Memorie storiche della città e marchesato di Ceva/Capo XVII - Altri disastri.

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Capo XVII - Altri disastri.

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Capo XVI - Innondazioni ed altri disastri. Capo XVIII - Uomini illustri.
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CAPO XVII.


Altri disastri.


Non furono le sole innondazioni che infestarono la Città di Ceva, ma andò assoggetta a ben altri non meno deplorabili disastri.

La peste del 1348, citata dal professore Andrà nelle notizie storiche di Ceva stampate in Torino nel 1796, imperversò fieramente in questa Città e nei suoi dintorni: non si sa per quanto tempo.

Il Bembo nella sua storia della Repubblica Veneta narra, che l’anno 1497 i Veneti venendo da Savona avanzatisi nelle terre del Marchesato di Ceva, i Cevesi che si fecero incontro per respingerli coll’armi, ma fu fatto di essi non poca strage, furono inseguiti sin dentro le mura, e due borghi di Ceva furono incendiati.

Ecco le sue precise parole:

«Per terra poi ritornando i fanti e gli stradiotti della repubblica da Pisa mandati, incominciarono a correre ne’ confini della terra di Ceva che è sopra Savona e nelle parti de’ francesi da signori ivi nati era posseduta. Ciò inteso quelli di Ceva commossi, con que’ fanti che vi erano, e ve ne erano molti, prese le armi ad essi corsero coi quali affrontandosi essi tutti gli fugarono, ed ucciserne molti, e dugento presi ne menarono.

[p. 87 modifica]Poscia andando più oltre incitatisi tra loro ne’ borghi della Città da due parti penetrando, fatto preda ed uccisione dall’uno e dall’altro lato vi accesero il fuoco.»

(Bembo istoria Veneta lib. 3.°)

Un’altra peste più terribile assai si fu quella che funestò si può dir tutto il Piemonte sul principio del 1600. Basti il dire che Ceva dovette soggiacere a questo tremendo flagello dal 1615, sino al 1634, la città e le circostanti campagne presero l’aspetto di un deserto, e d’un vasto cimitero. Alla costa dei Poggi si fece un testamento dagli appestati in cui si legarono molti fondi rustici per servire di stipendio ad un maestro di scuola.

Dopo la rivoluzione di Francia per la moltitudine della soldatesca che venne a stanziarsi in Ceva e nella fortezza si svegliarono mortali epidemie. Nel 1794 il numero dei decessi ascese a 286 (la media delle mortalità di Ceva calcolata su di un decennio non oltrepassa i 110), nel 1795 a 262 e nel 1800 a 614.

Nel 1835 venne Ceva funestata dal cholera morbus. Questo tremendo flagello ebbe origine dall’Indostan nel 1817. Serpeggiò per l’Europa settentrionale, si dilatò per la Francia, invase la città di Nizza e quindi Cuneo, e nel mese d’agosto dell’anno suddetto si manifestò alla filanda del signor Siccardi e ne fu prima vittima una povera donna proveniente da Cuneo. Si presero tutte le necessarie precauzioni per circoscrivere la maligna influenza di questo morbo micidiale, e per buona sorte il decesso di veri colerosi si limitò al n. di 24. La durata di quest’epidemia si restrinse a due settimane, e sarebbe stato un gran male per Ceva se si fosse protratta a più lungo tempo. Perocchè morirono di colera il padre Cappuccino inserviente del Lazzaretto nel fior dell’età, il capo infermiere, sua moglie, e sua figlia, e lo stesso becchino, il quale colpito dal morbo nello stesso cimitero mentre preparava delle fosse alle due pomeridiane del 28 agosto, morì alle 5 dello stesso giorno nel Lazzaretto.

[p. 88 modifica]La morte di queste persone fece riguardare il colera come contagioso, e diffuse un tale spavento per la città che non si poteva più aver infermieri, nè becchini, e fu un tratto singolare della Provvidenza, che sia cessato all’improvviso il morbo desolatore.

I sintomi di questa terribile epidemia, sono una forte dissenteria, un granchio dolorosissimo alle articolazioni, un respiro affannoso, un grave peso sullo stomaco, un color di piombo sulla faccia, gli occhi incavati, fissi, e circondati da un anello nerastro e dolori inesprimibili di visceri.

