Michele Strogoff/Parte Prima/Capitolo VIII. Risalendo la Kama

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Parte Prima - Capitolo VIII. Risalendo la Kama

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Jules Verne - Michele Strogoff (1876)
Traduzione dal francese di Anonimo
Parte Prima - Capitolo VIII. Risalendo la Kama
Parte Prima - Capitolo VII. Discendendo il Volga Parte Prima - Capitolo IX. In tarentass notte e giorno

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CAPITOLO VIII.

risalendo la kama.


Il domani, 18 luglio, alle sei e quaranta minuti del mattino, il Caucaso giungeva allo sbarco di Kazan, che 7 verste (7 chilometri e mezzo) separano dalla città.

Kazan è situata nel confluente del Volga e della Kazanka. È un importante capoluogo di governo e di arcivescovado greco, ed insieme una sede d’Università. La popolazione variata vi si compone di Tcheremissi, di Mordviani, di Tchuvachi, di Volsalki, di Vigulitchi, di Tartari, — questa ultima razza ha più specialmente serbato il carattere asiatico.

Benchè la città fosse abbastanza lontana dallo sbarcatojo, una gran folla si pigiava sulla ripa. Si veniva per notizie. Il governatore della provincia aveva pubblicato un decreto identico a quello del suo collega di Nijni-Novgorod. Si vedevano colà Tartari vestiti di caffetani a maniche corte, con berretti aguzzi, le cui larghe falde ricordavano quello del Pierrot tradizionale. Altri avviluppati in una lunga zimarra, colle teste coperte d’una piccola calotta, assomigliavano ad Ebrei polacchi. Alcune donne, col petto corazzato di laminette, colla testa coronata da un diadema rialzato a foggia di mezzaluna, formavano diversi crocchi nei quali si discuteva. [p. 91 modifica]

Uffiziali di polizia, misti alla folla, alcuni Cosacchi colla lancia in pugno mantenevano l’ordine e facevano far largo ai passeggieri che sbarcavano dal Caucaso ed a quelli che vi si imbarcavano, ma dopo aver minuziosamente osservato queste due categorie di viaggiatori. Erano da una parte Asiatici colpiti dal decreto d’espulsione, dall’altra alcune famiglie di mujiks che si arrestavano a Kazan.

Michele Strogoff guardava in aria indifferente quel via vai proprio d’ogni sbarco a cui si accosta un battello a vapore. Il Caucaso doveva fermarsi a Kazan un’ora, tempo necessario al rinnovamento del combustibile.

Quanto a sbarcare, Michele Strogoff non ne ebbe nemmanco l’idea. Egli non avrebbe voluto lasciar sola a bordo la giovane livoniana, che non era ancora apparsa sul ponte.

I due giornalisti, poi, si erano levati all’alba, come deve fare un cacciatore diligente. Scesero sulla riva del fiume e si cacciarono in mezzo alla folla, ciascuno dalla sua parte. Michele Strogoff vide da un lato Harry Blount col taccuino in mano, che faceva lo schizzo di qualche tipo o notava qualche osservazione; dall’altra Alcide Jolivet, il quale si accontentava di parlare, sicuro della sua memoria, incapace di nulla dimenticare.

Correva voce, su tutta la frontiera orientale della Russia, che il sollevamento e l’invasione pigliassero gravi proporzioni. Già erano difficilissime le comunicazioni fra la Siberia e l’impero. Questo, Michele Strogoff, intendeva dire dai nuovi venuti senza aver lasciato il ponte del Caucaso.

Ora tali dicerie lo inquietavano vivamente, eccitando l’imperioso suo desiderio di essere al di [p. 92 modifica]là dei monti Urali per giudicare coi proprî occhi la gravità degli avvenimenti e trovarsi in grado di provvedere ad ogni occorrenza; e stava forse per chiedere informazioni più precise a qualche indigeno di Kazan, quando la sua attenzione fu distratta improvvisamente.

Tra i viaggiatori che lasciavano il Caucaso, Michele Strogoff riconobbe allora la compagnia di zingari che la vigilia era ancora sul campo di fiera di Nijni-Novgorod. Colà, sul ponte dello steam-boat, si trovavano il vecchio zingaro e la donna che gli aveva dato della spia. Con essi e sotto la sua direzione, senza dubbio, sbarcavano una ventina di danzatrici e di cantanti dai quindici ai vent’anni, avvolte in cattive coperte che nascondevano le loro sottane a pagliuzze d’orpello.

Quelle stoffe, come punteggiate allora dai primi raggi del sole, ricordarono a Michele Strogoff il bizzarro effetto che egli aveva osservato durante la notte. Era tutto quel brulichio di zingari che scintillava nell’ombra, quando il camino del battello a vapore eruttava qualche fiamma.

