Michele Strogoff/Parte Seconda/Capitolo IV. L'entrata trionfale

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Parte Seconda - Capitolo IV. L'entrata trionfale

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Jules Verne - Michele Strogoff (1876)
Traduzione dal francese di Anonimo
Parte Seconda - Capitolo IV. L'entrata trionfale
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CAPITOLO IV.

l’entrata trionfale.


Tomsk, fondata nel 1604, quasi nel cuore delle provincie siberiane, è una delle più importanti città della Russia asiatica. Tobolsk, situata sopra il 60° parallelo, Irkutsk, fabbricata al di là del 100° meridiano, hanno veduto Tomsk crescere a loro spese.

Eppure Tomsk, come fu detto, non è la capitale di questa importante provincia. È ad Omsk che risiede il governatore generale della provincia, e colà pure sono tutti gli ufficî. Ma Tomsk è la città più importante di quel territorio, che confina coi monti Altai, vale a dire colla frontiera chinese del paese dei Kalkas. Sulle falde di queste montagne scorrono incessantemente, fino nella vallata del Tom, il platino, l’oro, l’argento, il rame, il piombo aurifero, e siccome il paese è ricco, anche la città è ricca, perchè nel centro di traffici fruttuosi. Perciò il lusso delle sue case, de’ suoi mobili, de’ suoi equipaggi, può gareggiare con quello delle gran capitali d’Europa. È una città di milionari arricchiti col piccone e colla zappa, e se non ha l’onore di servire di residenza [p. 53 modifica]al rappresentante dello czar, se ne consola contando fra le sue persone notevoli il capo dei mercanti della città, che è il principale concessionario delle miniere del governo imperiale.

Una volta Tomsk pareva che fosse all’estremità del mondo. Se uno vi si voleva recare, doveva fare un lunghissimo viaggio. Ora non è più che una semplice passeggiata, quando la strada non è calpestata dal piede degl’invasori. Presto anzi sarà costrutta la ferrovia che deve congiungerla a Perm, attraversando la catena dell’Ural.

È una bella città Tomsk? Bisogna convenire che i viaggiatori non sono d’accordo in proposito. La signora di Bourboulon, che vi ha abitato alcuni giorni durante il suo viaggio da Shang-Hai a Mosca, ne fa un luogo poco pittoresco. Stando alla sua descrizione, non è che una città meschina, con vecchie case di pietra e di mattoni, strade strettissime e molto differenti da quelle che si trovano di solito nelle gran città siberiane, quartieri sucidi, dove s’ammucchiano segnatamente i Tartari, ed in cui pullulano ubbriachi tranquilli, la cui ebbrezza medesima è apatica come in tutti i popoli del Nord!

Il viaggiatore Enrico Russel-Killough, invece, ammira moltissimo Tomsk. Forse perchè egli ha veduto nel cuore dell’inverno, sotto il suo mantello di neve, questa città che la signora di Bourboulon ha visitato solo d’estate? La cosa è possibile, e darebbe ragione a coloro che dicono che certi paesi freddi non possono essere apprezzati che nella stagione fredda, come certi paesi caldi non lo possono essere che nella stagione calda.

Checchè ne sia, il signor Russel-Killough dice positivamente che Tomsk è non solo la più bella [p. 54 modifica]città della Siberia, ma anche una delle più belle città del mondo, colle sue case a colonnati ed a peristilî, co’ suoi marciapiedi di legno, le sue vie larghe e regolari e le sue quindici magnifiche chiese, che si riflettono nelle acque del Tom, più largo d’ogn’altro fiume della Francia.

Il vero sta tra le due opinioni. Tomsk, che conta 25,000 abitanti, è pittorescamente scaglionata sopra una lunga collina piuttosto scoscesa.

Ma la più bella città del mondo diventa la più brutta se l’occupano gl’invasori. Chi avrebbe potuto ammirarla a quel tempo? Difesa da pochi battaglioni di Cosacchi a piedi, che vi risiedono in permanenza, essa non aveva potuto resistere all’assalto delle colonne dell’Emiro. Una certa parte della sua popolazione, che è d’origine tartara, non aveva fatto cattiva accoglienza a quell’orda, che era tartara anch’essa; e per ora Tomsk non pareva essere più russa, nè più siberiana che se fosse stata trasportata nei kanati di Kokand o di Bukara.

