Medea (Euripide - Romagnoli)/Parodo

Da Wikisource.
Parodo

../Prologo ../Primo episodio IncludiIntestazione 6 febbraio 2022 100% Da definire

Euripide - Medea (431 a.C.)
Traduzione dal greco di Ettore Romagnoli (1928)
Parodo
Prologo Primo episodio
[p. 26 modifica]

Si avanza il coro, composto di donne corinzie.

coro

Preludio
Della misera donna di Colco
udito ho la voce, le grida,
ché ancor non si placa. Su, vecchia, tu parla:
ché un ululo dentro al palagio
udii dalla gemina porta.
Né, donna, m’allegro pei guai della casa,
che cara è per me divenuta.

nutrice

Piú non è questa casa: è finita:
ché letti di principi accolgono
Giasone; e si strugge nel talamo
la nostra signora; né v’ha
parola d’amico che possa
molcirne lo spirito.

medea

Ahimè!
Sul mio capo la fiamma celeste
piombasse! A che viver mi giova?

[p. 27 modifica]

Ahi, ahi, nella morte disciogliermi
potessi, lasciare
la vita odïosa!

coro

Strofe
O Giove, o Terra, o Luce, udiste i gemiti
che intona questa misera?
Qual brama hai tu dell’ultimo
sonno? A che affretti il termine di morte?
Il voto, oh! non esprimerne.
Se vago il tuo consorte
è di novello talamo,
non esser tu soverchiamente acerba.
Non ti strugger, non sia troppo il rammarico
per lui: ché Giove a te vendetta serba.

medea

O tu, Giove santissimo, o Tèmide
veneranda, le mie sofferenze
vedete, da poi che lo sposo
maledetto, con gran giuramenti
a me strinsi! Deh, possa io vederlo
con la sposa, con tutta la casa
stritolato! Ché primi d’obbrobrio
mi copersero. O padre, o città
donde mossi raminga, poi ch’ebbi
turpemente trafitto il germano1!

[p. 28 modifica]

nutrice

Non, udite che dice, che grida
leva a Tèmi, patrona dei supplici,
ed a Giove, dei giuri custode
pei mortali? Che plachi il suo sdegno
la signora per piccol conforto
possibil non è.

coro

Antistrofe
Essere non potrà che a noi la misera
venga, ed ascolti il sònito
dei miei detti, e dall’impeto
del cuore, e dalla grave ira s’affranchi?
La cura mia sollecita
agli amici, oh, non manchi.
Or tu muovi, e conducila
qui, pria che in casa faccia un qualche danno.
Annuncia a lei che amiche qui l’attendono:
ché qui prorompe luttuoso affanno.

nutrice

Lo farò; non credo io che convincere
la signora potrò; ma la grazia
pur vo’ darvi di questo mio sforzo.
Sebbene, essa lo sguardo sí fiero
sui famigli rivolge, che sembra,
quando alcuno a parlarle si appressa,
lionessa che guardi i suoi cuccioli.

[p. 29 modifica]

Se dicessi che sciocchi, che in nulla
sapïenti fûr gli uomini antichi,
non diresti menzogna: ché cantici
per conviti, per feste e per cene
ritrovâr, pei sonori sollazzi
della vita; e nessuno trovò
come i tristi cordogli degli uomini
con la musa e i multísoni canti
mitigare potesse; e di qui,
stragi e orrende sventure devastano
le magioni. Eppur, questo sarebbe
gran vantaggio, i mortali coi cantici
risanare. Ma dove son lauti
banchetti, levare le voci
perché, se il piacer della mensa
procura, nell’ora fuggevole,
da sé stesso, delizia ai mortali?

coro

Epodo
Udii di flebili gemiti il grido.
Con urli acuti, penosi, i triboli
geme, e al suo talamo lo sposo infido;
e, soverchiata, s’appella a Tèmide,
ch’è, presso a Giove, vindice ai giuri.
Essa, alle opposte spiagge de l’Ellade,
lei, per lo stretto del mare impervio,
spinse, sui tramiti del mare oscuri.

Note

  1. [p. 334 modifica]Il germano è Absinto, fratello minore di Medea, da lei barbaramente ucciso, tagliato a pezzi e gettato in mare, per scampare dall’inseguimento del padre.