Lezioni sulla Divina Commedia/Primo Corso tenuto a Torino nel 1854/XVII. I demòni

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Primo Corso tenuto a Torino nel 1854 - XVII. I demòni

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Lezione XVII

[I DEMÒNI]


La scala di Giacobbe è comune a tutte le poesie: in ogni tempo le umane fantasie hanno contemplato una doppia scala ascendente e discendente; il minimo punto di partenza è l’uomo, dal quale per una scala di esseri intermedi si sale infino a Dio, e dal quale per una lunga scala di esseri intermedi si scende sino a Satana. Onde il cielo e l’inferno sono stati sempre popolati da legioni intere di spiriti angelici e satanici, che riempiono il lungo intervallo che è tra l’uomo e Dio da un canto e l’uomo e la natura dall’altro. Quali sono i nomi, quali le forme che hanno esse ricevute? Diverse secondo le religioni e le poesie, secondo i tempi e i popoli che le crearono; e nondimeno tutte hanno una comune base, sulla quale riposano, esprimendo questi esseri al di fuori la lunga storia del bene e del male che si agita nell’anima umana; secondo che vi si svolge l’un principio o l’altro si rivela un doppio cammino, un salire verso Dio e uno scendere verso Satana, un progressivo indiarsi o indemoniarsi. Diversi i nomi, diverse le forme, una la base. E quei nomi e quelle forme col volger de’ secoli si mutano o si dileguano, e quella base rimane indistruttibile e riproduce in ogni nuova civiltá se stessa sotto nuovi nomi e sotto nuove forme. Cosi le Furie di Sofocle e le streghe di Shakespeare sono nel fondo una stessa cosa, l’eco esterna di suoni interiori, che turbano le colpevoli gioie dell’anima. Né solo questi esseri hanno una base comune, ma altresí un comun fondo estetico; e, per parlare [p. 112 modifica]unicamente degli spiriti delle tenebre, che sono l’argomento di questa lezione, fondamento unico delle loro forme è il gigantesco e il mostruoso. Il gigantesco, quantunque colpisca vivamente i sensi, è il mezzo piú disarmonico ad esprimere lo spirito ed appartiene a tempi, nei quali le fantasie popolari, non avuta ancora lo spirito piena coscienza di sé, non sanno rendere altrimenti il concetto che aritmeticamente, sommando e moltiplicando. Vogliono esse esprimere la forza fisica? Danno a Briareo cento braccia. La voracitá? Danno a Cerbero tre gole. La previdenza? Danno a Giano due facce. La grandezza e la potenza? Moltiplicano moli sopra moli, ed innalzano piramidi, obelischi e colossi e laberinti e Ninive e Babilonia e Tebe. Col gigantesco si collega il mostruoso che è posto nel connubio della faccia umana con la figura animale, espressione viva della degenerazione dello spirito in cui la razionale volontá scade a cieco appetito. L’uomo è un essere compiuto, capace d’ogni qualitá; l’animale si distingue dagli altri per una cotale sua qualitá speciale. E quando il poeta vuole esprimere dell’uomo la preminenza d’una qualitá sull’altra, non sapendo ciò fare ancora organicamente, appiccica alla figura umana la forma di quella bestia in cui quella qualitá spicca. E cosí, se vuole esprimere la lubricitá, crea la Sirena mezza donna e mezza pesce; e se vuole esprimere il fuoco e l’ardore guerriero, crea il Centauro mezzo uomo e mezzo cavallo. E siccome l’idea principale non è qui l’uomo, ma la qualitá significata nell’animale, spesso sparisce affatto l’uomo e rimane la bestia, come in Cerbero, nella Chimera, nella Sfinge e nelle innumerevoli metamorfosi d’uomini in bestie, nelle quali l’uomo non è piú che una semplice reminiscenza: fu uomo, ora è animale. Il gigantesco e il mostruoso sono dunque il fondamento estetico di queste forme; e quindi nei tempi che precedono la civiltá la poesia ha popolato la terra di giganti e di mostri, atterrati dalla folgore di Giove, il Dio celeste che succede al terrestre. Nei racconti biblici gli angioli invaghiscono delle figlie della terra e ne nasce una razza gigantesca e mostruosa d’uomini perversi, de’ quali è purgata la terra col diluvio [p. 113 modifica]universale. Nel medio evo Orlando, Rinaldo, Morgante e gli altri eroi cristiani sono in continua guerra con giganti e con mostri, non altrimenti che facessero nei tempi eroici antichi Teseo, Ercole e Perseo. Secondo l’antico diritto della vittoria, il vae vietis!, i popoli posero gli eroi vincitori in cielo e li chiamarono Iddíi, e gittarono i giganti e i mostri nell’inferno e li chiamarono demòni. Quindi il Tartaro antico è popolato di giganti e di mostri, de’ quali il Tasso raccolse una buona dozzina in una sua stanza rimasta celebre. Queste forme sono vive nel Tartaro, perché legate con la religione, le tradizioni e le istituzioni della societá in mezzo a cui sorsero. E quando questa civiltá venne meno, che cosa divennero queste forme? Nomi senza soggetto, spogliati d’ogni serietá, pure forme estetiche. E guai quando a difendere una religione voi siete ridotti a dimostrare che ella sia utile o bella! La religione è qualche cosa di piú serio che l’utile e il bello. E noi oggi chiamiamo la religione pagana bella; gli antichi la chiamavano la Religione.

