Mastro Titta, il boia di Roma/Capitolo XXXI

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Capitolo trentunesimo - La seduzione

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Virginia Perelli era una bellissima ragazza di Trastevere sulla quale s’erano indarno fermati gli occhi cupidi di tutti i giovani del rione, perché quanto bella era virtuosa ed onesta. Orfana di padre e di madre, abitava col fratello Francesco in una casuccia in via Vascellari. Occupavano una camera a terreno che serviva da cucina e due camerette superiori, alle quali si accedeva per una scaletta di legno, interna: nella prima dormiva Francesco, nell’altra Virginia.

Il fratello lavorava un po’ di falegname, un po’ di calafato a San Francesco a Ripa e, abile com’era, guadagnava discretamente. La sorella era una bravissima restauratrice di pizzi e merletti antichi, e i lavori di maggior importanza e di maggior difficoltà, venivano dai negozianti di piazza di Spagna mandati a lei e veniva ben pagata. Nella casa vivevano quindi in una discreta agiatezza; la camera di Virginia era civettuola, quella di Francesco linda. La fanciulla aveva un bel vezzo di corallo, delle scioccaie d’oro guarnite di perle come una sposa e tanti altri gioielli d’oro. Vestiva con semplicità elegante, da minente s’intende, ma senza sfarzi, chiarendo così la squisitezza del suo gusto. Quando la festa usciva col suo abito color di rosa, che gli disegnava la vita snella e dava risalto alle sporgenze esuberanti del seno e delle anche, collo scialle nero buttato incuratamente sulle spalle, fatte più ampie dai rigonfi delle mammelle, cogli scarpini scollati e le fettuccie incrociate sul collo del piede piccolo e arcuato, avente di sotto la gonna breve, guarnita di un piccolo falbalà, destava l’ammirazione universale. Le fanciulle e le mamme ne erano invidiose, i giovani innamorati. E questi si davano convegno alla chiesa di Santa Cecilia, dove soleva recarsi ad ascoltare la messa. Né trascuravano di passare innanzi al portoncino della sua casa, ove ne’ giorni feriali soleva trattenersi a lavorare, come le altre donne e ragazze della via, per meglio godere l’aria e la luce.

Sull’imbrunire di una calda ed afosa giornata estiva, Virginia rimarcò un giovanotto, dall’ardito portamento che passava e ripassava per via de’ Vascellari, guardandola e riguardandola fissamente, e con aperta intenzione di richiamare la sua attenzione. La sua persona alta e slanciata, il suo bel viso ovale e bruno pallido, sul quale spiccavano maggiormente il nero della barba morbida e gentile, e sopratutto il suo occhio a volta languido a volta fiammeggiante, non parevano nuovi alla Virginia. Le sembrava di averli veduti altrove; ma i ricordi le si confondevano nella memoria. La fanciulla soleva in quell’ora andare incontro al fratello verso San Francesco a Ripa, da dove poi si recavano in qualcuna di quelle osterie adiacenti a fare un po’ di cena ed a godersi il fresco. Quella sera esitava. Aveva paura che il giovane imprudente la seguisse. Ma alla finfine si decise: si buttò sulle spalle lo scialletto nero, ed uscì chiudendo la porta dietro di sé. Si guardò intorno un momento e non vedendo il giovane, come temeva, svoltò il vicolo de’ Salumi, affrettando il passo. Ma non appena giunta a piazza Romana se lo vide venire innanzi. Ne provò un certo sgomento non disgiunto da un’ombra di piacere, un’ombra.

- Perdonate Virgina, le disse il giovane con fare sciolto, se vi fermo per la strada. Ma ho bisogno di parlarvi.

- Non vi conosco - mormorò arrossendo la fanciulla.

- Appunto perciò: se non vi parlassi non mi conoscereste mai.

- Che avete a dirmi? Parlate, sto ad ascoltarvi. Ma spicciatevi, perché mio fratello mi aspetta.

- Il luogo non mi pare molto acconcio. Ma poiché lo volete sia così. Se permettete vi accompagnerò per un pezzetto di strada.

- No, no, io vado sempre sola.

- Né io intendo distogliervi dalle vostre abitudini. Ma per questa volta concedetemelo. In seguito poi combineremo diversamente.

- In seguito? - domandò Virginia trepidante, avviandosi col bel giovane allato.

- Sì, in seguito, Perché il nostro colloquio non sarà che il primo.

- Spiegatevi meglio.

- Nulla di più facile. Io vi amo, Virginia, e dovete esser mia.

- Ma io non voglio lasciar solo mio fratello, che mi ha levata sin da bambina, quando morirono il babbo e la mamma.

- Non c’è bisogno di lasciarlo, almeno per il momento. D’altronde chi vi dice che egli pure non si sacrifichi condannandosi al celibato per non lasciarvi? È un giovanotto e un amore l’avrà anche lui.

Questa riflessione che la fanciulla non aveva mai fatto, la scosse profondamente. Ella comprese subito la ragionevolezza della cosa e pensò: Perché non potremmo maritarci entrambi: la famiglia è dopo tutto lo scopo della vita. Da quel momento non fu più spiacente dell’incontro col giovinotto e gli prestò più facile orecchio.

- Se credete ne parlerò subito a vostro fratello.

- No, subito no. Lasciate che ci pensi io. Non avete fretta, suppongo? gli domandò piegando la vezzosa testolina sulle spalle e guardandolo con simpatia.

- Si ha sempre fretta, quando si tratta di farsi amare da una bella fanciulla, come voi, Virginia.

- Chi vi ha detto il mio nome?

- Lo so da un mese.

- Da un mese?

- Dal primo giorno che vi ho veduta, io ho deciso di farvi mia.

- Deciso? Siete molto sbrigativo. E il mio consenso?

- Sono qui per domandarvelo. Perché domandarvelo? Non me l’hanno già detto i tuoi occhi, che un po’ di bene me lo vuoi pur tu?

- I miei occhi o non hanno detto nulla, o hanno detto bugia.

- Non lo credo. Sono incapaci. Tu non sei civettuola. Non hai mai avuto amanti. Ed è per me che il tuo cuore palpiterà per la prima volta.

- Ih! Ih! Come correte! Chi vi ha detto tutte queste belle cose?

- Lo so, e questo ti provi, come prima di abbandonarmi alla passione che mi hai inspirato, ho voluto assicurarmi che ne eri degna.

- Lasciamoci. Non vorrei che incontrassi mio fratello, mormorò la fanciulla, la quale incominciava a sentirsi meno forte di sé e aveva paura di lasciarsi sfuggire una confessione della quale non v’era d’uopo, perché il giovane aveva capito benissimo l’affetto che la sua persona, le sue parole avevano prodotto sull’animo ingenuo di Virginia.

- Come vuoi. Quando ci rivedremo?

- Quando vorrete..., balbettò arrossendo la fanciulla.

- Domani.

- All’ora ed al luogo stesso. Addio... Come vi chiamate?

- Enrico.

- Enrico? Un bel nome!

- Ti piace? Ebbene, allora dimmi: "Arrivederci Enrico mio." e dammi la mano.

- Mio? Sarà poi vero?

- Te lo giuro.

Si scambiarono una stretta e per quella sera si lasciarono.