— È evidente, pensò egli, che questa compagnia di zingari, dopo essere rimasta sotto il ponte durante il giorno, è venuta ad accoccolarsi sotto il castello durante la notte. Stava dunque loro a cuore di mostrarsi il meno possibile? Tale per altro non è l’abitudine della loro razza!

Michele Strogoff non dubitò più allora che le parole che si riferivano direttamente a lui non fossero venute da quel crocchio nero, e non le avessero dette il vecchio zingaro e la donna a cui egli aveva dato il nome mongolo di Sangarre.

Michele Strogoff con un moto involontario si spinse dunque verso il cupé del battello a vapore [p. 93 modifica]nel momento in cui la compagnia di zingari lo lasciava per non più ritornarvi.

Il vecchio zingaro era là, in atto umile, poco conforme alla naturale sfrontatezza dei suoi congeneri. Si avrebbe detto ch’egli cercasse di evitare gli sguardi meglio che di attirarli. Il suo cappello miserando, abbrustolito da tutti i soli del mondo, calava giù giù sulla sua faccia rugosa. Il suo dorso ricurvo si avvolgeva stretto in un vecchio camiciotto, non ostante il calore. Sotto quei panni miserabili sarebbe stato difficile giudicare della sua statura e del suo aspetto.

Accanto a lui, la zingara Sangarre, donna sui trent’anni, di pelle bruna, alta, ben piantata, cogli occhi magnifici e coi capelli dorati, se ne stava in atto superbo.

Delle giovani danzatrici, molte erano singolarmente leggiadre, sebbene avessero tutte il tipo schietto della loro razza. Le zingare sono generalmente vezzose, e più d’uno di quei gran signori russi, che si piccano di gareggiar d’eccentricità cogli Inglesi, non ha esitato a scegliere la sua donna fra esse.

Una canticchiava una canzone dal ritmo strano, i cui primi versi possono essere così tradotti:

               La pelle ho bruna,
               Ma pur son bella;
               Cerco la stella
               Della fortuna.

L’allegra fanciulla proseguì, senza dubbio, la sua canzone, ma Michele Strogoff non l’ascoltava più.

Gli parve infatti che la zingara Sangarre lo [p. 94 modifica]guardasse con singolare insistenza, quasi volesse scolpirsene in mente la fisonomia in modo incancellabile.

Alcuni istanti dopo Sangarre sbarcava ultima, quando già il vecchio e la sua compagnia avevano lasciato il Caucaso.

— Che zingara sfrontata! pensò Michele Strogoff; m’avrebbe mai riconosciuto per l’uomo a cui ha dato della spia a Nijni-Novgorod? Questi zingari dannati hanno occhi di gatto, ci vedono chiaro di notte, e colei potrebbe sapere....

Michele Strogoff fu lì lì per seguire Sangarre e la sua compagnia, ma si trattenne.

— No, pensò, non facciamo cose avventate! Se io faccio arrestare quel vecchio e la sua campagnia, il mio incognito rischia d’essere svelato. D’altra parte, eccoli sbarcati, e prima che essi abbiano passata la frontiera io sarò già lontano dall’Ural. So bene che possono prendere la strada da Kazan ad Ichim, ma la non offre alcun comodo, ed un tarentass, tirato da buoni cavalli di Siberia, si lascerà sempre indietro un carro di zingari! Amico Korpanoff, stattene tranquillo.

D’altra parte, in quella, il vecchio zingaro e Sangarre erano scomparsi nella folla.

Se Kazan è giustamente chiamata «la porta dell’Asia,» se questa città è considerata come il centro di tutto il transito del commercio siberiano e bukariano, gli è che due strade vi si incontrano, e dànno passaggio attraverso i monti Urali. Ma Michele Strogoff aveva scelto con giudizio, pigliando quella che va a Perm, Ekaterinburgo e Tiumen. È la gran strada postale, ben fornita di poste, mantenuta a spese dello Stato, e si prolunga da Ichim fino ad Irkutsk. [p. 95 modifica]

Vero è che una seconda strada — quella di cui Michele Strogoff aveva parlato — evitando la leggiera giravolta di Perm, congiunge direttamente Kazan ad Ichim, passando per Ielabuga, Menzelinsk, Birsk, Zlatuste, dove lascia l’Europa, Tchelabinsk, Chadrinsk e Kurganne. Fors’anche è alquanto più breve dell’altra. Ma questo vantaggio è singolarmente scemato dall’assenza di poste, dalla scarsezza dei villaggi e dall’essere la via mal tenuta. Michele Strogoff adunque non poteva che essere lodato per la scelta fatta, e se, come pareva probabile, gli zingari seguissero quella seconda strada da Kazan ad Ichim, egli aveva per sè tutte le probabilità di giungere prima.

