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Lezioni sulla Divina Commedia/Primo Corso tenuto a Torino nel 1854/XVIII. I gruppi

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Primo Corso tenuto a Torino nel 1854 - XVIII. I gruppi

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Primo Corso tenuto a Torino nel 1854 - XVII. I demòni Primo Corso tenuto a Torino nel 1854 - XIX. Fusione dei vari elementi nel Canto III
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Lezione XVIII

[I GRUPPI]


Noi siamo in grado oramai di seguire ciascun canto di Dante nelle sue parti. Il poeta comincia col porsi innanzi il luogo e la pena; indi apparisce il demonio; poi peccatori presi insieme e commisti, non questo o quell’individuo, ma l’uomo collettivo, gruppi di mezzo a’ quali si eleva a quando a quando un grande individuo che ferma l’attenzione1. Vi ho parlato della natura e del demonio; arrestiamoci su’ gruppi.

E innanzi tutto questo distinguere che fa Dante l’uomo collettivo dall’uomo individuo, è egli una mera sottigliezza? Una distinzione arbitraria e di poco momento? Dante vi dá grandissima importanza; perché tu troverai canti senza individui affatto, ma senza gruppi nessuno. I gruppi sono un momento essenziale dell’inferno: quale è il loro significato? Quale è il concetto che esprime la moltitudine? Volgete mente alla societá quale si trova in terra; se voi vi abbattete in questo o quell’individuo, v’incontrate in tali caratteri, tali passioni, tali preoccupazioni. Ma se questi individui si raccolgono in piazza per uno scopo comune, que’ caratteri, quelle passioni, quelle preoccupazioni svaniscono: le anime unite s’immedesimano e diventano un’anima sola, l’anima contagiosa della moltitudine, la quale ti sforza a sé, consuma in te quanto hai di proprio e ti [p. 120 modifica]rapisce quasi magneticamente nel medesimo circolo: scossa elettrica che allora tutti sentiamo ugualmente quando tutti ci teniamo stretti mano con mano. Nell’uomo è una doppia parte: nell’uomo fisico vedi i lineamenti generali, ed i tratti caratteristici e personali: nell’uomo morale trovi e quello che egli ha di proprio e quello che egli ha comune colla societá in cui vive; e questa parte generale è quella che ha la sua espressione diretta nella moltitudine. Non che nell’individuo non si debba anche esprimere il generale, anzi senza di questo non si dá individuo poetico veramente compiuto; ma la passione in quello che ha comune in tutti gli uomini è cosí strettamente congiunta con quello che ha di proprio nel tale individuo che non se ne può separare; laddove nella moltitudine solo il generale si mostra netto d’ogni individualitá ed accidente. Ne volete un esempio in un fatto speciale che ci è sott’occhio? Volete voi vedere le idee allargarsi, dilatarsi l’orizzonte, ed il generale che doma e cancella ogni individualitá? Riunite uomini insieme: riunite un’assemblea municipale e l’interesse del focolare s’inchinerá innanzi all’unitá del campanile; riunite un’assemblea nazionale, e l’interesse del campanile s’inchinerá innanzi all’unitá della bandiera. Ne volete un esempio estetico? Ricordate il coro antico. I greci introducevano individui in azione; seguiva una moltitudine d’uomini e di donne, il coro: il quale, come è risaputo, esprimeva come pensiero e sentimento quello che gl’individui aveano espresso innanzi come azione nel giro dell’individuo e dell’accidente. Una donna perfida trucida nel proprio letto il suo consorte; ed il coro che innanzi avea accolto tripudiante il possente re, vittorioso, reduce da Troia, ed in seno d’una famiglia amata, ora prorompe in lamenti non sul caso infelice d’Agamennone o sulla iniquitá di Clitennestra, ma abbandonandosi a liriche e passionate considerazioni sulle misere sorti delle umane genti. I gruppi danteschi sono il coro dell’inferno; niente d’individuale; espressione generale del sentimento che invade i peccatori nella societá infernale: e quale societá, o signori! Al di sopra della comunanza sociale ce ne ha una ben piú alta, la comunanza umana; al di sopra del civis sum vi è l’homo sum; [p. 121 modifica]una societá senza nome, senza leggi, senza tempo, senza luogo, senza ordinamento visibile, e di tanto piú salda e forte, la societá delle anime. I malvagi in qualunque luogo essi nascono, in qualunque tempo essi vivono, sono tra loro fratelli; Iago è contemporaneo d’Egisto: Lucrezia Borgia è sorella di Medea. Vi è una societá invisibile nella quale con una sanguinosa ironia ma vera Ezzelino ed Attila tiranni stanno in un lago di sangue accanto a Rinier da Corneto e Rinier Pazzo, briganti. Tale è la societá di Dante: la reggia di re congiunta con la spelonca degli assassini. Ne’ gruppi danteschi non individuo, non societá. Nell’inferno l’uomo è parimenti duplice: l’uomo collettivo, l’uomo del peccato, la parentela del delitto, e l’uomo individuo, il cittadino, il padre, il partigiano, la libera persona umana. Fate che un individuo si spicchi dalla folla e dica «io», e voi potete dargli un nome ed una patria, e potete chiamarlo Bertram dal Bornio, Sinone, Bocca degli Abati; ma fate che ei si rimescoli in mezzo alla folla, e lá non vi sono piú guelfi o ghibellini, non piú papa o Cesare. L’inferno pesa sopra di tutti ugualmente. Non vogliate, o signori, rabbassarmi questa grande societá umana: non vogliate abbassarmi queste ire immortali alle transitorie ire di parte, semplice occasione dalla quale è nato qualche cosa piú grande di loro; e quelle ire sono spente, e quelle forme mutate, e quella societá passata; l’Inferno di Dante rimane.

