Memorie di Carlo Goldoni/Parte terza/IX

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Carlo Goldoni - Memorie (1787)
Traduzione dal francese di Francesco Costero (1888)
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CAPITOLO IX.

Viaggio di Fontainebleau. — Alcune parole sopra questo castello e la città. — Morte del Delfino. — Il duca di Berry prende il titolo di Delfino. — Mio ritorno a Versailles. — Cattivo complimento al mio arrivo. — Morte della Delfina, del re di Polonia, e della regina di Francia sua figlia. — Mia situazione dolorosa. — Regalo delle principesse. — Mio collocamento fisso. — Opinione dei Parigini su Versailles.

Appena ritornata la corte a Versailles, si cominciava a parlare del viaggio di Fontainebleau; era fissato per il 4 d’ottobre, ma lo stato di salute del Delfino lo rendeva incerto. Questo principe, amabile e buono, vedeva con rammarico che il re si privasse di un sollievo, e che gli abitanti di Fontainebleau perdessero quei vantaggi che la presenza della corte ed il concorso de’ forestieri potevano loro procurare: però, quantunque malato, e sottoposto a mille incomodi com’era, ogni qualvolta trattavasi di Fontainebleau, faceva ogni sforzo per stare allegro, e fingere di sentirsi bene. Io però non mi lasciava sedurre da tale apparenza, e molti la pensavano come me: frattanto fu deciso ed effettuato il viaggio. Sarebbe ingiusto e irragionevole il credere che il re e la famiglia reale fossero meno preoccupati degli altri per la salute e tranquillità di questo principe, che faceva la loro felicità; bensì è troppo naturale in tutti quelli che sono più affezionati alla conservazione d’un individuo, veder meno d’ogni altro i pericoli, e credere di contribuire alla salute del malato colla mutazione dell’aria e coi divertimenti. Partimmo adunque per quell’ameno castello al principio d’ottobre, e riuscì per qualche giorno piacevolissimo questo viaggio, sia per la [p. 288 modifica] situazione del paese, come per le delizie che vi si trovano. Vi si rappresentavano anche per turno gli spettacoli di Parigi, ed ogni autore preferiva di espor qui le sue nuove produzioni. In somma vi era spettacolo quattro volte la settimana; e vi si aveva ingresso con biglietti, che venivan dispensati dal capitano delle guardie d’ispezione. Mi presento un giorno con uno di questi biglietti alla porta d’ingresso, che non era ancora aperta, ed essendo de’ primi, speravo d’entrarci con maggiore facilità e di poter scegliere posto a mio piacere. Ma che? non è possibile di star più stretto ed affollato di quello che io fossi all’ingresso; ed arrivato alla sala, la trovo così piena di gente, che sono obbligato a prender posto sull’ultima panca. Tutta questa gente non era tuttavia passata dalla porta ove si presentavano i biglietti. Ma io non mi curai di sapere di più; presi subito un’altra risoluzione, e me ne trovai bene. Avendo buone conoscenze nel corpo diplomatico, mi fu permesso di seguire la comitiva dei ministri esteri, onde ero benissimo collocato, e vidi lo spettacolo col maggior agio. Il cavalier Gradenigo, ambasciatore di Venezia, avendo sempre riguardi verso di me, mi procurò in quest’occasione l’onore di conoscere il signor Estevenon di Berkenrod, ambasciatore di Olanda, da cui venni in sèguito onorato sempre della sua protezione; ed era in questo rispettabile corpo, ch’io passava gradevolmente una buona parte del mio tempo. Eccoci pertanto nel giubilo, nei piaceri, nei divertimenti; ma tutto cangiò aspetto alla metà della villeggiatura. Non era possibile che il Delfino sostenesse più a lungo con indifferenza l’interno fuoco che lo consumava: divenuto inutile il coraggio, le forze lo abbandonarono, ed eccolo prostrato in letto. Si fa generale la costernazione; la malattia s’inoltra spaventevolmente: la medicina non ha più compensi: onde si ricorre alle preghiere. Monsignore di Luynes, arcivescovo di Sens ed ora cardinale, recavasi ogni giorno processionalmente, seguito da infinito popolo, alla cappella della Madonna posta in fondo della città, ove fecesi voto di erigervi un tempio, quando per intercessione della Madre d’iddio fosse stata restituita la salute al moribondo principe; ma già era scritto negli eterni decreti della Provvidenza, che egli non dovesse compiere il corso naturale della vita, e morì a Fontainebleau verso la fine di dicembre. Ero al castello in un momento così fatale; e siccome la perdita era grande, generale fu la desolazione. Alcuni momenti dopo sento gridare per tutto l’appartamento: Monsieur le dauphin, messieurs; a questa voce rimango muto, non so che cosa sia, nè dove io mi sia. Era questi il duca di Berry, figlio maggiore del defunto, che, divenuto erede presuntivo della corona, asperso di pianto, veniva a consolare con la sua presenza l’afflitto popolo. Questa villeggiatura, che doveva aver fine alla metà di novembre, era stata prolungata fino al termine dell’anno. Tutti bensì erano impazienti di partire, come me: cedetti per altro il luogo a quelli il cui servizio era più necessario, e partii degli ultimi.

