Novelle (Bandello)/Prima parte/Novella X

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Prima parte
Novella X

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Maometto imperador de’ turchi crudelmente ammazza una sua donna.


Volete voi veder, signore mie, che molti dicono che amano e non sanno ciò che si dicano, perciò che quello che da loro è chiamato amore non è amore, ma un disordinato appetito, una sfrenata voglia, un furore ed una bestialitá? Statemi ad ascoltare e giudicate se io vi dico il vero o no, ché altri giudici non vo’ io per ora, donne mie care, che voi. Maometto, figliuolo d’Amorato Ottomanno re de’ turchi, fu quello che, con vituperio grandissimo e infamia eterna di tutti i prencipi cristiani che in quella etá erano, debellò Constantinopoli negli anni de la nostra salute MCCCCLIII, ed occupò l’imperio greco, essendo MCXCI anno che Costantino figliuolo d’Elena cominciò a metter l’imperio a Constantinopoli avendolo tolto da Roma. Ed in questo si può avvertire che secondo che l’imperio greco cominciò in Costantino figliuolo d’Elena, terminò anco e si finí in Costantino Paleologo, medesimamente figliuolo d’una Elena; il quale, veggendo i turchi esser entrati dentro la cittá e che rimedio non v’era a poterla ricuperare, spogliatosi le vesti che sopra l’arme aveva, che imperadore il dimostravano, animosamente in mezzo de’ turchi si mise, e combattendo animosamente da gagliardo e viril soldato molti ne ammazzò. A la fine, senza mai voltar le spalle, in mezzo ai nemici, avendo per le molte ferite perduto il sangue, cadde in terra morto. Avuta adunque cosí gran vittoria, Maometto, che di natura era crudelissimo, ordinò che Calibasso, che gli era dal padre stato ordinato governatore, fosse ammazzato, perciò che aveva ne la rovina di Costantinopoli vietate molte crudeltá. E cosí il buon Calibasso fu crudelissimamente con varii tormenti morto. Ora rivedendosi la preda che in cosí ricca cittá s’era fatta, vi si ritrovò una bellissima giovane greca chiamata Irenea, d’etá di sedeci in dicesette anni, la quale fu giudicata per la piú bella giovane che mai si fosse veduta. Onde volendo quelli a cui in sorte era toccata gratificare il loro imperadore, quella a Maometto donarono. Era Maometto assai giovine ed inclinatissimo a la libidine, come per lo piú son tutti i turchi, e veggendo sí bella giovanetta e senza fine sendogli piacciuta, comandò che gli fosse serbata facendo pensiero di darsi seco il meglior tempo del mondo. Io non oso dire che egli mai l’amasse, perciò che, se amata l’avesse, da l’amore non sarebbe riuscito cosí vituperoso fine come ne uscí. Cominciò adunque Maometto a praticar con Irenea e di lei prendersi tutti quei piaceri che da una donna possa un uomo pigliare, e tanto di lei s’invaghí e sí gli piaceva la pratica, che giorno e notte mai da lei non si partiva, parendo che senza la vista di lei non potesse né sapesse vivere. E sí andò questa bisogna, che circa tre anni continovamente praticò con lei, non si curando di cosa alcuna che appartenesse al governo de lo stato, lasciando la cura del tutto ai suoi basciá. Onde avvenne che, parendo a molti che le cose de la giustizia si governassero male e che i basciá a modo loro governando attendessero solamente a l’util particolare, nacque ne la corte ed anco nel popolo un gran romore. Medesimamente i giannizzeri e tutte l’altre sorti d’uomini deputati a la guerra cominciarono stranamente a mormorare, parendo loro che l’imperadore si fosse di tal sorta effeminato, che mai piú non devesse attendere a le cose militari. E tanto innanzi andò questo romore, che piú tosto sedizione si poteva nomare che mormorazione. Nessuno perciò v’era che ardisse farne motto a l’imperadore, conoscendolo di natura