Il sentimento generale espresso ne’ gruppi ha ancora il suo progresso rispondente al disegno dell’inferno che vi ho mostrato giá nella natura e nel demonio: nella prima impressione sublime, indi tragico e severo; poi va digradando nel comico e nel disgustoso insino a che si risolve nella immobilitá della materia. Il sublime della natura è l’eterno ed il tenebroso; il sublime dell’anima è la disperazione.

Che cosa è la disperazione? L’uomo per vivere ha bisogno di avere innanzi a sé qualche cosa a cui tenda; il pensiero vive quando a pensiero succede pensiero; il cuore vive quando di sentimento germoglia sentimento; l’uomo vive quando si agita in un’onda assidua di pensieri e di sentimenti; e la speranza è il sentimento benefico che compendia in sé tutta la vita morale. [p. 122 modifica]La disperazione è l’annullamento della vita morale, la stagnazione del pensiero e del sentimento, la morte, il nulla, il caos, le tenebre dello spirito, il sublime negativo dell’anima; e come il sublime delle tenebre è nella luce che muore, cosí il sublime della disperazione è nella speranza che vi si dilegua dinanzi:

                                    — Lasciate ogni speranza, voi ch’entrate.
— Non isperate mai veder lo cielo.
— Nulla speranza li conforta mai.
               

Quale è l’espressione estetica della disperazione? In che modo la moltitudine esprime il sentimento dal quale essa è invasa? Quando un pensiero ha bisogno ancora di dimostrazione e di sviluppo, rimane nelle regioni solitarie della speculazione; il pensiero scende nella moltitudine quando a farlo intendere ed accettare basti il nominarlo: il pensiero della moltitudine è una parola sola, un «viva»; un grido eloquente che compendia secoli di meditazione, prorompente ad un tempo da tutti i petti. La parola, il grido della disperazione è la bestemmia. La bestemmia è la violenta reazione dell’anima innanzi a cui tutto si dilegua, sono le potenze dell’anima che si ribellano contro la morte morale in cui è profondata, mostrando d’avere ancora una vita tenace quando può ancora maledire e imprecare. La bestemmia è sublime. Vi sono alcuni termini, ne’ quali l’uomo rimane d’ordinario rinchiuso, alcuni nomi sacri che egli suole pronunziare con timore o con amore; il disperato caduto nel fondo d’ogni miseria varca ogni limite, e nel suo annichilamento e’ s’innalza infino a Dio: — Me perduto, pera il mondo; me perduto, muoia famiglia e patria; me perduto, vada Dio stesso in malora. —

                                    Bestemmiavano Dio [e i lor parenti,
L’umana specie, il luogo, il tempo e ’l seme
Di lor semenza e di lor nascimenti.]
               

