Novelle (Bandello)/Prima parte/Novella LVIII

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Prima parte
Novella LVIII

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Fra Filippo Lippi fiorentino pittore è preso da’ mori e fatto schiavo


e, per l’arte de la pittura, è fatto libero ed onorato.


Questo monsignor cardinale s’è molto meravigliato de la liberalitá che meco usa questo nostro eccellentissimo e liberal signor duca Lodovico; ma io assai piú di lui mi meraviglio e de la sua, – sia mò questo con riverenza del suo rosso cappello detto, – ignoranza, dimostrando egli poco esser essercitato ne la lezione dei buoni autori. E per non dirvi de l’onore che era fatto agli uomini eccellenti ne le varie scienze e ne l’altre arti, che sempre furono in grandissimo pregio, voglio per ora solamente parlarvi de l’onore e riverenza avuta ai pittori. Né pensate che io voglia tenervi lungamente a bada e discorrer per il catalogo di tutti i pittori famosi che fiorirono in quei buon tempi antichi; ché se ciò far volessi, il giorno d’oggi non ci basterebbe. Voglio che circa gli antichi d’un sol essempio del magno Alessandro e del gran pittore Apelle siamo contenti, e che dei moderni un solo d’un pittor fiorentino ci basti. Venendo adunque al fatto, vi dico che Apelle fu in grandissima riputazione appo Alessandro magno e tanto suo domestico che assai sovente egli entrava ne la bottega d’Apelle a vederlo dipingere. Ed una volta tra l’altre, disputando Alessandro con alcuni e dicendo molte cose indottamente, Apelle assai mansuetamente lo riprese dicendogli: – Alessandro, taci e non dir coteste fole, perché tu fai rider i miei garzoni che distemperano i colori. – Vedete se l’autoritá d’Apelle appo Alessandro era grande, ancora che egli fosse superbo, sdegnoso e fuor di misura iracondo. Lasciamo che Alessandro per publico editto comandasse che nessuno il dipingesse se non Apelle. Volle egli che una volta Apelle facesse il ritratto di Campaspe sua bellissima concubina e che la dipingesse ignuda. Apelle veduto l’ignudo e formosissimo corpo di cosí bella giovane, fieramente di quella s’innamorò; il che Alessandro conoscendo, volse che egli in dono l’accettasse. Fu Alessandro d’animo grande, e in questo caso divenne di se stesso maggiore, né men grande quanto s’avesse acquistato una gran vittoria. Vinse egli se stesso, e non solamente il corpo de la sua amata Campaspe donò ad Apelle, ma gli diede anco l’affezione che a quella aveva, non avendo rispetto veruno a lei, che d’amica d’un tanto re ella divenisse amica d’un artefice. Ora vegniamo ai tempi nostri, e parliamo d’un pittor fiorentino e d’un corsaro di mare. Fu in Firenze Tomaso Lippi, il quale ebbe un figliuolo chiamato Filippo, che d’anni otto, essendo morto il padre né avendo come sostentar la vita, fu da la povera madre dato a’ frati del Carmeno. Cominciò il fraticello in luogo d’imparar lettere, tutto il dí ad imbrattar carte e mura facendo qualche schizzo di pittura; il che veduto dal priore e conosciuta l’inclinazione del fanciullo, gli diede comoditá di darsi a la pittura. Era nel Cármino una cappella di nuovo dipinta da un ecellente pittore. Piaceva ella molto a fra Filippo Lippi, che cosí il fraticello era appellato, onde tutto il dí era dentro con altri garzoni a disegnare, e gli altri di cosí gran lunga avanzava di prestezza e di sapere, che appo ciascuno che il conosceva era ferma ed universal openione ch’egli ne l’etá matura devesse riuscire pittor eccellentissimo. Ma fra Filippo nel fiorir degli anni non che ne l’etá matura tanto s’avanzò e cosí divenne nel dipinger perfetto, che tante lodevoli opere fece che fu un miracolo, come in Firenze nel Carmeno e in altri luoghi oggidí si può vedere. Il perché sentendosi da molti lodare e rincrescendogli la vita fratesca, lasciò l’abito da frate ancor che giá fosse ordinato diacono. Fece molte belle tavole dipinte al magnifico Cosimo de’ Medici, al quale fu di continovo carissimo. Era il pittore sovra modo libidinoso ed amator di femine, e come vedeva una donna che gli fosse piacciuta, non lasciava cosa a far per averla e le donava tutto ciò che aveva, e mentre in lui questo umor regnava, egli nulla o poco dipingeva. Faceva fra Filippo una tavola a Cosimo dei Medici che egli voleva donar a papa Eugenio veneziano; e veggendo il Magnifico che egli assaissime volte lasciava il dipingere e dietro a le femine si perdeva, volle tirarlo in casa, ve lo tirò, a ciò che fuor non andasse a perder tempo, ed in una gran camera le rinchiuse. Ma statovi a gran pena tre giorni, la seguente notte con un paio di forbici fece alcune liste de le lenzuola del letto, e da una finestra calatosi, attese per alquanti giorni a’ suoi piaceri. Il magnifico Cosimo che ogni dí era solito visitarlo, non lo trovando, molto fu di mala voglia, e mandatolo a cercare lo lasciò poi dipingere a sua volontá, e fu da lui con prestezza servito, dicendo egli che i pari suoi, d’ingegni rari e sublimi, sono forme celestiali e non asini da vettura. Ma vegniamo al fatto per cui mosso mi sono a ragionarvi di lui, per mostrarvi che la vertú ancora appresso ai barbari è onorata. Era fra Filippo ne la Marca d’Ancona, e andando un dí in una barchetta con alcuni amici suoi a diportarsi per mare, ecco che sovragiunsero alcune fuste d’Abdul Maumen, gran corsaro alora de le parti di Barbaria, e il buon fra Filippo con i compagni fu preso, e tutti furono tenuti schiavi e messi a la catena e in Barberia condotti, ove in quella miseria furono tenuti circa un anno e mezzo, nel qual tempo in vece del pennello conveniva al Lippi a mal suo grado menar il remo. Ora essendo tra l’altre una volta fra Filippo in Barberia, non essendo tempo da navigare fu posto a zappare e coltivar un giardino. Aveva egli in molta pratica Abdul Maumen suo padrone, onde toccato dal capriccio, un giorno quello con carboni sí naturalmente suso un muro ritrasse con suoi abbigliamenti a la moresca che proprio assembrava vivo. Parve la cosa miracolosa a tutti, non s’usando il dissegno né la pittura in quelle bande; il che fu cagione che il corsaro lo levò da la catena e cominciò a trattarlo da compagno, e per rispetto di lui fece il medesimo a quelli che seco presi aveva. Lavorò poi fra Filippo con colori alcuni bellissimi quadri ed al padrone gli diede, il quale per riverenza de l’arte molti doni e vasi d’argento gli diede ed insieme coi compagni liberi e salvi, con le robe a Napoli fece per mar portare. Certo gloria grandissima fu questa de l’arte, che un barbaro natural nostro nemico si movesse a premiar quelli che schiavi sempre tener poteva. Né meno fu la virtú di fra Filippo tra noi riverita. Ebbe modo egli d’aver una bellissima giovane fiorentina detta Lucrezia, figliuola di Francesco Buti cittadino, e da quella ebbe un figliuolo chiamato anco egli Filippo, che poi riuscí pittore molto eccellente. Vide papa Eugenio molte meravigliose opere di fra Filippo, e tanto l’amò, tenne caro e premiò, che lo volle, ancor che fosse diacono, dispensare che potesse prender la Lucrezia per moglie. Ma egli non si volse a nodo matrimoniale legare, amando troppo la libertá.


