Michele Strogoff/Parte Seconda/Capitolo V. Guarda, dunque, guarda!

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Parte Seconda - Capitolo V. Guarda, dunque, guarda!

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Jules Verne - Michele Strogoff (1876)
Traduzione dal francese di Anonimo
Parte Seconda - Capitolo V. Guarda, dunque, guarda!
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CAPITOLO V.

guarda, dunque, guarda!


Michele Strogoff, colle mani legate, fu trattenuto in faccia al trono dell’Emiro a piedi della terrazza.

Sua madre, vinta finalmente da tante torture fisiche e morali, si era accasciata, non osando più nè guardare, nè ascoltare.

— Guarda, dunque, guarda! aveva detto Féofar-Kan tendendo la sua mano minacciosa verso Michele Strogoff. [p. 65 modifica]

Senza dubbio, Ivan Ogareff, al fatto dei costumi tartari, aveva compreso il significato di queste parole, perchè le sue labbra si erano schiuse ad un sorriso crudele. Poi egli era andato a mettersi presso a Féofar-Kan.

Suonarono le trombe; era il segnale dei divertimenti.

— Comincia il ballo, disse Alcide Jolivet ad Harry Blount, ma, contrariamente a tutti gli usi, questi barbari lo dànno prima del dramma!

Michele Strogoff aveva ordine di guardare, e guardò.

Un nugolo di danzatrici irruppe allora sulla piazza. Diversi strumenti tartari, la dutar, mandolino dal lungo manico di legno di gelso, a due corde di seta torte ed accordate per quarta, il kobiz specie di violoncello aperto nella sua parte anteriore, guernito di crini di cavallo messi in vibrazione per mezzo d’un archetto, la teschibkzga, lungo flauto di canna, trombe, tamburi, tam-tam uniti alla voce gutturale dei cantori, formavano una strana armonia. Conviene pure aggiungervi gli accordi d’un’orchestra aerea, composta d’una dozzina di cervi volanti, che tesi con corde risuonavano alla brezza come arpe eolie.

Subito cominciarono le danze.

Le ballerine erano tutte d’origine persiana. Non erano schiave ed esercitavano la loro professione liberamente. Una volta esse figuravano officialmente nelle cerimonie alla corte di Téhéran; ma dopo l’avvenimento al trono della famiglia regnante, bandite, per così dire, dal regno, avevano dovuto cercar fortuna altrove. Allora esse portavano il costume nazionale, ed erano ornate a profusione di giojelli. Piccoli triangoli d’oro e lunghi [p. 66 modifica]pendenti si dondolavano alle loro orecchie, cerchi d’argento niellato avvolgevano il loro collo, braccialetti formati d’una doppia fila di gemme stringevano le loro braccia e le loro gambe, pendenti misti a ricche perle, a turchesi, ed a cornaline, tremolavano all’estremità delle loro lunghe treccie. La cintura, che stringeva loro la vita, era fissata con una fibbia magnifica.

Queste ballerine eseguirono graziosamente variate danze, ora isolate ora a gruppi. Esse avevano la faccia scoperta, ma tratto tratto si coprivano con un velo leggiero; si avrebbe detto che una nuvola di garza passasse sopra tutti quegli occhi scintillanti, come un vapore sopra un cielo stellato. Alcune di queste Persiane portavano ad armacollo una tracolla di cuojo ricamata di perle, da cui pendeva un sacchetto di forma triangolare colla punta in giù e che esse aprirono a un certo momento. Da questi sacchetti intessuti d’una filigrana d’oro esse trassero lunghe e strette striscie di seta scarlatta, sulla quale erano ricamati i versetti del Corano. Queste striscie, che esse tesero fra di loro, formarono una siepe, sotto la quale si cacciarono altre ballerine senza interrompere i loro passi; e passando dinanzi ad ogni versetto, secondo il precetto che conteneva, o s’inginocchiavano fino a terra, ovvero spiccavano un salto leggiero come per andare a prender posto fra le Uri del cielo di Maometto.

Ma, cosa singolare e che impressionò molto Alcide Jolivet, queste Persiane erano piuttosto indolenti che focose. Mancava loro la foga, e nel genere dalle loro danze, come nell’eseguirle, ricordavano meglio le bajadere tranquille e decenti dell’India che le almee appassionate dell’Egitto. [p. 67 modifica]

Quando questo primo divertimento fu compiuto, s’udì una voce grave che diceva:

— Guarda, dunque, guarda!