Bestemmia crescente, perché i condannati dopo di avere bestemmiato Iddio, come si fa comunemente da tutt’i tristi, dopo d’avere bestemmiato i parenti ed il genere umano, come si fa [p. 123 modifica]da pochissimi, non sono ancor satisfatti, e la loro rabbia ingegnosa va cercando alcun pensiero raffinato, alcuna forma insolita di bestemmia; ed al poeta nel calore dell’ispirazione esce di penna una forma di dire inconsueta, squisita di raffinatezza e di ferocia che porta all’ultimo segno il terrore e l’orrore: «il seme di lor semenza [e di lor nascimenti]».

In questa bestemmia ci ha un doppio elemento; la parola come significato e la parola come suono. Nel significato è qui posto il sublime; e ben si guarda il poeta di distrarre l’impressione col porci dinanzi il tono e l’accento di quelli che bestemmiano. Volete ora vedere il sublime del grido? Volete vedere la poesia risolversi in semplici note musicali? Dante è qui in mezzo alla moltitudine; accompagniamolo quando egli mette il piede tra le secrete cose, tanto ancora lontano, che gli giunga non il significato ma il suono della bestemmia: suoni di dolore e suoni di sdegno; alcuni esclamazioni, altri parole distinte; alcuni rimbombano alto congiunti con altri flebili e sommessi:

                                         Diverse voci, orribili [favelle,
Parole di dolore, accenti d’ira,
Voci alte e fioche, e suon di man con elle.]
               

Ma non vogliate arrestarvi qui; non vogliate fare come alcuni comentatori che si stillano il cervello a mostrarci la minuta differenza tra voce e favella, tra parola ed accento, e non si avveggono che cosí distruggono l’essenziale della impressione posta non nel differente ma nell’unico; e che essi introducono il determinato ed il distinto, dove Dante ha voluto rappresentare un tumulto, un caos di suoni, una disarmonica armonia congiunta con l’eterno ed il tenebroso della natura, che cinge la testa d’orrore. Volete ora vedere congiunto insieme il sublime del grido e del significato?

                                         Quando giungon davanti alla ruina,
[Quivi le strida, il compianto, il lamento,
Bestemmian quivi la virtú divina.]
               
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Brevi parole, epilogo, direi quasi, d’un doppio sublime, che non comparisce piú nell’inferno.

Come l’eterno ed il tenebroso cosí la disperazione e la bestemmia va a risolversi in una parola volgare, in un piangere per esempio:

                                    E piangean tutte assai miseramente.                

Questi tratti rimangono sempre, ma vanno ad occupare il fondo e l’accessorio del quadro, e nuova poesia sorge su. Il sentimento fin qui è espresso come sentimento, come parola; siegue la tragedia muta, il sentimento trasportato al di fuori, tradotto in atti ed in movimenti.

Lo stato di passione è violento fuori dell’ordinario; la faccia dell’uomo è abitualmente calma e senza espressione; ma vi è un momento in cui innanzi agli occhi cade la benda e la ragione si offusca, e la mano corre involontaria al delitto: in quel momento la faccia umana si trasfigura ed il peccato esce al di fuori, e siede sulla fronte e fiammeggia negli occhi; indi la faccia ripiglia la sua calma abituale. Egli è quel momento fuggevole che Dante coglie e rende eterno; l’uomo in un momento d’obblio si separa dal corpo, e quel corpo non lo riavrá piú mai; l’avaro innanzi alla miseria tiene il pugno chiuso, e rimarrá in eterno col pugno chiuso; in un momento di collera altri si morde per furore le labbra, e in eterno si troncherá le membra a brano a brano. Questo doppio movimento reale e simbolico è il fondamento della poesia tragica del movimento ne’ gruppi danteschi: tu non troverai in loro nessun atto che sia basso o vile: tu puoi abbonirli, ma non puoi disprezzarli.

Altra poesia in Malebolge, il comico ed il disgustoso. In che modo lo stesso movimento può di serio divenir comico? Eccovi innanzi un quadro: mirate. Vi è un gobbo in veste da buffone, con tanto di bocca sgangherata in atto di chi emette un grido. Il riso nasce naturalmente a questa vista; ma fermatevi; leggete giú, e quando saprete che costui è Triboulet, un padre che vede da’ reali appartamenti uscire la figlia col [p. 125 modifica]rossore sul volto della vergogna patita, innanzi ad un padre non si ride, quella boccaccia vi sparirá dinanzi, ed il riso vi si gelerá sulle labbra. Perché tal differenza? Perché qui l’interno, l’anima d’un padre addolorato, vi chiama a sé togliendovi il di fuori; laddove mirando il quadro indifferenti al significato la figura vi apparisce unicamente come figura; e siccome gli atti degli uomini passionati, come quelli che travolgono e falsificanola faccia, sono per se stessi ridicoli o disgustosi, quando voi separate il movimento dalla sua espressione, al sublime ed al tragico succede la commedia e la prosa. Eccovi un esempio per il comico. Avete innanzi due laghi, uno di sangue, l’altro di pece bollente: nell’uno sono puniti i tiranni, nell’altro i barattieri; quelli se escono fuori col corpo sono saettati da’ centauri; questi se escono fuori col corpo sono arroncigliati da’ demòni. La figura è la stessa; i peccatori sono diversi; quelli feroci ed abominevoli; questi abbietti e dispregevoli. Il movimento ne’ primi è espresso a questo modo;