Il Bandello al molto magnifico e reverendo


signor Giorgio Beccaria


Secondo la commission vostra, venendo da Pavia a Milano il nostro piacevole e vertuoso messer Amico Taegio mi portò la vostra bellissima ed amorosa Psiche, da voi da l’Apuleio latino tradotta ne la lingua italiana, e strettissimamente mi pregò che io volessi con diligenza leggerla e rileggerla, e con libero giudicio dirvene il mio parere, perché essendo voi d’animo di mandarla fuori, desiderate che possa lasciarsi vedere. Io di questa vostra amorevolezza e buona openione che di me avete ve ne rendo quelle grazie che per me si ponno le maggiori, e meco mi rallegro che tale mi stimate qual esser mi converrebbe a voler de l’altrui fatiche ne l’opere de le lettere far giudicio. Tuttavia ancora ch’io non mi riputo tale, non ho voluto mancar al desiderio vostro, e tanto piú volentieri quanto che mi pare con questo ufficio sodisfar in qualche parte a le tante vostre cortesie che meco, la vostra mercé, usate ogni volta che io vengo a Pavia. Presi adunque subito Apuleio in mano e conferendo di periodo in periodo; o come volgarmente si dice, di clausula in clausula il latino con l’interpretazion vostra, a me pare che voi ottimamente a l’ufficio del buono interprete abbiate sodisfatto, non vi curando render parola a parola, ma con circonlocuzioni in alcuni luoghi esprimendo chiaramente il senso de le parole e sentimento apuleiano. E perché possiate fermamente credere che io tutta la vostra Psiche abbia letta ed ogni cosa minima considerata, ho annotato qualche passo ed alcune poche parole, come nel foglio che vi mando vederete, a ciò che parendovi le mie annotazioni degne di considerazione vi possiate pensar suso e cangiar ciò che vi parrá. Ora essendomi venuta a le mani una de le mie novelle che altre volte io scrissi, quella ho voluto al vostro nome intitolare e donarvela. Ella fu da messer Francesco Polizzo da Medole recitata a la presenza del magnanimo eroe il signor Federigo Gonzaga di Bozzolo, essendo io a Bozzolo alloggiato con il detto signore. State sano.