Era a Tomsk che l’Emiro doveva ricevere le sue truppe vittoriose. Una festa con canti, danze e fantasie, e seguíta da qualche orgia chiassosa, doveva essere data in loro onore.

Il teatro scelto per questa cerimonia, regolata secondo il gusto asiatico, era un ampio altipiano situato sopra una parte della collina che domina d’un migliajo di piedi il corso del Tom. Tutto questo orizzonte, colla sua lunga prospettiva di case eleganti e di chiese dalle cupole panciute, i numerosi meandri del fiume, e indietro le foreste immerse nella bruma calda, era chiuso in una meravigliosa cornice di verdura fatta da magnifici gruppi di pini e di cedri giganteschi. [p. 55 modifica]

A mano manca dell’altipiano era stato rizzato, sopra larghe terrazze, una specie di splendido scenario, raffigurante un palazzo di bizzarra architettura, senza dubbio un campione dei monumenti bukariani semi-moreschi e semi-tartari. Sopra quel palazzo, all’estremità dei minareti che lo facevano irto da tutte le parti, fra gli altri rami degli alberi che facevano ombra all’altipiano, turbinavano centinaja di cicogne addomesticate, venute da Bukara coll’armata tartara.

Queste terrazze erano state riservate alla corte dell’Emiro, ai kani suoi alleati, ai gran dignitarî dei kanati e degli harem di ciascuno di cotesti sovrani del Turkestan.

Di queste sultane, che per lo più non sono che schiave comperate sui mercati di Transcaucasia e della Persia, le une avevano la faccia scoperta; portavano le altre un velo che le nascondeva allo sguardo. Tutte erano vestite con un lusso estremo. Eleganti pelliccie, dalle maniche rialzate indietro, lasciavano vedere le braccia nude cariche di braccialetti riuniti con catene di pietre preziose, e le loro manine, le cui dita avevano le unghie tinte col sugo di henneh. Ad ogni minimo movimento di queste pelliccie, le une di stoffa di seta, paragonabili, per la finezza, a tele di ragno, le altre fatte di una morbida aladja, che è un tessuto di cotone a righe strette, si produceva quel fruscío gradito all’orecchio degli Orientali. Sotto quella prima veste cangiante, gonne di broccato, che coprivano calzoni di seta stretti un po’ più su degli stivaletti di taglio grazioso e ricamati in perle. Quelle donne che il velo non nascondeva, erano ammirabili per le lunghe ciocche sfuggenti dai turbanti di varî colori, per gli occhi stupendi, [p. 56 modifica]i denti magnifici, il colorito abbagliante, che spiccava vie più per la nerezza delle sopracciglia congiunte con un lieve tratto di collirio e per la sfumatura di nero delle palpebre, fatta con un po’ di piombaggine.

Ai piedi delle terrazze, riparate sotto gli stendardi e le orifiamme, vegliavano le guardie private dell’Emiro, con due sciabole ricurve al fianco, pugnale alla cintura, in pugno la lancia lunga dieci piedi. Alcuni di questi Tartari portavano bastoni bianchi, altri alabarde enormi, ornate di fiocchetti di fili d’argento e d’oro.

Tutt’intorno a quest’ampio altipiano, fin sulle falde scoscese, di cui il Tomks bagnava la base, si pigiava una folla cosmopolita, composta di tutti gli elementi indigeni dell’Asia centrale. Vi erano gli Usbechi coi loro berrettoni di pelle di pecora nera, la loro barba rossa, i loro occhi bigi ed il loro arkaluk, specie di tunica tagliata alla foggia tartara. V’erano i Turcomanni vestiti del costume nazionale, cioè a dire larghi calzoni dai colori vivaci, con vesti e mantelli tessuti di pelo di cammello, berretti rossi conici o schiacciati, alti stivaloni di cuojo di Russia, coll’acciarino e il coltello appesi alla cintola per mezzo d’una correggia. Colà, presso ai loro padroni, si vedevano quelle donne turcomanne dai capelli allungati per mezzo di cordoncini di peli di capra, dalla camicia aperta sotto il djuba, a righe azzurre, porporine e verdi, le gambe allacciate con bende colorate, che s’incrociavano fino al loro zoccolo di cuojo. Colà pure — come se tutte le popolazioni della frontiera russo-chinese si fossero levate alla voce dell’Emiro — si vedevano dei Mansciuri, rasi alla fronte ed alle tempia, coi capelli appiccicati, le [p. 57 modifica]lunghe vesti, ed una cinta che stringeva il busto sopra una camicia di seta, i berretti ovali di raso color ciliegia, a orlatura nera e frangia rossa; e con essi alcuni meravigliosi tipi di quelle donne della Mansciuria ornate con civetteria di fiori artificiali trattenuti da spille d’oro e di farfalle delicatamente posate sui capelli neri; e finalmente a compiere quella folla convitata alla festa tartara, v’erano Mongoli, Bukariani, Persiani e Chinesi del Turkestan.