Un’ora dopo la campana suonava a prua del Caucaso, chiamando i nuovi passeggieri, radunando i vecchi. Erano le sette del mattino. Il carico del combustibile era compiuto. Le caldaje vibravano sotto la pressione del vapore; lo steam-boat era pronto a partire.

I viaggiatori, che andavano da Kazan a Perm, occupavano già i loro posti a bordo.

In quella Michele Strogoff notò che dei due giornalisti, Harry Blount era il solo che fosse tornato sul vapore.

Alcide Jolivet doveva dunque mancare alla partenza?

Ma nel momento in cui si staccavano gli ormeggi, apparve Alcide Jolivet tutto ansimante. Lo steam-boat si era già staccato dalla riva ed il passatojo era già stato tirato. Ma Alcide Jolivet non fu in impiccio per così poco, e spiccando un salto colla leggerezza d’un acrobata, ricadde sul ponte del Caucaso, quasi nelle braccia del suo confratello. [p. 96 modifica]

— Ho creduto che il Caucaso dovesse partire senza di voi, disse costui con accento agro-dolce.

— Oibò! rispose Alcide Jolivet, avrei ben saputo raggiungervi, avessi anche dovuto noleggiare un battello a spese di mia cugina o correre le poste a venti kopeks per versta o per cavallo. Che volete? c’era un pezzetto dallo sbarco al telegrafo!

— Siete andato al telegrafo? domandò Harry Blount facendo una smorfia.

— Sicuro che ci sono andato! rispose Alcide Jolivet col suo più amabile sorriso.

— Funziona sempre fino a Kolyvan?

— Questo non lo so, ma posso accertarvi, per esempio, che funziona da Kazan a Parigi.

— E avete mandato un dispaccio.... a vostra cugina?

— Con entusiasmo.

— Avete dunque saputo?....

— Ecco, babbo mio, per parlare come fanno i Russi, rispose Alcide Jolivet, io sono un buon figliuolo e non voglio nascondervi nulla. I Tartari, con Féofar-Kan alla testa, hanno passato Semipalatinsk e scendono il corso dell’Irtyche. Approfittatene.

Come! una notizia così grave era sfuggita ad Harry Blount, ed il suo rivale che l’aveva probabilmente appresa da qualche abitante di Kazan l’aveva subito mandata a Parigi! Eccoti il giornale inglese rimasto indietro! Perciò Harry Blount, incrociando le mani dietro il dorso, andò a sedersi a poppa senza aggiungere parola.

Verso le dieci del mattino, la giovane livoniana, avendo lasciato il suo camerino, salì sul ponte. [p. 97 modifica]

Michele Strogoff, movendole incontro, le porse la mano.

— Guarda, sorella, le disse dopo d’averla condotta fin sulla prua del Caucaso.

Ed infatti il luogo meritava d’essere esaminato attentamente.

Il Caucaso giungeva in quella al confluente del Volga e della Kama. Gli è là che doveva lasciare il gran fiume dopo d’averne sceso il corso per oltre quattrocento verste, per risalire l’importante fiume lungo un tragitto di 460 verste (490 chilometri).

In quel luogo, le acque delle due correnti mescevano le loro tinte un po’ diverse, e la Kama, facendo alla riva mancina il medesimo servizio che l’Oka aveva fatto alla sua riva destra, attraversando Nijni-Novgorod, la rendeva salubre col suo limpido affluente.

La Kama allora si apriva largamente e le sue sponde boschive erano incantevoli. Alcune vele bianche animavano le belle acque baciate dai raggi solari. I colli piantati di albarelle, di ontani e talvolta di gran quercie chiudevano l’orizzonte con una linea armoniosa, che la splendida luce del mezzodì confondeva in certi punti col fondo del cielo.

Ma queste bellezze naturali non pareva potessero stornare neanche un istante i pensieri della giovane livoniana. Essa non vedeva che una cosa, la meta da raggiungere, e la Kama non era per lei che una via più facile per arrivarvi. I suoi occhi brillavano straordinariamente guardando verso l’est, come se avessero voluto collo sguardo trapassare l’orizzonte. [p. 98 modifica]

Nadia aveva lasciata la mano in quella del compagno, e poco stante rivolgendosi a lui:

— Quanto siamo distanti da Mosca?

— Novecento verste! rispose Michele Strogoff.

— Novecento di settemila! mormorò la giovinetta.