terribile e sovra modo crudele. Da l’altra banda, era egli sí ebro de le bellezze de la bellissima greca, che gli pareva aver acquistato piú felicitá in goder cosí formosa donna che non aveva fatto in acquistar cotanto famoso imperio. Ora, andando tuttavia la sedizion crescendo ed essendovi giá molti che dicevano non si dover a cosí effeminato imperadore ubidire, ma farne uno che attendesse a l’armi e a dilatar i termini de l’imperio e ad accrescer la sètta loro maomettana, Mustafá, che insieme con Maometto era da fanciullo allevato, giovine di grand’animo e a l’imperadore molto caro, che domesticamente ove egli era, ancor che fosse con la greca, entrava, tolta un dí l’oportunitá, passeggiando Maometto in un giardino tutto solo, riverentemente, come è il costume loro, se gli accostò e gli disse: – Signore, quando non ti fosse discomodo, io molto volentieri ti direi ciò che a me pare che a la salute tua e del tuo regno appartenga. – E che ci è? – disse alora Maometto, umanamente a Mustafá rispondendo. – Egli è il vero, signor mio, – disse Mustafá, – che io forse ti parrò presontuoso, dicendoti quanto ne l’animo mi è caduto che io debbia per ogni modo dirti. Ma sendomi io teco da’ primi anni allevato, e le molte cortesie che meco sempre tu hai usato, essendoti io fedelissimo schiavo, mi danno ardir di parlare, portando ferma openione che tu, come prudentissimo che sei, piglierai il tutto in buona parte. La vita che dopo la presa di Constantinopoli hai menato fa mormorar tutti i tuoi popoli e specialmente i tuoi soldati, veggendo che sono giá tre anni che tu, siami lecito per la salute tua cosí dire, ti perdi dietro a una femina e piú non attendi né al governo del tuo imperio né a le cose militari. Non sai, signore, se tu lasci che la tua milizia divenga neghitosa e tanto ne l’ozio si effemini e perda il solito valore, che tu perdi lo stabilimento del tuo imperio? Ove è ita quella tua grandezza d’animo che giá solevi avere? Ove è il desiderio che mostravi quando eri fanciullo di voler per ogni modo soggiogar l’Italia e coronarti in Roma? Questa certo non è la vera via d’ampliar il regno, anzi piú tosto è il modo di sminuir e perder l’acquistato. Credi tu se Ottomanno primo, che la tua famiglia innalzò, avesse fatto la vita che tu fai, che tu fussi imperadore de la Grecia? Non ti sovviene aver letto negli annali dei tuoi maggiori, che Ottomanno partito di Gallazia soggiogò la Bitinia e una gran parte de le provincie che sono intorno al mar Maggiore, e per dieci anni che regnò mai non si diede al riposo? Suo figliuolo Orcane, imitatore del paterno valore ed emulo de la vertú bellica, con grandissima felicitá domò la Misia, la Licaonia, la Frigia, la Caria, e dilatò i termini del regno fin a l’Elesponto. Amorato, che ad Orcane successe, fu il primo che l’arme turchesche con essercito in Europa portò, ove acquistò la Tracia, che Romania si dice, la Servia e la Rasia, e domò i bolgari. Che ti dirò di Paiazete, che con Solimano suo fratello, che il regno voleva occupargli, cosí valorosamente fece in Europa il fatto d’arme e quello uccise? Che animo pensi che fosse il suo quando ardí opporsi nei confini di Gallazia e di Bitinia al Tamberlano e seco guerreggiare, che aveva quattrocento mila cavalli dei suoi sciti e seicento migliara di pedoni? Furono, dopo Paiazete, Calapino, Orcane e Mosè; ma perché tra loro combatterono poco acquistarono de l’altrui. Maometto fratello di Mosè, che fu tuo avolo, non acquistò egli la Macedonia e portò le sue arme fin al mare Jonio, che termina col mare Adriatico? Medesimamente in Asia contra i lidii e i cilicii fece molte spedizioni degne di memoria. Ma che dirò io d’Amorato tuo padre, che per lo spazio continovo di quaranta anni che regnò stette