Lo schiavetto/Atto terzo/Scena II

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Atto terzo - Scena II

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Atto terzo - Scena I Atto terzo - Scena III


Prudenza, Alberto, Caino

Prudenza.
Appunto, signor padre, io la desiderava. E che vuol dire che tanto sta a far ritorno a casa? Pur sa che sono fanciulla, e pur non gli è celato che, in oltre, questo principe ha tanta ciurma da galea in casa ancora. Consola la presenza del padre il figliolo in quella guisa, che consola il mondo il sole, quando, la caligine fugando, luminoso appare. Se dunque non brama di veder sempre la sua figlia tra mille orrori di strane congetture sommersa, torni spesse volte a rallegrarla con la luminosa sua paterna fronte.
Alberto.
Se rallegra la fronte del padre il figliolo, in quella guisa che ’l sole il mondo consola, quando avviene che fra densa caligene involto ei sia; consola parimente la vista del figliolo l’occhio del padre, in quella guisa che il lume in non lontano porto rallegrar suole nocchiero, che naufrago vada portato dall’onde, or dal feretro al sepolcro, né io senza te contento vivo. Ma le gravi occupazioni, nelle quali hammi posto questo principe, hanno cagionato che prima non ho potuto da te far ritorno. Ma dimmi, non venne Caino, nostro ebreo? non ha egli portato (come m’è stato detto) cose bellissime?
Prudenza.
Venne signor sì. Ma già non venne il mio caro Orazio. Ma di più seco venne, eziandio, una gran turba d’altri Ebrei, chi con delle sacca piene di robba, e chi con delle casse. Ecco appunto Caino ch’esce di casa, con quattro facchini.
Caino.
Che dite voi galant’uomini, o non è la stessa cortesia, questo principe?
Facchino.
Egli è amorevolissimo, e ben ve lo narra quel gran borsone di doble, che avete fatto traboccante.
Alberto.
Messer Caino? Alfine, è bene avere amici. Se voi non eravate amico d’Alberto, non empievate del più nobile metallo quel bel borsellone, o come pesa!
Caino.
Per voi, signor Alberto, ho questo bene per voi. Mirate qua, coteste quattro sacca piene piene si sono convertite in questo borsellotto solo!
Alberto.
Così fanno i buoni distillatori, da un fascio di robba ne traggono una sola stilla preziosa. Or sù, andate alle faccende, Caino.
Caino.
Vostro, signor Alberto; voglio andare or ora a cercar tra certe mie belle cosette, per fare un regalo alla vostra signora figliola.
Alberto.
D’un arbore feconda, caro è altrui di godere la fronda, il fiore, il frutto; sì che porti Caino o poco, o assai, che dalla sua mano venendo non potrà se non esser gratissimo, anzi che appresso di noi convertirassi la fronda in fiore, il ramo in frutto.
Caino.
Di questa lode godo più che di questo borsone d’oro.
Facchino
È bene un porco, chi te lo crede.
Caino.
Addio.
Alberto.
Andate felice e siate di presto ritorno, né già questo dico perché avaro io sia, e se pure avaro, avaro di rivedervi. Appunto, amata figliola, solo spirito di questo cuore, solo cuore di questo petto, e solo occhio di questa fronte, io bramava lontano da ogni altro orecchio raggionarti. Dimmi, non ti par egli tempo oggi mai d’essere fatta la sposa?
Prudenza.
Certo, signor padre.
Alberto.
No no, non parlare co ’l dimenarti, ma con la lingua; non lo tacere, ché il tutto al medico e al padre dir si debbe, non l’averesti caro?
Prudenza.
Signor sì io.
Alberto.
E in particolare poi, quando io t’avessi proveduto d’un ricco signore, non è così?
Prudenza.
Oh cuore, che mi predici di male? Certo, che vuol egli parlarmi di questo principe.
Alberto.
No no, non parlar da te, parla pur meco; dillo a chi più d’ogn’altro al tuo bene aspira.
Prudenza.