Queste forme, spenta quella civiltá, hanno perduto ogni freschezza di vita: gli eruditi, gli archeologi, i dotti le descrissero poi come le trovarono, pallide e vuote, perduta la miglior parte di sé, la loro vita interna. E queste compilazioni d’esseri mutilati son quelle che sotto nome di archeologia e di mitologia discesero poi nelle scuole, lungo tormento e noia de’ nostri giovani anni. Quindi sorgea negli ultimi tempi una scuola che disse: — Queste forme son morte, lasciamole all’antichitá: a poeti moderni forme moderne. — Ogni sistema ha la sua pedanteria: il romanticismo ha avuto ancora i suoi pedanti, che tracciarono intorno al poeta moderno il circolo di Popilio, e gli dissero: — Tu non uscirai dal medio evo. — Il che ha prodotto pure un gran bene, avendo fatto scomparire quelle classiche reminiscenze, quelle pallide imitazioni, con le quali il poeta veniva ad ogni tratto tirando in mezzo tutta la pagana poesia. Ed ora che questo bene si è ottenuto è tempo che, lasciata da parte la esagerazione, la veritá riprenda il suo diritto. Lasciate che in mezzo alle rovine dell’antichitá entri un poeta unicamente dotto, e costui, non altrimenti che fa l’erudito, si stará [p. 114 modifica]contento a raccogliere e descrivere rovine e frammenti. Ma fate che vi entri un’attiva intelligenza, fate che queste forme si presentino innanzi ad un uomo di genio, e costui con la divinatrice potenza dello spirito rintegrerá quelle rovine e ricreerá queste forme. Tale è l’opera geniale compiuta da Dante. Queste forme egli le trovò morte e le rifece immortali. Dovea costruire il suo inferno e tolse alla terra tutti i suoi elementi, e, strappandoli dal circolo che la natura avea loro assegnato, li compose diversamente e li fece segni del suo pensiero, trovatore d’un mondo nuovo, Cristoforo Colombo dell’inferno. Dovea rappresentare lo spirito, e tolse tutte le forme antiche conosciute a quel tempo e le trasportò nel suo inferno: le trovò libere, spogliate del loro concetto, della loro vita, della loro religione, e le ricreò, dando loro il suo pensiero, la sua vita e la sua religione.

E nondimeno ci ha di quelli che trovano troppo squallida la concezione del demonio dantesco rispetto alla ricchezza subbiettiva che esso ha avuto nella poesia moderna, usi come sono a giudizii assoluti ed a non tener conto della situazione in cui si trova il poeta. Il demonio è grande quando voi me lo ponete di rincontro a Dio; quando spirito delle tenebre pugna contro il genio del bene, amendue Iddii, amendue possenti; e in questa lotta di due principii il demonio è sublime. E cosí grande è il demonio di Milton quando contende a Dio Adamo, cioè a dire tutte le umane generazioni; e grande ed una delle piú compiute e reali concezioni poetiche è il Mefistofele di Goethe, elemento terrestre che il poeta ha posto accanto a Fausto per combattere la parte celeste della sua natura. E che cosa ha di comune con questi il demonio di Dante immobilizzato nell’inferno? Nell’inferno, ricordatelo, ogni azione è spenta; non vi è piú storia.

