Michele Strogoff/Parte Seconda/Capitolo VI. Un amico da strada maestra

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Parte Seconda - Capitolo VI. Un amico da strada maestra

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Jules Verne - Michele Strogoff (1876)
Traduzione dal francese di Anonimo
Parte Seconda - Capitolo VI. Un amico da strada maestra
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CAPITOLO VI.

un amico da strada maestra.


Mezz’ora dopo Michele Strogoff e Nadia avevano lasciato Tomsk.

Un certo numero di prigionieri quella notte potè pure fuggire ai Tartari, perchè ufficiali e soldati, fatti più o meno abbrutiti, avevano senza avvedersene rallentato la severa sorveglianza, sia nel campo di Zabédiero, sia durante il viaggio dei convogli. Nadia, dopo d’essere stata condotta via cogli altri prigionieri, aveva dunque potuto fuggire e tornarsene all’altipiano, al momento in cui Michele Strogoff veniva tratto dinanzi all’Emiro.

Colà mista alla folla aveva veduto ogni cosa; non le sfuggì un grido quando la lama infuocata passò davanti agli occhi del suo compagno. Essa ebbe la forza di rimanere immobile e muta. Una provvidenziale ispirazione le disse di mantenersi libera ancora per guidare il figlio di Marfa Strogoff alla meta a cui egli aveva giurato di giungere. Il suo cuore cessò un istante di battere quando la vecchia siberiana cadde al suolo, ma un pensiero le ridonò tutta la sua energia.

— Io sarò il cane del cieco! diss’ella. [p. 77 modifica]

Dopo la partenza d’Ivan Ogareff, Nadia s’era nascosta nell’ombra ed aveva aspettato che la folla avesse lasciato l’altipiano. Michele Strogoff, abbandonato come una creatura miserabile da cui più nulla s’avesse a temere, era solo. Essa lo vide trascinarsi fino a sua madre, curvarsi sopra di lei, baciarla in fronte, poi rialzarsi e brancicare per fuggire.

Alcuni istanti più tardi, essa e lui, tenendosi per mano, erano scesi giù per la balza, e dopo d’aver seguíto il margine del Tom fino all’estremità della città, valicavano felicemente una breccia della cinta.

La via d’Irkutsk era la sola che si dirigesse all’est; non v’era da sbagliarsi. Nadia trasse seco rapidamente Michele Strogoff, perchè era possibile che il domani, dopo alcune ore d’orgia, gli esploratori dell’Emiro, gettandosi di nuovo sulla steppa, tagliassero ogni comunicazione. Bisognava dunque passar loro innanzi, giungere primi a Krasnoiarsk, che 500 verste (533 kilom.) separano da Tomsk, infine non lasciare che il più tardi possibile la via maestra. Lanciarsi fuor della via tracciata era l’incerto, l’ignoto, era la morte dopo breve indugio.

Come potè Nadia sopportare le fatiche di quella notte dal 16 al 17 agosto? Come trovò essa la forza fisica necessaria a fare una tappa così lunga? In qual modo i suoi piedi sanguinosi poterono portarla fin là? È quasi incomprensibile. Ma non è men vero che il domattina, 12 ore dopo la loro partenza da Tomsk, Michele Strogoff e lei giungevano al borgo di Semilowskoe, dopo una corsa di 50 verste.

Michele Strogoff non aveva proferito parola. [p. 78 modifica]Non era Nadia che teneva la sua mano, fu lui che tenne quella della compagna tutta la notte; ma in grazia di questa mano che lo guidava unicamente co’ suoi tremiti egli aveva camminato del suo passo solito.

Semilowskoe era quasi del tutto abbandonata; gli abitanti, temendo i Tartari, se n’erano fuggiti nella provincia di Yeniseisk. Soltanto due o tre case erano abitate. Tutto ciò che la città conteneva d’utile o di prezioso era stato portato via sopra carriole.