Solo i Siberiani mancavano a questo ricevimento degl’invasori. Coloro che non avevano potuto fuggire, se ne stavano tappati nelle loro case colla paura del saccheggio che Féofar-Kan avrebbe forse ordinato per compiere degnamente la cerimonia trionfale.

Fu soltanto alle quattro che l’Emiro fece la sua entrata nella piazza al suono delle fanfare, al chiasso dei tam-tam e delle scariche d’artiglieria e di moschetti.

Féofar montava il suo cavallo favorito e portava sulla testa un pennacchietto di diamanti. L’Emiro aveva conservato il suo costume da guerra. Al suo fianco camminavano i kani di Kokand e di Kunduze, i gran dignitari dei kanati, e seguiva un numeroso stato maggiore.

In quel momento apparve sulla terrazza la prima delle mogli di Féofar, la regina, se questo nome può essere dato alle sultane degli Stati di Bukaria. Ma, regina o schiava, codesta donna, d’origine persiana, era meravigliosamente bella. Contrariamente all’usanza maomettana, e senza dubbio per un capriccio dell’Emiro, essa aveva la faccia scoperta; la sua capigliatura, spartita in quattro treccie, le carezzava le spalle d’una bianchezza [p. 58 modifica]abbagliante, coperta appena d’un velo di seta che di dietro s’accomodava ad un berretto tempestato di gemme di gran valore. Sotto la sua gonna di seta azzurra a larghe striscie più cariche, cadeva il zirdjameh di garza di seta, e sopra la cintola il pirahn, camicia del medesimo tessuto che si foggiava graziosamente, risalendo verso il collo. Ma, dalla testa fino ai piedi, che eran calzati di pantofole persiane, era tanta la profusione di giojelli, di toman d’oro infilati in fili d’argento, rosarî di turchesi, di firuzehs delle celebri miniere di Elburz, di collane di cornaline, d’agate, di smeraldi, di opale e di zaffiri, che il suo busto e la sua gonna parevano tessuti di pietre preziose. Quanto alle migliaja di diamanti che le scintillavano al collo, alle mani, alla cintola, ai piedi, un milione di rubli non ne avrebbero pagato il valore.

L’Emiro ed i kani posero piede a terra, al par dei dignitari che facevano loro corteo. Tutti presero posto sopra una magnifica tenda rizzata nel centro della prima terrazza. Dinanzi alla tenda era, come sempre, il Corano posato sopra la tavola sacra.

Il luogotenente di Féofar non si fece aspettare, e prima delle cinque le chiassose fanfare ne annunziarono l’arrivo.

Ivan Ogareff, — lo Sfregiato, come già si cominciava a chiamarlo, — vestito questa volta dell’uniforme d’uffiziale tartaro, giunse a cavallo dinanzi alla tenda dell’Emiro. Egli era accompagnato da una parte dei soldati del campo di Zabédiero. Le turbe si schierarono ai lati della piazza, in mezzo alla quale più non rimase che lo spazio destinato ai divertimenti. Si vedeva una larga ferita che tagliava obliquamente la faccia del traditore. [p. 59 modifica]

Ivan Ogareff presentò all’Emiro i suoi principali uffiziali, e Féofar-Kan, senza smettere la freddezza che faceva il fondo della sua dignità, li accomiatò in guisa che rimanessero soddisfatti.

Così almeno interpretarono la cosa Harry Blount ed Alcide Jolivet, i due inseparabili, oramai associati per la caccia alle notizie. Dopo d’aver lasciato Zabédiero, essi erano giunti rapidamente a Tomsk col fermo proposito di piantar per istrada i Tartari e di raggiungere al più presto qualche corpo russo, e se fosse possibile di gettarsi con esso in Irkutsk. Quello che avevano veduto dell’invasione, dei saccheggi, degl’incendî, delle carneficine, li aveva profondamente stomacati, ed avevano fretta di essere nelle file dell’armata siberiana.