Il demonio ha la sua storia, quando me lo ponete accanto all’uomo, quando, spirito tentatore, combatte l’angelo custode, il quale dal canto suo acquista anch’egli una storia, quando, vigile protettore, guida le azioni dell’uomo: solo allora il demonio può spiegare forze interiori, ora tragico, ora comico, ora il diavolo zoppo, ora Satana. Ma quando il sipario è calato ed il dramma umano è finito e l’uomo è disceso nell’inferno e il demonio [p. 115 modifica]ha trionfato, che cosa altro gli resta a fare? Soffrire e far soffrire, vittima e carnefice; e quanto piú vile come vittima, tanto piú feroce come carnefice.

Tale è il demonio che la situazione offre a Dante e tale egli l’accetta con quel sicuro istinto che mai non abbandona il vero poeta; né mai troverete in lui minima traccia, minima orma di sforzo che ei faccia per togliere il demonio da questo angusto circolo di azione in cui dee rimanere, per trasportarlo in un campo piú vasto. Il demonio perciò non ha un valore assoluto, ma riceve il suo significato dalla situazione, in cui si trova rispetto alla natura ed all’uomo. Nella natura la depravazione dello spirito rimane immobile; nel demonio acquista un primo grado di vita perché in lui comincia ad apparire lo spirito. Il demonio è la prima apparizione dello spirito, il primo gradino nella scala degli esseri spirituali, lo spirito tra l’umano e il bestiale, in cui l’intelletto è ancora istinto e la volontá è ancora appetito. Il qual concetto ha il suo progresso secondo il disegno generale che ho tracciato dell’inferno e che vi ho mostrato giá nella natura infernale.

Ci ha due serie di demòni: nella prima i mitologici; nella seconda il diavolo cristiano; la prima grave, severa, tragica; la seconda comica, satirica, prosaica. In che modo la tragedia può essere rappresentata dal demonio? Immaginate di assistere ad uno spettacolo tragico; gli attori si animano, s’incolleriscono, fremono, tremano. Immaginate di stare in tal lontananza che le parole non giungano al vostro orecchio: che cosa sará per voi la tragedia? Un’azione muta: l’esterno vi appare: l’interno, cioè a dire le passioni ed i fatti che danno origine a que’ moti e che si esprimono con la parola, vi sfugge del tutto. Tale è il limite nel quale rimane la tragedia demoniaca: ogni parte interna è in loro nulla, non carattere, non passione, non intelligenza, non volontá: e nemmeno la parola; poiché o tace, o le parole sono brevi imprecazioni, vuote di senso, espressioni di cieca e bestiale collera: la tragedia è puramente esterna: passione o peccato tradotti in moti o gesti. Ed in effetti qual differenza è tra un uomo che sbuffa e digrigna i denti e fa gesti [p. 116 modifica]incomposti da’ moti simili d’un animale in collera, se non che quegli è un uomo che parla, che esprime un’anima ricca, e che spiega e nobilita quei moti animali che egli ha comuni colla bestia? Tale è la tragedia del demonio, mimica ed esterna: ben poco rispetto all’uomo, molto rispetto alla natura. La natura vi dá figura e colore: nel demonio la figura si muove ed il colore si anima. Epperò troverete nel demonio la figura congiunta sempre col movimento, la figura in azione (Cerbero, Arpie, Furie). Ponete in questo movimento tragico in luogo della furia Clitennestra agitata dal rimorso e dalla disperazione e la tragedia diverrá umana. Il movimento è cosí essenziale al demonio dantesco, che anche quando non è espresso, l’autore ve lo fa presentire.

                                         Quinci fur quete le lanose gote
[Al nocchier della livida palude,
Che intorno agli occhi avea di fiamme rote.]
               