Dirolli, padre e mio signore. Quando pur maritar mi dovessi, tôrrei più tosto un giovine dotto, e con poca robba, che un ricco molto di dinari, e povero di sapere.
Affé, s’egli parla del prencipe, e io parlerò di Orazio.
Alberto.
Piacemi questa grave risposta in non grave età, da quella iscorgendosi che tu leggendo hai immitato nelle virtù tuo padre. Ma sappi, amata figliola, che interogato Simonide poeta che cosa egli volesse più tosto, ricchezza o sapienza, rispose: «Io non lo so certamente, ma veggio i savi sempre appo le porte de’ ricchi».
Prudenza.
Non so io. Anacreonte pure, avendo avuto in dono da Olicrate cinque talenti, ed essendo stato senza dormire due notti cogitabondo di che far ne dovesse, riportò i cinque talenti, dicendo: «Prendi, signore, ché non sono questi dinari di così gran pregio, ch’io debba essere per colpa d’essi molestato nella mente e ne gli occhi». E se i virtuosi stanno alle porte de’ ricchi, non istanno per entrare, ma per uscire, poi che Diogine disse la virtù non potere abitare in case ricche.
Alberto.
Figliola, chètati. I danari tra’ mortali sono sangue e anima; e chi non ne ha, morto tra i vivi camina. Odi Euripide, quando parlando con suo padre dice: «Deh, per Dio, non mi parlate di nobiltà, perché certo cotesta è posta nelle ricchezze, lasciatemi l’oro in casa, e di servo incontanente diverrò nobile».
Prudenza.
Signor padre, crediatemi, che la vita del ricco è misera, e le troppe ricchezze sono come i timoni delle gran navi poste alle picciole barche, i quali non le possono governare; sì che le ricchezze più tosto ruvinano, che aiutino. Guardi una pianta che, per esser troppo carica e ricca di frutti, per la troppa fertilità piegando i rami a terra tutta s’incurva, e spezza.
Alberto.
Or sù, terminiamoli. Io non so come la ricchezza ruvini, pare a me che un ruvinato sollevi; e che i dinari trovino amici infiniti, e sedie appresso gl’istessi regi. Né più qui facciamo il buon pedagogo e tu la buona discepola.
Prudenza.
Di grazia, dunque, veniamo alla cagione principale, che ci ha fatto movere questo ragionamento. Qual’è? E a che fine fu detto di sposo meco?
Alberto.
Già ti dissi, che era per maritarti; e perché più facilmente ti disponessi a giovare a te stessa e a me dar gusto, ti lodai la ricchezza, per dirti poi che ’l tuo consorte è ’l più ricco che sia in questa città. E sai chi è?
Prudenza.
Certo no signore.
Lassa, ben lo indovina il cuore.
Alberto.
Questi è quel principe, ch’è in casa nostra. Or non ti pare che la fortuna ti sia favorevole?
Prudenza.
Certo sì signore, ma allora si debbe temer la fortuna, ch’ella ci mostra giocondo il volto.
Alberto.
Sua ventura ha ciascun dal dì che nasce, disse colui, e fortunatissima chi sua fortuna conosce.
Prudenza.
S’arricordi, o caro padre, che quel savio Apelle, pittore ateniese, essendo interrogato per qual cagione aveva dipinta la fortuna in piedi, che egli rispose: «Perché ella non sa sedere». Non si fidi della fortuna e credami che perde il cervello chi troppo è dalla fortuna accarezzato; e più saper conviene ch’ella è detta rea, superba, temeraria e audace.
Alberto.
Tutto bene, per uno che voglia dir male della fortuna. Ma Curzio istorico, che ne vuol dir bene, disse: «Chi rifiuta la sua fortuna è degno d’ogni male». Sì che acquètati, né parlar più, ché dove tu cerchi di dimostrarti virtuosa, tu non fossi reputata baldanzosa; e sappi che la natura due orecchie ne dette e una sola lingua, perché più dovessimo udire che parlare.
Prudenza.
Padre, m’acqueto.
Alberto.
Ma ecco appunto i paggi, e altri superbamente vestiti. A questi abbagliamenti d’oro, o come tutto mi consolo.