Pure, Nadia era nella necessità di far colà una fermata di poche ore. Ad entrambi occorreva cibo e riposo.

La giovinetta condusse dunque il suo compagno all’estremità della borgata. Quivi era una casa vuota coll’uscio aperto. Vi entrarono. Una meschina panca di legno era nel mezzo della camera, presso a quell’alta stufa che si trova in tutte le abitazioni siberiane. Vi si sedettero.

Nadia guardò allora ben in faccia il suo compagno cieco, come ella non l’aveva mai guardato finora. Vi era più che riconoscenza, più che pietà nel suo sguardo. Se Michele Strogoff avesse potuto vederla, avrebbe letto in quell’occhiata desolata l’espressione d’una tenerezza infinita.

Le palpebre del cieco, arrossate dalla lama infuocata, coprivano a mezzo gli occhi suoi assolutamente arsi. La sclerotica era leggermente piegata e come accartocciata, la pupilla singolarmente ingrandita; l’iride pareva d’un azzurro più carico che non fosse prima; le ciglia e le sopracciglia erano in parte abbruciate. Ma nell’aspetto, lo sguardo penetrante del giovinotto non pareva aver subíto alcun mutamento. S’egli più non ci vedeva, [p. 79 modifica]se la sua cecità era completa, gli è che la sensibilità della retina e del nervo ottico era stata radicalmente distrutta dall’ardente calore dell’acciajo.

In quel punto, Michele Strogoff protese le mani.

— Sei là, Nadia? chies’egli.

— Sì, rispose la giovinetta, sono accanto a te, e non ti lascerò più, Michele.

Udendo Nadia pronunziare il suo nome per la prima volta, Michele Strogoff sussultò. Egli comprese che la sua compagna sapeva ogni cosa, ciò ch’egli era, e quali vincoli l’univano alla vecchia Marfa.

— Nadia, soggiuns’egli, ci toccherà separarci.

— Separarci? E perchè, Michele?

— Io non voglio essere un ostacolo al tuo viaggio! Tuo padre t’aspetta ad Irkutsk! Bisogna che tu lo raggiunga.

— Mio padre mi maledirebbe se io t’abbandonassi dopo quanto hai fatto per me.

— Nadia! Nadia! rispose Michele Strogoff stringendo la mano che la giovinetta aveva posata sulla sua, tu non devi pensare che a tuo padre.

— Michele, soggiunse Nadia, tu hai più bisogno di me, che mio padre! Vuoi tu rinunziare a recarti ad Irkutsk?

— Mai! esclamò Michele Strogoff, con accento che mostrava com’egli nulla avesse perduto della propria energia.

— Pure, tu non hai più quella lettera!...

— La lettera che Ivan Ogareff mi ha rubato!... Saprò farne di meno, Nadia! M’hanno trattato come una spia e tale sarò infatti. Andrò a dire ad Irkutsk tutto quello che ho veduto, quello che ho inteso, e giuro per il Dio vivente, che il

[p. 2 modifica]In quel punto, Michele Strogoff protese le mani.

(Vol. III, Cap. VI, pag. 79).

[p. 80 modifica]traditore mi ritroverà un giorno faccia a faccia! Ma bisogna ch’io giunga prima di lui ad Irkutsk.

— E tu parli di separarci, Michele? soggiunse la giovinetta.

— Nadia, i miserabili mi hanno preso ogni cosa!

— Mi rimangono alcuni rubli ed i miei occhi! Io posso vederci per te, Michele, e condurti là dove tu non puoi più andar solo!

— E come andremo noi?

— A piedi.

— E come vivremo?

— Mendicando.

— Partiamo, Nadia.

— Vieni, Michele.

