Lettere (Sarpi)/Vol. II/249
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CCXLIX. — A Giacomo Gillot.1
Ricevei le ultime lettere della S.V. in data dei 3 gennaio e 5 febbraio. In esse mi fu dato vedere argomenti del suo animo giusto e costante. Giustamente si duole perchè sovrastino due guerre civili a cotesto regno, dianzi floridissimo. Le macchine mosse dai malcontenti dell’ordinamento attuale, spero saranno di corta durata e riusciranno alla riforma del governo; ma temo di ciò che si macchina nella regione di Pittau, e mi fa caso che il duca di Epernon, provato in tante vicende e nell’età in cui trovasi,2 pigli risoluzioni così avventate e precipitose. Quella guerra (se Dio non la sperde), sotto pretesto di religione, scuoterà e leverà di sesto il regno; e coloro che sconsigliatamente la fomentano, non potranno, quando che vogliano, scendere a transazioni. Ma per noi le faccende non vanno già meglio. All’una e l’altra porta d’Italia3 siamo circondati da guerre; e benchè trattisi di pace, è dubbio se questa non sia per riuscire più funesta d’una guerra.
Di Francia, donde avevamo un tempo in abbondanza sussidi alla libertà, ora ci vengono gli strumenti del servaggio. Le soldatesche possono venire a noi solo per via della Rezia; il qual passaggio è impedito dai ministri regi, ai quali importa salvarci e che certamente ci avvantaggerebbero, quando non avessero sorbito l’aureo Diacattolico. Io però mi consolo al pensiero che, a prova fatta, le buone venture sperate si convertono in danno e le male in felicità; e mi vo rammentando che noi uomini siamo posti quaggiù, per rilevar dagli eventi la volontà di Dio e a quella conformare le nostre operazioni. E avverto ancora, che non s’adopera saviamente da coloro che furon causa de’ vostri e de’ nostri mali; che i re maggiorenni non prevalgono per sapienza, e più pregiano gli schiavi che i liberi; nè il numero dei dappoco restringono, che dànno fondo a magnifiche ricchezze. Ma rimettiamoci alla provvidenza di Dio.
Ho notizie dall’amico sull’arcivescovo di Spalato, posteriori alla sua partenza. Conversò con lui intimamente, e vide alcuni suoi libri da divulgare. Mi assicurò che sono scritti senz’affettazione, senz’aria di disputa; astiensi da ogni parola aspra; sostien reciso solo le opinioni proprie, e tutto prova pei documenti dell’antichità. Non ne lodò per altro la prolissità, ch’è forse soverchia; nè la titubanza o ansietà d’animo, cui l’autore confessa ingenuamente, ed io ammirerei quando fosse vivuto in Francia, dove a nessuno è vietato lo scambio del parlare e dell’ascoltare. Ma in luogo dove gli uomini sono privati fin dalla culla della facoltà di pensare, mi fa caso che un Dalmata (gente che più prevale per forza materiale che per ingegno), e allevato negli ergastoli de’ Gesuiti, siasi potuto districar dalle tenebre. Per riguardo a tali difficoltà, fo giudizio della bontà e dottrina di lui; che un altro più assoluto non avrei agevolmente saputo pronunziare.4
Conobbi il Barclay per la lettura del Satirico, e di quel libro scritto a favor del padre, che mi ha inviato; ma più mi dette nel genio la sua Apologia. Lo seppi partito per Roma, e ne ignoro fino ad ora il motivo: il tempo lo svelerà. Scuso gli altri eruditi che colà recaronsi; i quali regalati di promesse magnifiche, per l’attrattivo della dignità sperata e il soddisfacimento delle cupidigie, mutarono meno indecorosamente bandiera. Ma questi, legato di matrimonio, non potè agognar nemmeno mezzane fortune: se mirò a vivere con più di libertà nella fede cattolica, avrà conseguito l’intento. È voce che abbia scritto un libercolo intitolato: Character Regis Anglici; ma io non l’ho per anche veduto. Io non vorrei che incontrasse qualche malanno a un tal uomo, il quale amo assai; ma ho paura d’una tragedia. Egli ha ingegno inclinato al satireggiare, e Roma offre a ciò materia più larga che altro luogo, perchè là sono moltissimi che vi dànno appicco. Io temo assaissimo per lui, se non baderà scrupolosamente, giusta l’insegnamento di Salomone, a non dir male del re, o detrarre anco