Era l’ora della colazione, che fu annunziata dal tintinnío della campana. Nadia seguì Michele Strogoff nella trattoria dello steam-boat. Essa non volle assaggiare quegli antipasti, serviti a parte, come a dire caviali, aringhe tagliate a piccole fette, acquavite di segala con anici, destinata a stimolare l’appetito, secondo un uso comune a tutti i paesi del Nord, in Russia come in Svezia ed in Norvegia. Nadia mangiò poco e forse come una povera figliuola i cui mezzi sono scarsi. Michele Strogoff credette dunque di doversi accontentare di ciò che bastava alla sua compagna, vale a dire di un po’ di kulbat (specie di pasticcio fatto con torli d’uova, riso, carne triturata), di cavoli farciti di caviale (cibo russo composto d’uova, di storione salato), — per unica bevanda il tè.

Questo pasto non fu dunque nè lungo nè costoso, e meno di venti minuti dopo essersi messi a tavola, Michele Strogoff e Nadia risalivano insieme sul ponte del Caucaso.

Allora si assisero a poppa, e senz’altro preambolo, Nadia, abbassando la voce in guisa da essere intesa da lui solo:

— Fratello, disse, io sono la figlia d’un esiliato; mi chiamo Nadia Fédor. Mia madre è morta a Riga un mese fa soltanto, ed io me ne vado ad Irkutsk a raggiungere mio padre per dividere il suo esilio.

— Vado anch’io ad Irkutsk, rispose Michele [p. 99 modifica]Strogoff, ed avrò come favore del cielo di poter rimettere Nadia Fédor sana e salva fra le mani del padre suo.

— Grazie, fratello, rispose Nadia.

Michele Strogoff aggiunse allora che aveva ottenuto un podarosna speciale per la Siberia e che da parte delle autorità russe nulla poteva intralciare le sue mosse.

Nadia non volle sapere di più. Essa vedeva una cosa sola, nell’incontro di quel giovine semplice e buono, il mezzo per lei di giungere fino al padre.

— Io aveva, gli disse, un permesso che mi dava facoltà di andare ad Irkutsk, ma il decreto del governatore di Nijni-Novgorod lo ha annullato, e senza di te, fratello, non avrei potuto lasciare la città nella quale mi hai trovato ed in cui sicuramente sarei morta!

— E sola, Nadia, rispose Michele Strogoff, sola, osavi avventurarti attraverso le steppe della Siberia?

— Era mio dovere, fratello.

— Ma non sapevi tu che il paese, sollevato ed invaso, era divenuto quasi insuperabile?

— L’invasione tartara non era conosciuta quando io lasciai Riga, rispose la giovane livoniana. A Mosca soltanto appresi questa notizia.

— E ciò non ostante proseguivi la tua strada?

— Era il mio dovere.

Queste parole dimostravano tutto il carattere della coraggiosa giovinetta. Il suo dovere, Nadia non esitava mai a farlo.

Essa parlò del padre suo, Wassili Fédor. Era un medico stimato di Riga. Esercitava la sua professione con fortuna e viveva felice in mezzo [p. 100 modifica]ai suoi. Ma l’essere affigliato ad una società segreta straniera gli aveva meritato l’ordine di partire per Irkutsk, ed i gendarmi, che gli portavano questo ordine, lo condussero senza indugio al di là della frontiera.

Wassili Fédor ebbe appena il tempo di abbracciar la moglie già molto soffrente, la figlia che doveva rimanere senza appoggio; e piangendo su queste due creature che amava, partì.

Da due anni abitava la capitale della Siberia orientale, ed aveva potuto continuare, ma quasi senza profitto, la sua professione di medico. Nondimeno sarebbe forse stato felice quanto può esserlo un esiliato se avesse avuto al fianco la moglie e la figlia. Ma la signora Fédor, già molto indebolita, non avrebbe potuto lasciar Riga. Venti mesi dopo la partenza di suo marito, ella morì fra le braccia di sua figlia, che lasciava sola e quasi senza mezzi. Nadia Fédor chiese allora ed ottenne facilmente dal governo russo la facoltà di raggiungere il padre suo ad Irkutsk; gli scrisse che partiva. Aveva appena il tanto da bastare al lungo viaggio, pure non esitò ad intraprenderlo. Essa faceva quanto poteva.... Dio doveva fare il resto.

Frattanto il Caucaso risaliva il corso del fiume. La notte era venuta, e per l’aria spirava una deliziosa frescura. A migliaja sfuggivano le scintille dal camino dello steam-boat scaldato con legna di pino, ed al mormorio delle acque rotte dalla ruota di prua si mescevano i ruggiti dei lupi che infestavano nell’ombra la riva destra della Kama.