Questa malattia è un mistero per l’arte medica, e sino a quest’ora non si trovò ancora il rimedio per curarlo. Il vero colera asiatico in poche ore riduce all’agonìa, e si rende talvolta fulminante.

Fu Ceva funestata per la seconda volta nell’autunno del 1855, dal colera asiatico ed in due mesi 72 persone ne restarono vittima. In quest’occasione Monsignor Ghilardi Vescovo di Mondovì, reduce da altri paesi invasi dal colera nella val di Bormida, diede una commovente ed edificante prova del suo cuore caritatevole e sempre propenso a soccorrere gli infelici.

Giunto alla casa parrocchiale di Ceva già a notte avanzata dopo breve riposo, volle portarsi al Lazzaretto dei colerosi. Ne trovò uno agonizzante e volle egli stesso assisterlo al gran passaggio dandogli la benedizione papale, leggendogli il proficiscere, visitò uno per uno i colerosi, confortandoli con amorevoli esortazioni, e distribuendo loro generosa limosina. Ne abbia il degno prelato la debita riconoscenza dai coetanei e l’onorevole ricordanza dei posteri.

Chiuderemo la desolante storia di tante sciagure con quella che funestò Ceva sul tramontare del 1839.

Un lungo ed enorme bastione cingeva dalla parte d’oriente il castello Pallavicini, minacciava già da qualche tempo rovina, e per parte delle autorità locali se ne era dato avviso a chi di ragione.

[p. 89 modifica]Si fecero delle prove se si dilatassero le fessure dell’angolo d’onde si staccava dal bastione di mezzanotte, ma si andò sempre temporeggiando nel prendere efficaci provvedimenti. Verso la fine di novembre del 1839 si mise a piovere dirottamente pel corso di quattro o cinque giorni. La copia d’acque infiltratasi tra la terra ed il muro di cui si tratta, ne accelerò la rovina.

All’una e mezza del mattino del 1° dicembre s’udì un fragore spaventoso che annunziò la rovina dell’enorme muraglia, le case sottostanti furono sepolte sotto immense macerie che ingombrarono la sottoposta contrada sino all’altezza di quattro o cinque metri. Nove persone vi perdettero la vita, e l’ultimo cadavere che se ne estrasse dopo sette giorni d’indefesso lavoro fu quello d’una robusta giovine in età d’anni 23.

Si ricorda con senso di compassione la disgraziata sorte di due virtuosi coniugi, Cocca e Ferro, i quali scossi al fragor delle rovine fuggirono precipitosi dalla piccola loro casa in cui sarebbero stati salvi, e nel mentre che col lume stavano cercando in mezzo alla contrada alcune monete che loro caddero dalle mani trovarono ivi la loro tomba.

Questi sono i nomi dei nove sgraziati sepolti sotto le rovine.

Francesco Francolino da Ceva fabbro ferraio in età d’anni 33.
Maddalena Barisone, nata Piovano d’anni 52.
Cocca Gioanni Batt. da Ceva d’anni 59.
Maddalena Cocca, nata Ferro da Ceva d’anni 46.
Andrea Sismondi tessitore d’Igliano d’anni 40.
Veglia Giuseppe giornaliere da Ceva d’anni 22.
Giuseppe Rossio da Ceva d’anni 11.
Giuseppe Gazzola da Mondovì mastro da muro d’anni 28.
Cristina Tallone da Ceva d’anni 23.

Nel mentre cadevano in rovina le case oppresse dal bastione, certo Filippo Pennacino fu Clemente di Ceva, alle grida disperate d’una ragazza che stava per essere colta [p. 90 modifica]dalle macerie, corse intrepido in di lei aiuto e giunse a portarla in salvamento. Quest’azione generosa fu premiata dalla munificenza Sovrana di Carlo Alberto che il volle fregiato della croce del merito civile. Siccome era soldato, questa decorazione gli fu data in Torino, in Piazza Castello ed in presenza dell’intiero reggimento a cui apparteneva schierato in gran tenuta su quella vasta e maestosa piazza. Lo stesso coraggio, e disprezzo della morte che gli meritò questo onore fu cagione dell’immatura morte a cui egli soggiacque colpito di colera li 19 ottobre 1855.

Il suo zelo nell’assistere colerosi nel Lazzaretto e fuori lo rese vittima del terribile morbo.