I due giovani non si davano più il nome di fratello e di sorella. Nella loro comune miseria, essi si sentivano più strettamente legati l’uno all’altra. Lasciarono entrambi la casa dopo essersi riposati un’ora. Nadia, correndo per il paese, s'era procurata qualche tozzo di tchornekhleb, specie di pane fatto con orzo, ed un po’ di quell’idromele, conosciuto col nome di méod in Russia. Tutto codesto non le era costato nulla, perchè essa aveva cominciato il suo mestiere di Mendicante. Quel pane e quell’idromele avevano alla meglio quetato la fame e la sete di Michele Strogoff. Nadia gli aveva serbato la maggior porzione di quel cibo insufficiente. Egli mangiava i pezzi di pane che la sua compagna gli presentava l’uno dopo l’altro, e beveva alla fiaschetta ch’essa gli accostava alle labbra.

— E tu mangi, Nadia? le chiese più volte Michele Strogoff.

— Sì, Michele, rispondeva sempre la giovinetta che s’accontentava dei resti del suo compagno. [p. 81 modifica]

Michele Strogoff e Nadia lasciarono Samilowskoe e ripresero quella penosa strada d’Irkutsk. La giovinetta resisteva energicamente alla fatica. Se Michele Strogoff l’avesse veduta, forse non avrebbe avuto il coraggio d’andar più lontano. Ma Nadia non si lamentava, e Michele Strogoff, non intendendo un sospiro, camminava con una fretta che non era padrone di reprimere. E perchè? Poteva egli dunque sperare di passar innanzi un’altra volta ai Tartari? Egli era a piedi, senza danaro, era cieco, e se Nadia, sua unica guida, venisse a mancargli, non avrebbe più che a coricarsi sopra un canto della via e morirvi miseramente! Ma se, a forza di energia, giungeva a Krasnoiarsk, tutto non era forse perduto, poichè il governatore, a cui egli si darebbe a conoscere, non esiterebbe a dargli i mezzi di giungere ad Irkutsk.

Michele Strogoff camminava dunque assorto nei proprî pensieri. Egli teneva Nadia per mano. Così entrambi erano in comunicazione incessante, e pareva loro di non aver più bisogno della parola per scambiare il loro pensiero. Ogni tanto Michele Strogoff diceva:

— Parlami, Nadia.

— A qual pro’, Michele? Noi pensiamo insieme! rispondeva la giovinetta, facendo in guisa che la sua voce non svelasse alcuna stanchezza.

Ma talvolta, come se il suo cuore avesse un istante cessato di battere, le sue gambe piegavano, il suo passo rallentava, si tendeva il suo braccio, ed essa rimaneva indietro. Allora Michele Strogoff s’arrestava, e fissava gli occhi suoi sulla povera fanciulla, come se avesse cercato di vedere attraverso l’ombra che gli nascondeva la luce. [p. 82 modifica]Gli si gonfiava il petto; poi, sorreggendo più forte la compagna, ripigliava le mosse innanzi.

Pure, in mezzo a tutte queste miserie continue, quel giorno avvenne tal cosa fortunata che doveva risparmiar molte fatiche ad entrambi.

Avevano lasciato Samilowskoe da due ore circa, quando Michele Strogoff s’arrestò.

— È deserta la via? domandò egli.

— Assolutamente deserta, rispose Nadia.

— Non odi tu un rumore alle nostre spalle?

— Sì.

— Se sono i Tartari bisogna nasconderci. Guarda bene.

— Aspetta, Michele! rispose Nadia spingendosi fin là dove la strada faceva una svolta.

Michele Strogoff rimase un istante solo, porgendo l’orecchio.

Nadia tornò quasi subito e disse:

— È una carretta condotta da un giovinotto.

— È solo?

— Solo.

Michele Strogoff esitò un istante. Doveva egli nascondersi, oppure tentare di trovare un posto in quel veicolo, se non per sè, almeno per lei? Quanto a lui, s’accontenterebbe di appoggiarsi con una mano alla carretta, e di spingerla al bisogno perchè le sue gambe gli servivano ancora benissimo, ma sentiva che Nadia, trascinata a piedi da più di otto giorni, era sfinita di forze.