L’uomo che ripeteva le parole dell’Emiro, un tartaro di alta statura, era l’esecutore delle sentenze di Féofar-Kan. Egli s’era messo dietro a Michele Strogoff e teneva in mano una sciabola a larga lama curva, una di quelle lame damascate che furono temprate da celebri armajuoli di Karschi o d’Hissar.

Accanto a lui era un tripode, e sovr’esso un braciere in cui ardevano senza mandar fumo alcuni carboni. Il vapore leggiero che li coronava era dovuto unicamente all’incenerazione d’una sostanza resinosa ed aromatica, mista d’olibano e di belzuino, che veniva gettata sulla loro superficie.

Frattanto, alle Persiane era succeduto un altro gruppo di danzatrici, di razza differentissima, che Michele Strogoff riconobbe subito.

E bisogna credere che i due giornalisti anche le riconoscessero, perchè Harry Blount disse al suo confratello:

— To’, sono le zingare di Nijni-Novgorod!

— Esse appunto! esclamò Alcide Jolivet. Io credo che gli occhi debbano fruttare a quelle spie meglio delle gambe!

Facendone degli agenti al servizio dell’Emiro, Alcide Jolivet, come è noto, non s’ingannava.

In prima fila, fra quelle zingare, era Sangarre, superba nel suo costume strano e pittoresco, che dava maggior spicco alla sua bellezza.

Sangarre non danzò, ma s’atteggiò come una mima in mezzo alle sue ballerine, i cui passi fantastici avevano qualche cosa di tutti i paesi che la loro razza percorre in Europa, della Boemia, [p. 68 modifica]dell’Egitto, dell’Italia e della Spagna. Esse s’animavano al suono di catube ed al mugolío delle daire, specie di tamburi che si suonano graffiandone la pelle stridente.

Sangarre, tenendo in mano uno di questi daire, eccitava quel drappello di veri coribanti.

Allora si fece innanzi uno zingaro di quindici anni al più. Egli teneva in mano un dutar e ne faceva vibrare le due corde colle unghie. Cantò. Durante la strofa di questa canzone d’un ritmo molto bizzarro, una danzatrice venne a mettersi al suo fianco, e stette immobile ascoltando. Ma ogni volta che il ritornello usciva dalle labbra del giovine cantore, essa ripigliava la sua danza interrotta agitando il daire, e stordendo il cantore coi suoi sonagli.

Poi, dopo l’ultima strofa, le ballerine allacciarono lo zingaro nelle mille spire delle loro danze.

Allora una pioggia di monete d’oro cadde dalle mani dell’Emiro, de’ suoi alleati e dei loro uffiziali d’ogni grado, ed al rumore delle monete che picchiavano sulle catube delle danzatrici, si mescevano ancora gli ultimi mormorii delle dutar e dei tamburelli.

— Prodighi come ladri! disse Alcide Jolivet all’orecchio del suo compagno.

Ed era infatti il denaro rubato che cadeva a fiotti, giacchè insieme coi tomani e cogli zecchini tartari, piovevano pure i ducati ed i rubli moscoviti.

Poi si fece un istante di silenzio, e la voce dell’esecutore, appoggiando la sua mano sulla spalla di Michele Strogoff, ripetè queste parole, che l’insistenza rendeva sempre più sinistra:

— Guarda, dunque, guarda! [p. 69 modifica]

Ma stavolta Alcide Jolivet notò che l’esecutore non teneva più in mano la sciabola nuda.

Frattanto il sole scendeva sull’orizzonte, e le ombre cominciarono ad invadere la campagna. Il fitto dei cedri e dei pini si faceva sempre più nero, e le acque del Tom, oscurate in lontananza, si confondevano nelle prime brume. L’ombra non poteva tardare a giungere all’altipiano che dominava la città.

Ma, in quell’istante, molte centinaja di schiave, portando torcie accese, invasero la piazza. Spinte da Sangarre, zingare e Persiane riapparvero dinanzi al trono dell’Emiro e fecero spiccare, col contrasto, le loro svariatissime danze. Gl’istrumenti dell’orchestra tartara si scatenarono in un’armonia più selvaggia, accompagnata dalle grida gutturali dei cantatori. I cervi volanti, ch’erano stati ricondotti a terra, spiccarono di nuovo il volo, sollevando tutta una costellazione di lanterne molticolori, e le loro arpe vibrarono con maggior intensità sotto la brezza più fresca, in mezzo a questa luminosa ed aerea illuminazione.

Poi, uno squadrone di Tartari, nel loro costume di guerra, venne a mescersi alle danze, la cui furia andava crescendo, e allora cominciò una fantasia pedestre che faceva il più strano effetto.