L’annata era pessima; la molta neve caduta ed il ghiaccio delle strade non permettevano a’ cavalli di reggersi in piedi; fui dunque obbligato ad impiegare due giorni ed una notte per far questa gita, che può compiersi in sette ore di tempo. Giunto a Versailles, ricevo subito la visita di un domestico del castellano, il quale da parte del suo padrone mi domanda la chiave del mio appartamento. Passato all’altra vita il Delfino, veniva soppresso il posto del chirurgo ostetrico della principessa Delfina; e la medesima non aveva più diritto di disporne, nè io di goderne, essendo stato quell’alloggio, per quel [p. 289 modifica] che appariva, destinato a qualche persona di maggior considerazione di me. Credetti bene di non dover stare a far discorsi con l’uomo che mi fece una simile proposta; dimodochè lo rimandai, dicendogli che avevo bisogno di riposare. Nel corso della notte feci bensì le mie considerazioni, e decisi, che, nelle condizioni nelle quali trovavasi in quel tempo la corte, non era certamente convenienza che io facessi lagnanze, o domandassi di nuovo protezione. Presi dunque a pigione un appartamento in città e restituii la chiave dell’alloggio. Frattanto non si discorreva più dalle principesse di lingua italiana; contuttociò io non ardivo allontanarmi da Versailles. In questo stato di cose sempre più andavan male le mie finanze; avevo ricevuto una gratificazione di cento luigi imposta sul tesoro reale, ma per una sol volta; mi trovavo pertanto in bisogno di tutto, e non osavo domandar cosa alcuna.