sempre su l’armi, e mirabilmente aggrandí i termini de lo stato turchesco? Egli, morto il padre, passò d’Asia in Europa, e malgrado dei greci che favorivano Mustafá suo zio, che gli stati d’Europa voleva per sé, con l’aita de le navi de’ genovesi penetrò dentro la Romania, il quale con lo zio venuto a le mani, dopo lunga battaglia quello vinse ed ammazzò e rimase pacifico possessore di tutto il regno. Credi tu forse che egli si contentasse del regno che il padre lasciato gli aveva, e si desse a l’ozio? Tu dei saper, signor mio, che non ci è mai stato nessuno del sangue ottomannico il quale abbia piú faticate l’arme cristiane di lui, né che da quelle piú di lui sia stato faticato. Primieramente si vendicò contra i greci, ché molte de le lor cittá per forza prese, guastò le lor provincie, saccheggiò molte terre, spogliò le campagne, e la Romania in gran parte si fe’ tributaria. Espugnò Tessalonica, cittá nobilissima nei confini di Macedonia, che alora era sotto l’imperio dei veneziani, e passò oltra il Tomaro e Pindo con essercito grandissimo, con vittoria perpetua debellò i focensi, soggiogò la provincia Attica, la Beozia, la Etolia, l’Acarnania, e tutte le genti che sono di qua da la Morea infino al seno corinziaco al suo imperio sottomise. Giovanni Castrioto, al quale tutto il nome epirotico ubidiva, per tema di non perder lo stato, diede ne le mani di tuo padre tre figliuoli e Croia cittá, con molti altri nobili ostaggi. Che ti dirò de la battaglia che egli ebbe contra Sigismondo imperadore e Filippo duca di Bergogna, ove era il fiore de la fortezza dei cristiani? Ruppe l’imperadore e prese prigione il Borgognone e quello in Adrianopoli condusse, ove con gran peso d’oro comperò Filippo la sua libertá. Né doppo molto mandò tuo padre un essercito di centomila cavalli a guastar l’Ungaria, ove diede a quella provincia danno grandissimo sotto la cura di Mesibecco. Prese poi per moglie la figliuola di Zorzo dispota con dote grandissima, che fu tua madre, e con arme si vendicò tutto lo stato del suocero. Non mi accade ora rammemorar l’altre spedizioni belliche di tuo padre contra gli ungari, essendovi tu in persona stato, ove vedesti la diligenza, la vigilanza e la costanza di tuo padre, il quale se si fosse dato a l’ozio, tu non saresti ora sí gran signore come sei. Ma dimmi un poco: pensi tu per aver acquistato l’imperio greco e tanto ampliato il tuo dominio di restar in pace, e che piú che prima non ti bisogni proveder a la stabilitá del tuo dominio? Molti de’ tuoi sudditi adesso ti ubidiscono e ti onorano, i quali, se una guerra gagliarda a dosso ti venisse, piglieriano l’arme contra te. Tu deveresti pur sapere che tutta la cristianitá altro non pensa che offenderti. Ed ora intendo io che il lor papa altro non fa che mandar i suoi prelati qua e lá per unire tutti i prencipi de la cristianitá a rovina tua. Ma se i cristiani s’unissero, che Dio nol voglia, che faremmo noi? Se tu perseveri in questa tua vita feminile, se tu di modo ti snervi, che a poco a poco il tuo valore si perda, la virilitá si debiliti e i soldati tuoi piú non s’armino e le cose de la guerra vadano in oblio, che fora se col soffí di Persia tuo acerbissimo nemico e col soldano d’Egitto parimente tuo avversario i prencipi cristiani d’Europa s’unissero? Aborre l’animo mio a pensar a questo, e prego Dio che non doni questa mente a’ cristiani, ché certamente l’imperio tuo se n’anderebbe in fumo. Omai, signor mio, destati, ché troppo hai dormito, mostrati esser uomo e non femina, segui le vestigie dei tuoi antecessori, e attendi a governar il tuo imperio e fa che i tuoi soldati tutto il dí siano con l’arme in mano. E se pur questa greca cotanto ti piace che tu difficilmente la possi lasciare, chi ti