Per altro Alcide Jolivet aveva fatto comprendere al suo confratello ch’egli non poteva lasciar Tomsk senza aver qualche notizia su quell’entrata trionfale delle truppe tartare — non fosse altro che per soddisfare la curiosità di sua cugina — ed Harry Blount s’era indotto a rimanere alcuno ore. Ma la sera medesima tutti e due dovevano ripigliare la strada d’Irkutsk, e con buoni cavalli speravano di passar innanzi agli esploratori dell’Emiro.

Alcide Jolivet ed Harry Blount s’erano frammischiati alla folla, e guardavano in modo da non perdere alcun particolare di una festa che doveva fornir loro cento buone linee di cronaca. Essi ammirarono dunque Féofar-Kan nella sua magnificenza, le sue mogli, i suoi ufficiali, le sue guardie e tutta quella pompa orientale di cui le cerimonie d’Europa non possono dare alcuna idea. Ma ritrassero gli occhi con dispregio quando Ivan [p. 60 modifica]Ogareff si presentò dinanzi all’Emiro, ed aspettarono, non senza un po’ d’impazienza che incominciasse la festa.

— Vedete, mio caro Blount, diceva Alcide Jolivet, siamo venuti troppo presto, come buoni borghesi che vogliono spender bene il loro danaro. Tutto questo non è che un prologo, e sarebbe stato meglio giungere qui all’ora del ballo.

— Qual ballo? domandò Harry Blount.

— Il ballo obbligatorio, diancine! Ma ecco che si tira su il sipario.

Alcide Jolivet parlava come se fosse stato in teatro, e cavando il cannocchiale dal suo astuccio, s’accinse ad osservare, da uomo che se n’intende, le prime parti della commedia di Féofar-Kan.

Ma una penosa cerimonia doveva precedere le feste.

Infatti il trionfo del vincitore non poteva essere pieno senza l’umiliazione pubblica dei vinti, ed è per ciò che molte centinaja di prigionieri furono condotti sotto lo staffile dei soldati. Erano destinati a sfilare davanti a Féofar-Kan ed ai suoi alleati prima di essere stivati coi loro compagni nelle prigioni della città.

Vi si vedeva in prima linea Michele Strogoff. Conforme agli ordini d’Ivan Ogareff, egli era specialmente scortato da un drappello di soldati. Anche sua madre e Nadia erano là.

La vecchia siberiana, sempre energica quando non si trattava che di lei, aveva la faccia orribilmente pallida. Essa s’aspettava qualche scena terribile. Non senza una ragione, suo figlio era stato tratto dinanzi all’Emiro, e perciò essa tremava per lui. Ivan Ogareff, percosso pubblicamente dallo knut levato sopra di lei, non era [p. 61 modifica]uomo da perdonare, e la sua vendetta doveva essere spietata. Qualche spaventoso supplizio, famigliare ai barbari dell’Asia centrale, minacciava certamente Michele Strogoff. Se Ivan Ogareff l’aveva risparmiato al momento in cui i soldati gli s’erano fatti addosso, gli è perchè egli sapeva bene quello che faceva riserbandolo alla giustizia dell’Emiro.

D’altra parte madre e figlio non s’erano potuti parlare dopo la scena funesta del campo di Zabédiero. Erano stati spietatamente separati l’uno dall’altro. Duro aggravio alle loro miserie, poichè sarebbe stato un raddolcimento per essi lo star riuniti in quei pochi giorni di prigionia! Marfa Strogoff avrebbe chiesto perdono a suo figlio di tutto il male che le aveva fatto involontariamente, poichè essa si accusava di non aver potuto vincere i proprî sentimenti materni. Se essa avesse saputo contenersi ad Omsk, in quella casa di posta, quando si trovò faccia a faccia con lui, Michele Strogoff sarebbe passato senz’essere stato riconosciuto; e quante disgrazie avrebbe così risparmiato!

E, dal canto suo, Michele Strogoff pensava che se sua madre era là, se Ivan Ogareff l’aveva messa in sua presenza, era perchè essa soffrisse del suo proprio supplizio e fors’anche perchè qualche spaventosa morte era riserbata a lei pure.