nel segreto di sua stanza ai potenti; e non si figgerà in capo che gli uccelli pure e i venti scopriranno i suoi pensieri. L’infelice Guglielmo Reboul,5 empito di promesse per la sua abiura religiosa e il libro composto contro il gran re dell’Inghilterra, stava attendendo di grosse ricompense; ed ebbe tronca la testa il primo di ottobre del 1611, pel gran delitto d’avere in una cassa uno scritterello contro i vizi signoreggianti in Roma, che nessuno aveva veduto. Se Barclay scriverà in seguito qualche altra opera, nulla di grande aspetto da lui; i vecchi esempi ammonendomi, che i liberi ingegni vendutisi per cortigianeria alla Curia di Roma, han fatto géttito a un tempo e della scienza e della coscienza.6
Vengo al punto fondamentale di questa, e schiettamente dirò della narrativa dei fatti compiutisi in cotesto Senato, che la S.V. mi ha inviata. Vidi in essa, per opera della S.V., sostenuta la splendida libertà e dignità di un ordine distintissimo; e di questo pure io venero la costanza, ma più quella di Lei, che non si contentò di arruolarsi tra i più accesi difensori di libertà, ma volle esserne e banditore e promulgatore, a costo pure d’incorrere nello sdegno dei potenti. Io vorrei pregare di tutto cuore la S.V. a non privarmi degli altri scritti da Lei ricordati, e ch’io leggerò e divorerò, se non di seguito, in ore per me le più preziose. E per indurla a farmi su tal punto contento, ne ringrazio la S.V. non come di cosa promessa, ma ancora adempiuta; mentre sto con avidità attendendo il compimento delle scritture. E mi vergogno di non poter renderle il contraccambio; ma la indole sua cortese e inchinevole al beneficio, terrà in luogo delle opere la volontà mia disposta a servirla. Intanto le auguro continua sanità; e la prego ad onorar me, suo devotissimo, della usata benevolenza e favore. E le bacio le mani.
- Venezia, 17 febbraio 1617.
Note
- ↑ Edita come sopra, pag. stessa.
- ↑ Il duca di Epernon, uno dei più vani e più avventati fra i gran signori della Francia in quel tempo, era allora in età di 63 anni. Godè la grazia della reggente, dopo essere stato in sospetto di complicità coll’assassino di suo marito. Forse qui alludesi alla risoluzione presa di partirsi dalla corte per Angoulème, non avendo potuto ottenere dal re un posto nelle guardie, ch’egli chiedeva per una delle sue creature.
- ↑ Vale a dire, nel Piemonte e nel Friuli.
- ↑ Marcantonio De Dominis era nativo di Arbe, e taluni lo dissero discendente da una famiglia che annoverava tra’ suoi antenati un papa e parecchi illustri prelati. Aveva in realtà studiato in Loreto, in un collegio presieduto dai Gesuiti; quindi nell’Università di Padova. Di spirito inquieto e ambizioso, ebbe vita agitatissima e infelice tra i favori medesimi delle fortuna, de’ quali egli non sapeva contentarsi. Volle tornare in grembo alla fede ortodossa e non fu creduto; talchè dopo la sua morte in Roma nel 1624, si esercitarono sul suo cadavere quegli atti di bestiale crudeltà, che alla sua persona erano riserbati, quand’egli fosse vissuto. Nel 1615 erasi da Spalato ritirato in Venezia; d’onde passò in Germania, e nell’anno in cui dettavasi questa Lettera, era certamente in Inghilterra; dove scrisse e pubblicò il libro, allora sì famigerato: De Republica christiana. Fu egli, che mentre soggiornava alla corte del Re Giacomo, avendo potuto, non si sa come, procurarsi il manoscritto della Storia del Concilio di Trento di Fra Paolo, la diè quivi in luce (1619) senza il consenso dell’autore. Peggio poi, che vi aggiunse una prefazione a suo modo, cioè conforme alle nuove dottrine da lui professate; il che dicono che al Sarpi recasse moltissimo dispiacere. (Griselini, Mem. anedd., pag. 115-16.)
- ↑ Vedasi la Lettera CXCI (pag. 258), dove parlasi anche più compiutamente di questo fatto medesimo, e il nome della vittima è scritto: “Guglielmo Rebaudi.„
- ↑ Ciò perchè agli scrittori venduti o, comechessia, non indipendenti, viene a mancare, se non la scienza propriamente detta, certo sempre la ispirazione e la forza degli argomenti che nasce dalla convinzione.