmi la consueta benevolenza.
- Venezia, 29 settembre 1609.
Note
- ↑ Pubblicata, in latino, tra le Opere ec., pag. 63.
- ↑ Segue nel testo latino uno squarcio in tutto simile alla seconda tra le Lettere che in quello appariscono dirette al Leschassier, e che noi, seguendo i precedenti editori, producemmo tradotta sotto il numero XXXII, non senza dare a conoscere, come invece di lettera intera, venisse da noi tenuta in qualità di frammento. I lettori di ciò avvertiti, potranno ormai riportarla al vero suo luogo.
- ↑ Aveva ben ragione l’argutissimo Sarpi a vagheggiar riforme in materia beneficiaria. Gli è un vero scandalo a veder altri pieni sino agli occhi di beni ecclesiastici; altri (nè sono in piccol numero) dibattentisi tra la miseria la fame! Era questo il sistema che praticavasi sotto gli antichi governi o sgoverni, e che non vedesi mutar d’un jota sotto gli odierni, benchè promettitori di giustizia assoluta e di beatitudine universale.