Mastro Titta, il boia di Roma/Capitolo XCVI

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Capitolo novantaseiesimo - Mutue confidenze ed espansioni

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Arturo non si era recato a Corneto per affari, ma solamente chiamatovi dalla notizia del matrimonio di Geltrude e non aveva quindi con sé che una piccola valigia di oggetti personali. La vecchia sorda non fu sorpresa della sua insalutata scomparsa. Le dolse di non ricevere alla scadenza, come di consueto, il prezzo della pigione, e di non più vederlo, ma non ne parlò ad alcuno. Il mare, inghiottita la sua preda, l’aveva trasportata chissà dove, nessuna traccia era quindi rimasta del delitto, il quale rimase occulto, permettendo così al Finocchi ed a Geltrude di godere le delizie di una luna di miele, rosseggiante di sangue, ma non meno gustosa.

È un fenomeno avvertito da molti fisiologi, che il sangue versato per causa d’amore accresce la passione e il diletto fra i complici. Quella geniale, soave creatura di Geltrude, aveva preso ad amare freneticamente il rozzo marito, vedendolo compiere per causa sua l’assassinio del giovane che l’aveva sedotta. Dal canto suo Luigi Finocchi era così soddisfatto della sua vendetta e delle ebbrezze ritratte dal matrimonio, che sarebbe tornato da capo se l’occasione gli si fosse presentata.

- Mi ami? - diceva spesso alla sua donna nel delirio degli amplessi.

- Io ti adoro. Per possederti mi par poco di avere ucciso un uomo.

- Lasciamo questi ricordi - rispondeva flebilmente Geltrude, senza esprimere veruna ripugnanza, anzi ricostruendo nella mente il tremendo dramma al quale aveva assistito e cooperato e ritraendo nuovo eccitamento ai sensi, da siffatta ricostruzione.

- Ti fanno male? A me no - ripigliava Luigi - Rammentando, gioisco viemmaggiormente.

- Pur io.

- Se qualcuno tentasse di toglierti a me, mi sentirei capace di qualunque strage, di tutto, fuorché di lasciarti.

Questi morbosi eccitamenti e queste ripetute dichiarazioni del marito, finirono col ridestare l’umor capriccioso della moglie e col farle nascere il desiderio acre di voluttà nuove e peccaminose. Quantunque fino a quel momento la sua condotta coniugale fosse stata irreprensibile, ed avesse fatto dimenticare la mobilità del suo carattere di zitella, non mancavano di svolazzarle intorno dei calabroni, che avrebbero voluto suggere dalle sue roride labbra il miele de’ baci. Ma Geltrude opponeva loro la più estrema indifferenza.

Luigi Finocchi aveva da qualche tempo dei rapporti misteriosi col di fuori.
Un’insurrezione era scoppiata in Sicilia. Garibaldi, partito da Genova con mille volontari, aveva operato uno sbarco in Sicilia, una quantità di insorti unitisi a lui, e date battaglie sanguinose ai soldati del Borbone, si erano impossessati di tutta l’isola, abbattendovi il legittimo governo. La rivoluzione tendeva ad estendersi e cercava aderenti anche negli Stati di Sua Santità, per mezzo di emissari che spandevano denari a piene mani. L’avidità di Finocchi, cresciuta per le ingenti spese, che gli cagionava la moglie, ne fu sedotto: egli si gettò a corpo perduto nella cospirazione.

Pareva che si volesse operare uno sbarco sulla costa pontificia del Tirreno e a questo intento lavoravano Finocchi e i suoi nuovi amici. Le sue assenze da casa erano frequenti, tanto la notte che il giorno, e talvolta si prolungavano perfino di una settimana. Diceva che andava a Grosseto, nello Stato del granduca di Toscana, cacciato anche lui dal trono l’anno antecedente. E realmente vi si recava, ma sempre con segreti scopi politici.

Una notte ritornò a casa in compagnia di un giovanotto. I famigli erano già coricati e Giggi chiamò Geltrude, già ritirata nella sua camera da letto, ma tuttora in piedi, perché preparasse qualche cosa da mangiare per lui e per l’incognito suo compagno.

- Vuoi che svegli la fantesca?

- No: il forestiero non deve essere veduto da nessuno.

- Io non vi posso servire che della roba fredda.

- Non importa. Basterà la tua presenza a rallegrare il mio compagno e i cibi offertigli da te gli parranno più saporiti.

Sorrise la donna del complimento di suo marito e discese nel tinello, ove l’incognito s’era fermato. Giggi le aveva già parlato delle sue imprese e de’ suoi cooperatori. Credeva quindi d’avervi a trovare innanzi un brigante barbuto, col cappello a pan di zucchero, i calzoni di pelle di capra e le ciocie ai piedi. Fu quindi assai meravigliata di vedere invece un gentiluomo elegante e gentile, che non appena la scorse si alzò, le mosse incontro, e le disse:

- Sono desolato, signora, di recarvi disturbo: non avrei acconsentito a farlo, senza la cortese insistenza del mio amico Luigi.

- Gli amici di mio marito - rispose Geltrude gratamente sorpresa e desiderosa di mostrarsi non meno gentile e finamente educata - sono sempre benvenuti, e la nostra povera casa è a loro disposizione.

- Così parlano le leggiadre donne d’Italia - esclamò con enfasi il forestiero e aggiunse con un piglio mezzo da predicatore e mezzo da apostolo:

- Quando avremo liberata la Patria dalle Alpi al mare, distrutte le tirannidi e abbattuto il governo de’ preti, sarà ambito premio per quelli che non avranno lasciata la vita nell’ardua impresa, d’aver il guiderdone dalle loro belle mani. Le Clelie, le Virginie, le Cornelie di Roma insegneranno ai nostri figli la via del sacrifizio e della gloria.

Questo linguaggio che avrebbe forse fatto sorridere un’altra donna, impressionò Geltrude, sempre inclinata per lo straordinario ed il trascendentale. Si inchinò sorridendo, senza rispondere per tema di non sapersi mostrare all’altezza del suo interlocutore e andò in cucina a preparare la cena.