Aspettò.

La carretta giunse poco stante alla svolta della via.

Era un veicolo molto sconquassato, che poteva a mala pena contenere tre persone, era quello che nel paese si chiama una kibitka. [p. 83 modifica]

Solitamente, la kibitka è tirata da tre cavalli; questa invece aveva un solo cavallo dal lungo pelo, dalla lunga coda, ma di razza mongola, e perciò pieno di vigoria e di coraggio.

Un giovinotto la conduceva con un cane al fianco.

Nadia riconobbe che quel giovane era Russo, dalla faccia dolce e flemmatica, che esprimeva la fiducia. Non pareva aver fretta menomamente. Camminava con passo tranquillo per non affaticar di troppo il cavallo, e, a vederlo, non si avrebbe creduto mai ch’egli seguisse una strada che i Tartari potevano tagliare da un momento all’altro.

Nadia, tenendo Michele Strogoff per mano, s’era messa di fianco.

La kibitka s’arrestò, e il conduttore guardò la giovinetta sorridendo.

— E dove diancine dunque ve n’andate così? gli domandò costui aprendo tanto d’occhi buoni e tondi.

Al suono di questa voce, Michele Strogoff pensò che l’aveva udita in qualche luogo, e, senza dubbio, bastò questo a fargli riconoscere il conduttore della kibitka, perchè la sua fronte si rasserenò subito.

— Ebbene, dove dunque andate? ripetè il giovinotto rivolgendosi direttamente a Michele Strogoff.

— Andiamo ad Irkutsk, rispose costui.

— Oh! babbo mio, non sai tu dunque che ci sono ancora molte verste da percorrere prima di giungere ad Irkutsk?

— Lo so.

— E te ne vai a piedi? [p. 84 modifica]

— A piedi.

— Tu, sta bene! ma la signorina?...

— È mia sorella, disse Michele Strogoff giudicando prudente di dare un’altra volta questo nome a Nadia.

— Sì, tua sorella, babbo mio. Ma credi a me, essa non potrà mai giungere ad Irkutsk!

— Amico, rispose Michele Strogoff accostandosi, i Tartari ci hanno spogliati, ed io non ho un kopek da offrirti; ma se tu vuoi prendere sulla carretta mia sorella, io verrò dietro a piedi, correrò se sarà necessario, e non ti farò ritardare un’ora...

— Fratello, esclamò Nadia, io non voglio... no, non voglio! Signore, mio fratello è cieco!

— Cieco! rispose il giovinotto con voce commossa.

— I Tartari gli hanno bruciato gli occhi! rispose Nadia tendendo le mani come per implorare pietà.

— Bruciato gli occhi! Oh! poveretto! Io vado a Krasnoiarsk. Ebbene, e perchè non vorresti tu salire nella kibitka insieme con tua sorella? Stringendoci un pochino, ci staremo tutti e tre. D’altra parte il mio cane s’adatterà ad andare a piedi. Solamente, io non vado presto, per risparmiare il mio cavallo.

— Amico, come ti chiami tu? domandò Michele Strogoff.

— Mi chiamo Nicola Pigassof.

— È un nome che non dimenticherò più, rispose Michele Strogoff.

— Ebbene, vien su, babbo mio. Tua sorella ti starà vicina, in fondo alla carretta, io starò dinanzi per guidare. Vi è della buona scorza di betulla e [p. 85 modifica]della paglia d’orzo in fondo. C’è da farcisi il nido.

— Via, Serko, lasciaci il posto!

Il cane scese senza farsi pregare. Era un animale di razza siberiana, dal pelo grigio, di mezzana statura, dalla grossa testa carezzevole, e sembrava molto affezionato al suo padrone.

