Mastro Titta, il boia di Roma/Capitolo LXXVIII

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Capitolo settantottesimo - Le prime armi in galanteria

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Pietro Tagliacozzo di Olevano, figlio unico di un agiato proprietario, avendo perduto il padre in giovanissima età, era stato allevato dalla madre, la quale ebbe il torto di volerne fare un pezzo grosso. Prima tentò di avviarlo alla carriera ecclesiastica. Le sorrideva l’idea di diventare un giorno la madre di un vescovo, di un prelato, di un cardinale, chissà? fors’anco d’un papa. Se Sisto V aveva potuto ascendere sulla cattedra di San Pietro, dopo aver custodito i porci, perché non avrebbe potuto fare altrettanto suo figlio, che in fin de’ conti discendeva da famiglia campagnola, ma ricca e universalmente stimata? Pietro però la dissuase da questo proposito mostrandosi inclinato a tutto, fuorché a fare il pastore d’anime.

Pensò allora la buona donna di farne un grande scienziato, un medico famoso, un insigne avvocato, od un ingegnere architetto, da oscurare la fama del Bernini, che riedificò mezza l’urbs moderna e lo mandò all’università di Roma.
Pietro Tagliacozzo ne approfittò tosto per entrare in rapporti d’amicizia co’ più celebrati scavezzacolli della città eterna, coi più consumati crapuloni; e in breve tempo si acquistò fama di primo fra i primi. Conseguentemente alla Sapienza i professori lo conoscevano di nome, perché si era iscritto ai corsi, ne conoscevano anche le gesta, perché spesso se ne parlava, ma nessuno lo conosceva di persona.

Presto però i giocondi simposi, le partite di piacere ai castelli, le tropee e gli svaghi consueti gli vennero a noia. Desiderava qualche cosa di più piccante, e la trovò. Un amico, di quelli che si era fatto frequentando le sale dei bigliardi, i caffè e i ristoratori, gli propose di condurlo in una casa, ove c’erano delle leggiadre donnine allegre, dove si faceva all’amore, si cenava e si giocava; sopratutto si giocava. Pietro Tagliacozzo accettò di grand’animo e in breve diventò uno fra i più assidui frequentatori di quella casa.
Giocava e perdeva con molta distinzione, cioè senza disperarsi; giocava e vinceva con molto garbo, sciupando i quattrini delle vincite cogli amici e segnatamente colle signorine che rallegravano la casa della loro gradita presenza.

Di queste, una delle più avvenenti e distinte era Lalla, una francese stabilita a Roma da poco tempo, che aveva cambiato in questo nomignolo, dirò così, di guerra, il suo nome di Mélanie. Essa aveva delle parigine la grazietta gentile, le piccole furberie, ed anche le grosse, e un’avidità insaziabile, abilmente mascherata. Aveva della romana la magnificenza delle forme, il bagliore degli occhi neri fiammeggianti e lascivi ad un tempo, i bellissimi capelli neri e l’abbandono sapiente. Accortasi delle simpatie di Pietro, Lalla, da quella calcolatrice che era, si mostrò con lui fredda e ritrosa oltre i confini del ragionevole. Cercava di evitare a bello studio i contatti da sola a sola con lui, mentre lo investiva e lo avvolgeva co’ suoi sguardi, quando si trovavano in compagnia, e non c’era pericolo, ch’egli potesse spingere i suoi attacchi oltre i limiti della convenienza. Una bella sera Pietro riuscì a trarla in un canto del salone da giuoco, nella strombatura di una finestra, coperta dai cortinaggi, e l’afferrò per le mani.

- Questa volta non mi fuggirete - le disse.

- Che volete da me?...

- Desidero una spiegazione.

- Ed è perciò che mi usate violenza?

- Lungi da me quest’idea.

- Parlate allora.

- Voi mi detestate?

- Bella pretesa.

- Come bella pretesa?

- Detestarvi sarebbe una distinzione dagli altri ed io non voglio.

- Neppure detestarmi?

- No. Si comincia col detestare e si finisce coll’amare.

- Detestatemi allora, ve ne scongiuro.

- Per far capo all’altro termine.

- All’amore.

- All’amore? È precisamente ciò che non voglio.

- La vostra virtù è dunque incrollabile.

- Credete voi a quella goffaggine che si chiama la virtù?

- La domanda è imbarazzante. Lasciate che io ci pensi. Vi risponderò questa sera, dopo cena se vi degnate di cenare con me.

- Dove? qui?

- No: da Lepri.

- E sia.

Due ore dopo Lalla e Pietro Tagliacozzo cenavano in un elegante salottino del celebre ristorante romano e i suoi intingoli facevano prodigi.
Smessa la selvatichezza fino allora con arte soprana adoperata per meglio invischiare il merlotto, Lalla era diventata dolce, chiacchierina, espansiva. Pietro era raggiante di felicità, ma di una felicità relativa. Improvvisamente l’affascinante fanciulla passò un braccio intorno alla vita del poco studioso studente e accostando il proprio viso al viso di lui, quasi esortando a baciarla, gli domandò:

- Mi sei debitore di una risposta: credi dunque alla virtù?

Pietro le cinse il collo col braccio sinistro e attraendola dolcemente a sé incollò le labbra ardenti sulle labbra di lei, non meno frementi di voluttà. E fu un bacio lungo, intenso, ineffabile, nel quale pareva che le anime di quelle due giovani persone volessero fondersi in una.