Avevo occasione di vedere di tanto in tanto le auguste mie scolare, le quali continuavano sempre a vedermi con la solita bontà; ma non essendo io più occupato con loro, non sapevo che espediente prendere per far loro comprendere il mio stato, tanto più che le medesime erano troppo afflitte per darsi pensiero di me. Con estrema lentezza arrivavano i miei assegnamenti d’Italia; il mio amico Sciugliaga mi anticipò cento zecchini, con l’aiuto dei quali stavo pazientemente attendendo che il torbido della tempesta desse luogo alla serenità. Ma la tristezza progredì anche più oltre, e le disgrazie successero l’una dopo l’altra. La Delfina rimase vittima del suo dolore, e le fu data sepoltura nella tomba medesima del consorte. La morte del re di Polonia, padre della regina di Francia, avvenne poco tempo dopo; e quella dell’augusta sua figlia mise il colmo alla pubblica afflizione. In tali condizioni era egli possibile che io mi potessi appressare alle principesse, per far loro parola di me? e poi, quando anche avessi potuto, non avrei mai osato. Troppo era il rispetto con cui riguardavo il loro dolore; ma troppo grande era nel tempo stesso la fiducia che avevo nella loro bontà per soffrir tutto in silenzio. Sapevo perciò misurare i miei desiderii alle forze; di maniera che, eccettuati i cento zecchini, de’ quali andavo debitore ad un amico, null’altro dovevo a chicchessia. Finalmente cominciarono a dissiparsi le folte nubi; erano cessati i lutti, e la corte andava a poco a poco riprendendo la perduta serenità. Le principesse ebbero la bontà di farmi chiamare, e di regalarmi cento luigi in una scatoletta d’oro cesellata, e in quell’occasione si trattò di procurarmi uno stato. Elleno stesse chiesero per me il titolo e gli emolumenti di precettore di lingua italiana dei principi di Francia. Il ministro di Parigi e della corte fece alcune difficoltà, dicendo che questo sarebbe creare un nuovo impiego in corte e un nuovo aggravio allo Stato. In tale condizione, quantunque io avessi potuto chieder molte cose, non ostante non ne domandai alcuna, e continuai a servire, ad aspettare, a sperare. Finalmente, al termine di tre anni, le auguste mie protettrici mi procurarono un annuo assegnamento. Elleno stesse mandarono a chiamare il ministro. Non si tratta, gli dissero, di creare un nuovo impiego per una persona che debba prestar servizio, ma si tratta di ricompensare chi ha servito. Dopo il qual discorso fecero la domanda di sei mila franchi annui per me. Parve troppo al ministro; e, son persuaso, egli disse, che il signor Goldoni sarà contento di quattromila franchi di stipendio. Le principesse lo presero in parola, e restò nell’atto conclusa la cosa. Contento della mia sorte, andai subito a ringraziare le principesse, che trovai più contente anche di me. Ebbero esse la bontà [p. 290 modifica] di assicurarmi che in una maniera o nell’altra avrei avuto un giorno per scolari anche i loro nipoti, e che l’assegnamento che avevo ottenuto, altro non era che il principio delle beneficenze, che speravano farmi godere a suo tempo. Laonde, se non ho poi approfittato di questo favore, mia unicamente è la colpa e torno a ripetere che non ho saputo mai fare da cortigiano, sebbene fossi in corte. La prima volta che mi fu pagata la provvisione, mi furono dati al tesoro reale tremila seicento franchi soltanto, venendone ritenuti quattrocento per il ventesimo. Se avessi fatto qualche parola, sarei forse stato nel caso di godere l’esenzione di tale imposta; ma siccome stetti zitto, sono perciò rimasto lì, e poi sempre lì. È vero che il mio stato non era magnifico; ma bisogna esser giusti: che cosa avevo io mai fatto per meritarlo? Lasciai l’Italia per venirmene in Francia. Non convenendomi il Teatro italiano, altro non mi restava che tornarmene a casa. Ma che? io mi affeziono alla nazione francese; tre anni di un servizio dolce, decoroso, piacevole mi procurano la graziosa soddisfazione di restarvi: non doveva io dunque reputarmi felice? non doveva io esser contento? E poi le principesse medesime mi avean detto: Voi avrete per scolari i nostri nipoti. Tre erano i principi, due le principesse. Per il che, quante felici prospettive! quante ben fondate speranze! Non bastava ciò per la mia ambizione? perchè dunque avrei dovuto darmi briga per ottenere impieghi, cariche, commissioni, che per diritto convenivan più a un nazionale che a un forestiero? È stato sempre mio costume di non dimandar grazie nè per me nè per mio nipote, se non nel caso in cui potesse un Italiano esser preferibile ad un Francese. Fissato appena il mio assegnamento, cessarono le principesse di esercitarsi nella lingua italiana, e diedero ad altri studi le ore destinate alla lezione. Per tal ragione divenuto libero di andare dovunque, avevo desiderio di ristabilire il mio soggiorno in Parigi: ma mi divertivo troppo a Versailles; e questo appunto fu il motivo per cui mi vi trattenni ancora per qualche tempo. È voce quasi comune in Parigi che il soggiorno di Versailles sia molto tristo, che uno vi si annoi facilmente, e che le persone che vi concorrono, non sappiano che cosa fare. In quanto a me, posso provare il contrario, tenendo per certo, che coloro che non sono contenti del loro stato, debbano annoiarsi ovunque: e che all’opposto quelli che ne sono contenti vivano bene a Versailles, quanto altrove; come pure gli altri, che non han nulla da fare, trovan quivi di che occupare le loro mattinate utilmente nel castello, negli uffizi, nel parco, incontrando dappertutto oggetti degni d’osservazione e piaceri svariati. Il tempo nel quale si cercano i divertimenti della civile società, è sempre il dopo pranzo, e si trovano nella dovuta proporzione in Versailles nel modo stesso che in Parigi. Vi sono partite di giuoco, concerti, letteratura; con questa differenza, che a Parigi non si interviene talvolta alle ricreazioni che si cercano, a motivo della distanza dei luoghi; laddove a Versailles non restano mai fuori di mano, e i poveri pedoni non sono nella dura necessità di rimanere in casa propria, ovvero fiaccarsi le ossa in una carrozza. Dicesi inoltre che le dame di corte di null’altro parlano se non delle loro principesse, e, che gl’impiegati nei diversi uffizi d’altro non ragionano che dei loro compartimenti. Tutto questo può esser benissimo, Tractant fabrilia fabri, de tauris tractat arator. Ma quanto a me: mi ci son divertito molto, e, tranne gli spettacoli che solo in Parigi sono alla perfezione, per ogni altro titolo avrei forse fissato in Versailles il mio soggiorno. Provo [p. 291 modifica] sempre rincrescimento degli amici che vi ho lasciato, che sempre amo ed amerò finche io vivo. In questa occasione avrei piacere di nominarli, per dar loro una prova della mia memoria, della mia stima e della mia riconoscenza; ma la difficoltà è, che i medesimi sono in troppo gran numero, e poi sembrerebbe anche che io volessi per vanità farmi bello di tutti questi nomi rispettabili.