Quei soldati, armati di sciabole nude e di lunghe pistole, volteggiando in mille guise, fecero echeggiar l’aria di spari e di continue schioppettate che si staccavano dal rullo dei tamburelli, dal mugolío dei daire e dallo stridere delle dutar. Le loro armi, cariche di polvere colorata, alla maniera chinese, da qualche ingrediente metallico, lanciavano lunghi zampilli rossi, verdi, azzurri, e si avrebbe detto allora che tutti quei [p. 70 modifica]gruppi si agitassero in mezzo ad un fuoco d’artificio. Per certi rispetti, quel divertimento ricordava la cibistica degli antichi, specie di danza militare, in cui i corifei manovravano in mezzo a punte di spada e di pugnali, e può darsi che la tradizione ne sia stata tramandata ai popoli dell’Asia centrale; ma questa cibistica tartara era fatta ancor più bizzarra da quei fuochi colorati che serpeggiavano sopra le ballerine, le cui vesti parevano tutte tempestate di punte di fuoco; era come un caleidoscopio di scintille, le cui combinazioni variavano all’infinito ad ogni movenza delle danzatrici.

Per quanto avvezzo dovesse essere un giornalista parigino a simili effetti teatrali, Alcide Jolivet, non potè trattenere un lieve movimento di testa, che fra il boulevard Montmartre e la Maddalena avrebbe significato:

— Non c’è male!

Poi, ad un tratto, come ad un segnale, tutti i fuochi della fantasia si spensero, cessarono le danze, sparvero le danzatrici; la cerimonia era terminata, e le torcie soltanto rischiaravano quell’ altipiano che alcuni istanti prima era pieno di luce.

A un cenno dell’Emiro, Michele Strogoff fu condotto in mezzo alla piazza.

— Blount, disse Alcide Jolivet al suo compagno, ci tenete voi a vedere la fine di tutto ciò?

— Niente affatto, rispose Harry Blount.

— I vostri lettori del Daily-Telegraph non sono ghiotti, spero, dei particolari di un’esecuzione alla moda tartara?

— Niente di più di vostra cugina.

— Povero giovane! aggiunse Alcide Jolivet [p. 71 modifica]guardando Michele Strogoff. Quel valoroso soldato avrebbe meritato di cadere sul campo di battaglia!

— Possiamo noi fare qualche cosa per salvarlo? disse Harry Blount.

— Non possiamo far nulla.

I due giornalisti si ricordavano la condotta generosa di Michele Strogoff verso di loro. Sapevano ora per quali motivi, schiavo del suo dovere, egli avesse dovuto passare in mezzo a quei Tartari, ai quali è ignota ogni pietà; essi non potevano far nulla per lui!

Poco desiderosi d’assistere al supplizio riserbato al disgraziato, rientrarono dunque nella città.

Un’ora più tardi correvano sulla strada d’Irkutsk, ed era fra i Russi che volevano tentare di seguire quella che Alcide Jolivet chiamava anticipatamente «la campagna della rivincita.»

Frattanto Michele Strogoff stava ritto, collo sguardo altero per l’Emiro, sprezzante per Ivan Ogareff. Egli s’aspettava di morire è nondimeno avrebbero cercato invano in lui un sintomo di debolezza.

Gli spettatori, rimasti intorno alla piazza al par dello stato maggiore di Féofar-Kan, pei quali questo supplizio non era che un’attrattiva di più, aspettavano che l’esecuzione fosse compita. Quetata la loro curiosità, tutta quell’orda selvaggia se ne andrebbe a tuffarsi nell’ebbrezza.

L’Emiro fece un gesto. Michele Strogoff, spinto dalle guardie, s’accostò alla terrazza, ed allora, in quella lingua tartara ch’egli conosceva, Féofar-Kan gli disse:

— Tu sei venuto per vedere, spia dei Russi. Tu hai veduto per l’ultima volta; fra un istante gli occhi tuoi saranno chiusi per sempre alla luce! [p. 72 modifica]

Non era di morte, ma di cecità cho doveva essere colpito Michele Strogoff. Il disgraziato era condannato ad essere cieco!

Pure, udendo la pena pronunciata dall’Emiro, Michele Strogoff non venne meno. Egli stette impassibile, cogli occhi spalancati, come se avesse voluto concentrar tutta la sua vita in un ultimo sguardo. Supplicare questi uomini feroci era inutile, e d’altra parte indegno di lui. Non vi pensò neppure. Tutto il suo pensiero si concentrò sulla sua missione irrevocabilmente perduta, sopra sua madre, sopra Nadia che non doveva rivedere mai più. Ma egli non lasciò scorgere nulla della commozione che provava.