Entriamo in Malebolge: il demonio mitologico sparisce, succede il diavolo. La storia del diavolo comincia sin dalla nostra antica madre Eva che porse troppo facile orecchio alle sue lusinghe; d’allora il diavolo continuò il suo mestiere tentando sotto insidiose forme i monaci del deserto e susurrando a noi fragili mortali dolci parolette e ingegnosi sofismi, co’ quali ci sforziamo di addormentare la nostra coscienza; vanamente; poiché avendo al di fuori aria di persuasi e di convinti, rimane sempre dentro di noi una voce che ci accusa: noi non possiamo mai ingannare noi stessi, né tampoco il demonio che ci suggerisce. Tale è il fondamento della scena nella quale il nero cherubino mena seco nell’inferno l’anima di Guido da Montefeltro. Costui dopo di aver militato in gioventú, raccolte le vele in vecchiezza, e rendutosi frate francescano, pensava di finire santamente i suoi giorni, quando «il gran Prete» chiamollo a sé chiedendogli modo di far suo Prenestino. Tentennando egli, il papa soggiunse: [p. 117 modifica]

                                         .  .  .  .  .  .  .  .  Tuo cuor non sospetti:
[Fin d’or t’assolvo; e tu m’insegna fare
Si come Prenestino in terra getti:
          Lo ciel poss’io serrare e disserrare,
Come tu sai; però son duo le chiavi
Che’l mio antecessor non ebbe care.]
               

Guido cedette: a che? Il poeta ce lo fa presentire mostrandoci con senso profondo la ragione apparente e la vera:

                                         Allor mi pinser gli argomenti gravi
Lá ’ve il tacer mi fu avviso il peggio.
               

Guido cedeva al timore di dispiacere col suo silenzio al papa, e mostrava agli altri ed al papa di cedere per il peso dell’argomento papale; e quando egli muore, il demonio di tentatore divenuto accusatore gli si porge innanzi con quel ghigno, con quello scuoter di capo, con quell’aria d’intelligenza, con che altri smaschera un uomo che s’infinge e gli dice: — Smetti, a che vale? Tu ti sai ed io ti so. — Il profondo di questa ironia è nella comica serietá; accettando seriamente una ragione alla quale non credeva né il papa, né Guido, né egli, ripiglia l’argomento papale e mettendo in caricatura la corteccia scolastica onde si ricopriva il sofisma, ridottolo in forma di sillogismo ne dimostra l’assurdo col principio di contraddizione, mostrandosi forte in logica non meno del papa; onde conchiude con quel sarcasmo pieno di tanta amarezza:

                                                                                           Forse
tu non sapei ch’io loico fossi!
               

Scena unica nella quale Dante si è incontrato nel demonio moderno, poiché si è qui abbattuto nella stessa situazione contendendo il demonio a S. Francesco l’anima di Guido. L’alta commedia non è possibile nell’inferno; ed il demonio ci rappresenta l’infimo grado della commedia, il buffonesco ed il volgare. Le parole sono da trivio e da mercato; gli atti osceni, laidi e dell’ultima sfacciatezza: il pudore, il rossore è proprio della [p. 118 modifica]faccia umana: anche Vanni Fucci si dipinge di trista vergogna il volto: il demonio non arrossisce. I sarcasmi sono insulti villani, e le menzogne e le malizie grossolane e sciocche, onde è vinto sempre quando viene a prova con l’uomo. Capolavoro di buffoneria è il canto XXII, in cui Alichino burlato dal Navarrese va a finire le sue braverie nella pece dove rimane invescato.

Queste due serie son poste tra due estremi: Caronte e Lucifero. Caronte è il piú vicino all’uomo; Lucifero ne è il piú lontano. Caronte al primo apparire ha alcun che di venerabile nella figura: è il solo che parla nobilmente, trovando nelle sue parole congiunto ciò che ha di sublime l’inferno, l’eterno, il tenebroso, la disperazione. Nel suo complesso è un carattere umano, uno di quei vecchi di cui non è raro il tipo: brusco, vivace, rozzo, manesco, facile a montare in collera e far gli occhi di fuoco, avvezzo ad essere obbedito per cenni, e rinnegando la pazienza e battendo col remo ovunque trova la minima esitazione. In Lucifero il gigantesco ed il mostruoso si mostra nella sua prima e grezza nuditá. Questo Atlante dell’inferno non è sublime, perché l’autore non vi dá alcun tratto che ce lo mostri nel suo insieme, anzi lo sopraccarica di particolari cosí grotteschi e strani, che costringe la nostra attenzione sulle parti1.

Il demonio è Io spirito nel suo infimo grado: Lucifero è il demonio nel suo infimo grado. La tragedia vi è esterna. La commedia è scesa alla buffoneria. Poesia incompiuta, la quale acquista la sua integritá solo nell’uomo.

  1. In parentesi nel ms. della Bibl. Naz. di Nap., XVI. A. 72 a questo punto si legge: «Descrizione di Lucifero».