divieta che teco ne le spedizioni non la meni? Perché non puoi goder la sua beltá ed insiememente attender a la milizia? Molto piú dilettevoli ti saranno i piaceri, se, dopo l’aver combattuto e debellato una cittá, ne le braccia di quella ti metterai, che non è ora a starle mai sempre a canto. Prova a separarti per qualche giorno da lei, e troverai per effetto esser vero quello che io ti dico, perché conoscerai chiaramente la differenza che è tra i piaceri continovati e quelli che interpellatamente si gustano. Restami, signor mio, a dirti che le tante vittorie che i tuoi maggiori hanno avute e l’acquisto che tu di questo imperio greco hai fatto, sono nulla, se tu non le mantieni ed accresci, perciò che minor vertú non è l’acquistare che il saper conservare le cose acquistate. Vince, vince, signor mio, te stesso, e vincerai tutto il resto. Ti supplico adunque, se cosa da me ti è stata detta che l’animo tuo offenda, che tu meco usando de la tua clemenza mi perdoni, e pensi che la mia servitú e il zelo de l’onor tuo e de la tua salute a questo m’ha spinto. Ti assecuro bene e santamente giurar ti posso, che io non ho detto cosa alcuna se non per giovarti. A te ora sta a far tutto quello che ti pare che sia di tuo profitto. – Si tacque dopo questo Mustafá, attendendo ciò che il suo signore devesse fare. Poi che Maometto vide il suo schiavo tacere, stette alquanto senza dir una parola, varie cose tra sé rivolgendo e nel suo viso sensibilmente mostrando la fluttuazione e contrasto che ne l’animo aveva, di modo che Mustafá assai dubitò de la vita. Avevano le parole sue amarissimamente trafitto la mente de l’imperadore, il quale tanto piú punto e trafitto si sentiva, quanto che gli pareva che Mustafá gli avesse detto il vero e parlato da fedelissimo servidore. Da l’altra parte poi era sí irretito nei lacci del dissordinato diletto che da la pratica de la bella greca pigliava, che si sentiva aprir il cor nel petto ogni volta che s’imaginava di deverla lasciare, o vero pur un dí da lei allontanarsi. Ultimamente non sapendo provedere a’ casi suoi senza il danno de la sfortunata greca, e ne l’animo suo stabilito ciò che intendeva di fare, con buon viso a Mustafá rivoltato gli disse: – Grande è stata, Mustafá, l’audacia tua a parlarmi in questo modo che parlato mi hai; ma vagliati l’esser stato nodrito meco e l’averti sempre conosciuto verso di me fedelissimo. Conosco anco che mi hai detto il vero, e in breve farò che tu e tutti gli altri vederete che io so vincer me stesso. Va, e fa che dimane tutti i basciá e i principali de la mia milizia si ritrovino a mezzodí ne la tal sala del mio palazzo. – Detto questo, l’imperadore andò a trovar la greca e seco se ne stette tutto quel dí e la seguente notte. E per quello che egli poi disse, con la greca si prese piú di piacere che mai fatto avesse, e il dí seguente desinò con lei e volle che dopo desinare ella si mettesse i vestimenti ricchissimi e gemme preziosissime piú che mai s’avesse messo. Il che ella fece, non sapendo la miserella che apparecchiava i suoi funerali. Da l’altra banda Mustafá, non sapendo l’animo del suo padrone, venuta l’ora, congregò tutti i principali de la corte in sala, meravigliandosi ciascuno che il signore gli facesse domandare, essendo tanto tempo che nessuno l’aveva in publico veduto. E stando tutti insieme in sala e ragionando tra loro variamente, eccoti che venne l’imperadore che a mano menava seco la bella greca; la quale, essendo come era bellissima e pomposissimamente abbigliata, pareva proprio una dea discesa dal cielo in terra. Subito che Maometto arrivò in sala, tutti quei turchi a modo loro l’adorarono e gli fecero riverenza; ai quali egli, fermatosi nel mezzo de la sala, tenendo tuttavia con la man