                                         [Dintorno al fosso vanno a mille a mille,
Saettando quale anima si svelle
Dal sangue piú che sua colpa sortille.]
               

Il movimento è significato da due verbi saettare e svellere amendue indeterminati, amendue di carattere grave, che lasciano nella fantasia l’impressione dell’insieme senza alcuna traccia di particolari. Eppure nel fondo a questo doppio movimento ci è apertamente il ridicolo; se non che Dante non può ridere de’ tiranni, gli abborre troppo. Il verbo svellere quando passa a’ barattieri, diviene una frase figurativa, la quale ci pone innanzi il dosso de’ peccatori che apparisce e sparisce «in men che non balena». I barattieri si trovano tra l’incudine ed il martello, e non sanno risolversi; e come il demonio volge l’occhio altrove, ad alleggerire la pena cacciano fuori il dosso; ma la paura dell’uncino è tale che il cacciarlo fuori e nasconderlo è un punto solo. Quest’atto è ridicolo non per la figura, ma per la paura che mostra ne’ barattieri. Né se ne contenta il poeta, aggiungendovi anche la figura, rappresentandoteli tuffati nella pece col muso in fuori come ranocchi. Eccovi ora un esempio [p. 126 modifica]pel disgustoso. Un uomo ferito è spettacolo di pietá e di dolore; ma la pietá cede al disgusto se voi togliete a descrivere la ferita; se voi, p. es., mi rappresentate, come fa Dante, un uomo con le minugia e la corata pendenti; un altro col naso mozzo infino a’ cigli ed una sola orecchia; un altro con le mani mozze ed i moncherini levati che insozzano la faccia di sangue. Qui il tutto cede alle parti, e l’orrore al disgusto. Pure il comico ed il disgustoso esprimono ancora la vita, e contengono gli ultimi momenti dell’arte. Giú nel pozzo ogni segno esterno di vita sparisce; voi udirete ancora battere i denti in nota di cicogna, e sonar le mascelle; insino a che la freddura occupa tutte le membra ed irrigidisce fino la lacrima. Il gruppo stesso sparisce; poiché invece d’individui uniti ma distinti avete innanzi una sola massa di materia agghiacciata, non sai se ghiaccio o uomo.

Donde abbiamo cominciato, dove siamo riusciti? Noi siamo partiti da una moltitudine d’uomini convenuti d’ogni paese, pieni di vita, che non sanno rassegnarsi alla loro sorte, che fremono, bestemmiano ed imprecano. E noi siamo riusciti in uomini pietrificati ed istupiditi dal freddo:

                                    E trasparean come festuche in vetro.                

Immaginate una piramide. Nella larghissima base vedete la natura infernale con i suoi bassorilievi, co’ suoi compartimenti, con le sue pene effigiate. Piú su vedete spuntare la piú bassa incarnazione dello spirito, il demonio, figura bestiale in faccia umana, bestia talora del tutto, mai del tutto uomo. Piú su vi si affacciano moltitudini diversamente atteggiate, esprimenti diversi affetti. Che mondo è codesto? Niuna orma della terra in cui abitiamo. Voi avete innanzi un altro mondo non allegorico, seriamente pensato e seriamente eseguito. Egli è da questo triplice fondo che si eleva in alto e si pone sulla cima della piramide l’individuo libero; egli è di mezzo a questa folla confusa che escono i grandi uomini dell’inferno o piú tosto della terra; egli è da questa triplice base della eternitá, che esce fuori il tempo e la storia e l’Italia, e piú che altri Dante come uomo e come cittadino.

  1. Nel ms. cit. è segnato: «Esempio tolto dal canto de’ golosi».