Mastro Titta, il boia di Roma/Capitolo LXXVII

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Capitolo settantasettesimo - La confessione e la punizione

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Capitolo settantasettesimo - La confessione e la punizione
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Uscendo dalla casa dell’amante, Geltrude incontrò una vettura, chiamato il cocchiere, si fece caricar su le due valigie e gli ordinò di condurla da Monsignor Fiscale. Era estremamente pallida, aveva i capelli irti sulla fronte, gli occhi infossati, le labbra tremanti: aveva la febbre. Ma la fresca aura del mattino la calmò e giunse innanzi a monsignore in condizioni di poter essere ricevuta senza allarmare gli usceri e le guardie. Il severo magistrato non appena la vide, sempre bella, anzi resa forse più attraente dal pallore del volto e dalla fisionomia accasciata, sorse, e le mosse cortesemente incontro, e la invitò a sedere nella miglior poltrona del suo gabinetto: quindi passatole a lato un’altra scranna, come avrebbe potuto fare con una signora di qualità, le domandò:

- Che posso fare per voi? Assicuratevi anticipatamente di tutta la mia deferenza.

Geltrude mandò un profondo sospiro.

- Qualche segreto affanno, certamente vi conduce - Apritevi liberamente con me. Nell’esercizio delle mie funzioni io sono una tomba vivente e queste pareti non hanno né occhi, né orecchie continuò il fiscale.

- Ho una terribile rivelazione a farle, monsignore, mormorò Geltrude fissandolo negli occhi.

- V’ascolto e sarò felice di potervi giovare.

- Per me non v’ha lenimento possibile, malgrado la vostra buona volontà.

- Siete sotto un’impressione sinistra, tranquillizzatevi: c’è rimedio per tutto, fuorché per la morte.

- Monsignore l’ha detto.

- Una grande sventura vi ha colpita; dunque? Siete forse vittima.....

- Sì, vittima di una passione terribile, funesta, che mi ha tratto al delitto.

- Al delitto? - domandò lentamente il fiscale, levandosi gli occhiali, ripulendone le lenti, e figgendo poi acutamente lo sguardo negli occhi di Geltrude.

- Sì, monsignore, al delitto.

- Una schietta confessione, diminuisce la gravità della pena e vi accaparra la grazia divina. Spiegatevi.

- Ho ucciso mio marito.

- Per gelosia forse?

- No, per amore.

- D’un altro?

- Per l’appunto.

- Complice quest’altro?

- Ignaro di tutto.

- Si può credere ad una donna, innamorata al punto di uccidere il marito...

- Per toglierlo di mezzo e sposar l’amante? Parrebbe di no. Eppure è così.

- Vedremo.

- Lo vedete fin da questo momento.

- Come?

- Egli mi ha respinta, mi ha scacciata. Forse mi denunzierà.

Giunta a questo punto Geltrude Pellegrini narrò al fiscale tutti i particolari del delitto e della scena che era seguita fra lei ed Enrico, nella casa di costui; ma non volle saperne assolutamente di declinare il suo nome o di dare qualche indagine sul suo conto. La segretezza più scrupolosa aveva sempre regnato ne’ loro rapporti e nessuna indagine avrebbe potuto scoprirlo. Ad onta della tremenda delusione patita, ad onta dell’oltraggio da lui ricevuto tale ella riteneva il disprezzo, che le aveva dimostrato, voleva risparmargli il dolore di coinvolgerlo nel processo. E fu irremovibile ed accorta.

Il colloquio fra Geltrude e il fiscale, terminò coll’arresto della colpevole e col sequestro delle due valigie, che aveva portato seco.
L’istruzione della causa durò parecchio tempo, perché il giudice inquirente volle esaurire tutte le pratiche per rintracciare l’amante e per udirlo, quantunque apparisse evidente che non poteva aver avuto complicità alcuna colla Geltrude.
Pronunziata sentenza di morte, la Pellegrini domandò i conforti religiosi e si chiarì contrita e devota, si mostrò rassegnata, ma coraggiosa e convinta d’aver meritata la pena inflittale.

La mattina del 9 gennaio 1838, in cui ebbe luogo l’esecuzione, una emozione vivissima dominava in tutti gli animi di Roma. Il processo aveva destato un interesse grande, immenso; la fama della bellezza di Geltrude v’aggiungeva esca. La folla s’addensava compatta innanzi al carcere, e per tutte le vie, donde il sinistro corteo doveva passare, e sul teatro dell’esecuzione. Le finestre delle case erano gremite di curiosi, come le strade e d’ogni parte si appuntavano sulla carretta sguardi e cannocchiali.
Giunta innanzi al palco, scese dal veicolo con fermo passo, in modesto, ma non avvilito atteggiamento. La bruna veste che aveva indosso, scendendo a larghe pieghe lungo la persona, dava risalto maggiore alle sue forme scultorie e aggiungeva una cert’aria di sentimentalità alla sua bellissima fisionomia. Era pallida, non abbattuta. Salì sicuramente i gradini del patibolo e dopo aver baciato il crocifisso, che le porgeva il confessore, mentre gli altri confortatori si ritiravano, porse il capo alla mannaia. Non appena fu caduto sotto il colpo della ghigliottina, afferrai per i capelli il capo della bellissima donna e sollevandolo lo mostrai alla folla attonita e commossa come non mi era mai accaduto di vedere.