Quanto a Nadia, la si domandava che cosa potesse fare per salvarli entrambi, per venire in ajuto al figlio ed alla madre. Essa non sapeva che cosa immaginare, ma comprendeva che anzi tutto doveva evitare d’attirare gli sguardi, che doveva nascondersi e farsi piccina! Chissà allora che non potesse rodere le maglie che [p. 62 modifica]imprigionavano il leone. Ad ogni modo, se le si porgesse l’occasione d’agire, essa agirebbe, dovesse anche sacrificarsi per il figlio di Marfa Strogoff.

Frattanto la maggior parte dei prigionieri erano passati dinanzi all’Emiro, e, passando, ciascuno aveva dovuto inchinarsi colla fronte nella polvere in segno di servilità. Era la schiavitù che cominciava coll’umiliazione! Quando questi disgraziati erano troppo lenti nel curvarsi, la rude mano delle guardie li gettava violentemente a terra.

Alcide Jolivet ed il suo compagno non potevano assistere ad uno spettacolo simile senza provare una vera collera.

— È una cosa vigliacca! Partiamo! disse Alcide Jolivet.

— No, rispose Harry Blount, bisogna veder tutto.

— Veder tutto?... Ah! esclamò d’un tratto Alcide Jolivet afferrando il braccio del suo compagno.

— Che avete? gli domandò costui.

— Guardate, Blount, è lei!

— Lei?

— La sorella del nostro compagno di viaggio!

Sola e prigioniera!...

— Bisogna salvarla!...

— Frenatevi, rispose freddamente Harry Blount. Il nostro intervento in favore di quella giovinetta potrebbe esserle più dannoso che utile.

Alcide Jolivet, che stava per slanciarsi, si trattenne, e Nadia, che non li aveva veduti, perchè semi-velata dai suoi capelli, passò alla sua volta dinanzi all’Emiro senza fermare la sua attenzione.

Dopo Nadia, era giunta Marfa Strogoff, e [p. 63 modifica]siccome ella non fu ratta a buttarsi nella polvere, le guardie la spinsero brutalmente.

Marfa Strogoff cadde.

Suo figlio diè tale un balzo terribile che i soldati poterono trattenerlo a mala pena.

Ma la vecchia Marfa si rialzò e già si stava per trascinarla via, quando Ivan Ogareff intervenne, dicendo:

— Questa donna rimanga!

Quanto a Nadia, essa fu spinta nella folla dei prigionieri. Lo sguardo d’Ivan Ogareff non s’era fermato sopra di lei.

Michele Strogoff fu allora tratto dinanzi all’Emiro, e quand’egli rimase in piedi senza abbassar gli occhi:

— La fronte a terra! gli gridò Ivan Ogareff.

— No! rispose Michele Strogoff.

Due guardie vollero costringerlo a curvarsi, ma furono esse che la mano robusta del giovane costrinse a baciare la polvere.

Ivan Ogareff si fece innanzi a Michele Strogoff.

— Tu morrai, gli disse.

— Morrò, rispose fieramente Michele Strogoff, ma la tua faccia di traditore, Ivan, porterà sempre il segno infamante dello knut.

Ivan Ogareff, a questa risposta, impallidì orribilmente.

— Chi è questo prigioniero? domandò l’Emiro con voce tanto più minacciosa quanto più era pacata.

— Una spia russa, rispose Ivan Ogareff.

Facendo di Michele Strogoff una spia, egli sapeva che la sentenza pronunziata contro di lui sarebbe terribile.

Michele Strogoff mosse alcuni passi incontro ad Ivan Ogareff. [p. 64 modifica]

I soldati l’arrestarono.

L’Emiro fece allora un gesto, dinanzi al quale si curvò tutta la folla, poi additò il Corano, e gli fu portato. Egli aprì il libro sacro e pose il dito sopra una delle pagine.

Era il caso, o meglio, come pensano questi orientali, Dio medesimo che doveva decidere la sorte di Michele Strogoff. I popoli dell’Asia centrale dànno a tal pratica il nome di fal. Dopo d’aver interpretato il senso del versetto toccato dal giudice, essi applicano la sentenza qualunque sia.

L’Emiro aveva lasciato il dito sulla pagina del Corano. Il capo degli Ulema s’accostò allora e lesse ad alta voce il versetto che terminava colle seguenti parole:

«Ed egli non vedrà più le cose della terra.»

— Spia russa, disse Féofar-Kan, tu sei venuto per vedere quello che si compie nel campo tartaro! Guarda, dunque, guarda!