Il desiderio d’una vendetta da compiere ad ogni costo invase tutto l’esser suo. Si volse ad Ivan Ogareff.

— Ivan Ogareff, diss’egli con voce minacciosa, Ivan il traditore, l’ultima minaccia de’ miei occhi sarà per te!

Ivan Ogareff si strinse nelle spalle.

Ma Michele Strogoff s’ingannava. Non era guardando Ivan Ogareff che gli occhi suoi dovevano spegnersi per sempre.

Marfa Strogoff s’era drizzata dinanzi a lui.

— Madre mia! esclamò egli. Sì, sì, a te il mio sguardo supremo, e non a questo miserabile! Resta là, dinanzi a me! Fa ch’io veda ancora la tua faccia diletta, che i miei occhi si chiudano guardandoti!...

La vecchia siberiana, senza proferire parola, s’avanzava.

— Cacciate quella donna! disse Ivan Ogareff. Due soldati respinsero Marfa Strogoff, la quale indietreggiò, ma stette in piedi a pochi passi da suo figlio. [p. 73 modifica]Avanti! disse Ivan Ogareff (pag. 50). [p. 74 modifica]

Venne l’esecutore. Stavolta egli teneva in mano la sua sciabola nuda, e questa sciabola infocata egli l’aveva tolta dal braciere, dove ardevano i carboni profumati.

Michele Strogoff doveva essere acciecato, secondo l’usanza tartara, con una lama ardente passata dinanzi agli occhi suoi.

Michele Strogoff non cercò di resistere. Più non esisteva per lui altra cosa che sua madre, ch’egli divorava allora collo sguardo! Tutta la sua vita era in quest’ultima visione!

Marfa Strogoff, cogli occhi sbarrati e le braccia tese verso di lui, lo guardava!...

La lama infocata passò sopra gli occhi dell’infelice.

Si udì un grido disperato, e la vecchia Marfa cadde al suolo. Michele Strogoff era cieco!

Eseguiti gli ordini suoi; l’Emiro se ne andò con tutto il suo seguito, e poco stante non rimase su quella piazza altri che Ivan Ogareff ed i portatori delle torcie.

Voleva forse il miserabile insultare ancora la sua vittima e dargli l’ultimo colpo dopo l’esecuzione?

Ivan Ogareff si accostò lentamente a Michele Strogoff, il quale lo sentì venire e si rizzò in piedi.

Ivan Ogareff trasse di tasca la lettera imperiale, l’aprì, e con suprema ironia la pose dinanzi agli occhi spenti del corriere dello czar, dicendo:

— Leggi ora, Michele Strogoff, leggi, e va a ripetere ad Irkutsk quello che avrai letto. Il vero corriere dello czar è Ivan Ogareff. — Ciò detto, il traditore cacciò la lettera in tasca. Poi, senza voltarsi, abbandonò quel luogo, e i portatori di torcie lo seguirono.

Michele Strogoff rimase solo a pochi passi da [p. 75 modifica]sua madre, che aveva perduti i sensi e forse era morta.

S’udivano da lungi le grida, i chiassi, le trombe. Tomsk illuminata brillava come una città in festa.

Michele Strogoff porse l’orecchio, la piazza era silenziosa e deserta.

Egli si trascinò tentoni verso il luogo in cui sua madre era caduta; la trovò colla mano, si curvò sopra di lei, accostò la faccia alla sua, ascoltò i battiti del suo cuore. Poi si sarebbe detto che le parlasse a bassa voce.

La vecchia Marfa viveva essa ancora, ed intese ciò che le disse suo figlio?

Ad ogni modo, essa non fece nissun movimento.

Michele Strogoff ne baciò la fronte ed i capelli bianchi. Poi si rialzò, e tentando col piede il suolo per guidarsi, camminò a poco a poco verso l’estremità della piazza.

A un tratto apparve Nadia.

Essa mosse dritto verso il suo compagno. Con un pugnale che aveva in mano recise le corde che legavano le braccia di Michele Strogoff.

Costui, cieco, non sapeva chi lo sciogliesse, poichè Nadia non aveva proferita parola. Ma ciò fatto:

— Fratello! diss’ella.

— Nadia! mormorò Michele Strogoff, Nadia!

— Vieni! fratello, rispose Nadia. I miei occhi saranno gli occhi tuoi in avvenire, e sono io che ti condurrà ad Irkutsk!