Michele Strogoff e Nadia in un istante furono accomodati nella kibitka. Michele Strogoff aveva proteso le mani per cercare quelle di Nicola Pigassof.

— Sono le mie mani che tu vuoi stringere? disse Nicola. Eccole, babbo mio! Stringile pure quanto ti pare e piace!

La kibitka si rimise in cammino. Il cavallo, che Nicola non frustava mai, andava all’ambio. Se Michele Strogoff non doveva guadagnare in rapidità, almeno sarebbero risparmiate nuove fatiche a Nadia.

E siffatto era lo sfinimento della giovinetta, che, cullata dal movimento monotono della kibitka, essa cadde poco stante in un sonno che somigliava ad una perfetta prostrazione. Michele Strogoff e Nicola la coricarono sul fogliame delle betulle come meglio poterono. Il compassionevole giovinotto era tutto commosso, e se non usciva una lagrima dagli occhi di Michele Strogoff, in verità, è perchè il ferro incandescente ne aveva inaridito la sorgente!

— È graziosa, disse Nicola.

— Sì, rispose Michele Strogoff.

— La vuol esser forte, babbo mio, è piena di coraggio, ma in fondo è debole! queste piccine sono tutte così. — Venite da lontano, voi?

— Da molto lontano.

— Poveri giovani! — Ti han dovuto fare molto male quando ti hanno bruciato gli occhi! [p. 86 modifica]

— Molto male, rispose Michele Strogoff volgendosi come se avesse potuto vedere Nicola.

— E non hai pianto?

— Sì.

— Anch’io avrei pianto. Pensare di non veder più le persone amate... Ma esse almeno ci vedono, ed è forse una consolazione!

— Sì, forse. — Dimmi, amico, domandò Michele Strogoff, non m’hai tu veduto in qualche parte?

— Visto te, babbo mio? No mai.

— Gli è che il suono della tua voce non m’è nuovo.

— Vedete un po’! rispose Nicola sorridendo. Egli conosce il suono della mia voce! Forse tu mi domandi questo per sapere donde vengo. Te lo voglio dire. Vengo da Kolyvan.

— Da Kolyvan? disse Michele Strogoff. Ma allora è là che t’ho incontrato; tu eri al posto telegrafico?

— Può essere, rispose Nicola. Io stava là. Ero l’impiegato incaricato delle trasmissioni.

— E sei rimasto al tuo posto fino all’ultimo momento?

— È segnatamente in quel momento che bisogna esserci,

— Era il giorno in cui un Inglese ed un Francese si contendevano, coi rubli in mano, il posto al tuo sportello, ed in cui l’inglese telegrafò i primi versetti della Bibbia.

— Babbo mio, questo può essere, ma non me lo ricordo.

— Come! non te lo ricordi?

— Io non leggo mai i dispacci che mando. Siccome il mio dovere è di dimenticarli, la più spiccia è di non conoscerli. [p. 87 modifica]

Questa risposta dipingeva Nicola Pigassof.

Frattanto la kibitka andava del suo passo solito che Michele Strogoff avrebbe voluto rendere più rapido. Ma Nicola ed il suo cavallo erano avvezzi ad un’andatura da cui non avrebbero potuto dipartirsi nè l’uno nè l’altro. Il cavallo camminava tre ore e si riposava una, — così giorno e notte. Durante le fermate il cavallo pascolava, ed i viaggiatori della kibitka mangiavano in compagnia del fedele Serko. La kibitka era fornita per venti persone almeno, e Nicola aveva messo generosamente le sue provviste a disposizione dei due ospiti, che credeva fratello e sorella.

Dopo una giornata di riposo, Nadia ebbe ricuperato una parte delle sue forze. Nicola badava a farla stare il meglio possibile. Il viaggio si compiva in condizioni sopportabili, lentamente senza dubbio, ma regolarmente. Accadeva pure talvolta che, durante la notte, Nicola, pur guidando la carretta, s’addormentasse e russasse con una convinzione che faceva prova della serenità della sua coscienza. Forse allora, guardando bene, si sarebbe vista la mano di Michele Strogoff cercare le redini del cavallo e fargli prendere un’andatura più rapida, con gran stupore di Serko, che per altro non diceva nulla. Poi quel trotto ridiventava immediatamente ambio, appena Nicola si svegliava, ma la kibitka non aveva perciò tralasciato di guadagnar qualche versta sulla sua velocità regolamentare.

Di tal guisa furono attraversati il fiume d’Ichimsk i borghi d’Ichimskoe, Berikylskoe, Kuskoe: il fiume di Mariinsk, la borgata dello stesso nome, Borgostowkoe e finalmente la Tchula, piccolo corso d’acqua che separa la Siberia occidentale dalla [p. 88 modifica]Siberia orientale. La via si svolgeva ora attraverso immense lande che lasciavano un campo vasto agli sguardi, ora sotto fitte ed interminabili foreste d’abeti, da cui si credeva di non poter uscir mai.

Tutto era deserto. Le borgate erano quasi interamente abbandonate. I contadini erano fuggiti al di là dell’Yenisei, credendo che quel largo fiume avesse forse ad arrestare i Tartari.

Il 22 agosto, la kibitka giunse al borgo d’Atchinsk a trecentottanta verste da Tomsk. Centoventi verste la separavano ancora da Krasnoiarsk. Nessun incidente aveva segnalato questo viaggio. Da sei giorni che erano insieme, Nicola, Michele Strogoff e Nadia erano rimasti i medesimi, l’uno saldo nella sua calma inalterabile, inquieti gli altri due, e pensosi del momento in cui il loro compagno dovrebbe separarsi da essi.

Si può ben dire che Michele Strogoff vedesse il paese percorso cogli occhi di Nicola e della giovinetta. A volta a volta entrambi gli dipingevano i luoghi in vista dei quali passava la kibitka. Egli sapeva se era in foresta od in pianura, se si mostrava qualche capanna sulla steppa, o se all’orizzonte appariva qualche Siberiano. Nicola non taceva mai. Gli piaceva cianciare, e qualunque si fosse la sua maniera di considerare le cose, si amava udirlo.

Un giorno, Michele Strogoff gli domandò che tempo faceva.

— Abbastanza bello, babbo mio, rispose egli, ma sono gli ultimi giorni dell’estate. L’autunno è breve in Siberia, e presto avremo i primi freddi dell’inverno. Forse i Tartari pensano d’accantonarsi durante la brutta stagione.

Michele Strogoff crollò il capo in aria di dubbio. [p. 89 modifica]

— Non lo credi, babbo mio, rispose Nicola Pigassof. Credi tu che andranno fino ad Irkutsk?

— Lo temo, rispose Michele Strogoff.

— Sì... hai ragione. Essi hanno seco un cattivaccio che non li lascierà raffreddare per istrada.

— Hai tu inteso parlare d’Ivan Ogareff?

— Sì.

— E sai tu che è una gran furfanteria tradire il proprio paese?

— Sì, è una gran furfanteria! rispose Michele Strogoff, che volle serbarsi impassibile.

— Babbo mio, soggiunse Nicola, mi pare che tu non t’adiri abbastanza quando si parla dinanzi a te d’Ivan Ogareff! Ogni cuore russo deve dare un balzo quando si pronuncia questo nome!

— Credimi, amico, io l’odio più di quello che tu non potrai odiarlo mai, disse Michele Strogoff.

— Non è possibile, rispose Nicola, no, non è possibile! quand’io penso ad Ivan Ogareff, al male ch’egli fa alla nostra santa Russia, la collera mi piglia, e s’io l’avessi in mano...

— Se tu l’avessi in mano, che faresti?

— Credo che l’ucciderei.

— Ed io ne sono sicuro, rispose tranquillamente Michele Strogoff.