sinistra la bella giovane, disse: – Voi, per quello che detto mi viene, mormorate di me, che io con questa giovane tutto il dí me ne stia. Ma io non conosco nessuno di voi che, se egli avesse sí bella donna a lato, che se ne partisse. Che ne dite voi? E dicami ciascuno liberamente il suo parere. – Sentendo questa voce del lor signore e veggendo una beltá tale quale mai piú non avevano veduta, tutti dissero che egli aveva una gran ragione se essendo giovine godeva sí bella cosa, e che da lei mai non si deveva partire. A questa voce il barbaro crudele rispose loro: – Ed io vi vo’ far conoscere che non sará mai cosa al mondo che mi possa impedire che io non attenda a la grandezza de la casa Ottomanna. – Dette queste parole, subito pigliando i capelli de la donna in mano, con la destra tolto un coltello che a lato aveva, la svenò per mezzo la gola, e la sfortunata cadde in terra morta. E come se egli avesse una rondinella uccisa, essendo tre anni che Constantinopoli aveva debellato, comandò che si mettessero a ordine centocinquanta mila combattenti, con i quali scorse tutta la Bossina, e volendo pigliar Belgrado ebbe quella memorabil rotta che gli diedero i cristiani sotto la condotta di Giovanni Uniade, cognominato il Bianco, che fu padre del glorioso re Mattia Corvino. Potete adunque vedere che in Maometto non era amore né pietá. Ché se piú non voleva trastullarsi con la greca, non la deveva il barbaro crudele ammazzare. Ma tali sono i costumi turcheschi. E chi volesse le particulari crudeltá da questo Maometto usate narrare, averebbe troppo che fare, essendo innoverabili.


Il Bandello al signor Vicenzo Attellano


Ragionandosi questi dí, ove noi eravamo, di messer Bernardino Busto dottore, che avendo trovata la notte la moglie nel letto con l’amante che subito se ne fuggí, che in quell’ora medesima, ancor che la neve fosse alta in terra, aveva mandata via la moglie scalza con una camiscia sola in dosso, furono diversi i giudicii di quelli che parlarono, secondo che sono varii gli affetti degli uomini. Voi, se ben vi ricorda, diceste che mai non avevate avuto moglie né ancora animo di prenderla, trovandovi tre gentilissimi nipoti figliuoli di vostro fratello, i quali per figliuoli proprii tenete ed amate. Che nondimeno, se mai vi cadesse ne l’animo di maritarvi e che per disaventura conosceste d’andare a la volta di Corneto, che voi non svergognareste né lei né voi, ma che pigliareste la lepre col carro, come fanno i savii che non vogliono entrare in bocca del volgo. Ci furono di molti che lodarono questa openione, e quivi molte e varie cose si dissero. Fu anco detto d’un certo barone del regno di Francia, il quale, essendo stato qualche dí e mesi fuor del paese e tornando a casa, condusse seco un figliuolin bastardo che s’aveva acquistato d’una gentildonna, e ritrovando a l’improvviso la moglie nel letto di quattro o cinque giorni, che non aveva potuto il nato figliuolo far nascondere, disse baciando la sua donna: – Moglie mia, voi ne avete fatto ed io altresí. Del passato non se ne parli piú. Chi ha fatto s’abbia fatto, e per l’avvenire attendiamo a far buona cera. – Si rise assai di questo barone e si disse che aveva mangiato troppo zafferano. Fu anco detto d’un gentiluomo di Mantova, il quale, trovato che la moglie sua aveva nel letto l’amante, fermò di sorte l’uscio che non si potesse aprire, sapendo la fenestra aver la ferrata, e se n’andò di lungo a san Sebastiano a parlar al signor Francesco Gonzaga marchese di Mantova, al quale domandò licenza d’ammazzar l’adultero che era con la moglie e lei insieme. Il marchese alora iratamente gli disse: – Becco cornuto, se tu hai ardire di torcer un pelo né a tua moglie né a colui che è seco, io ti farò impiccare. Ben ti giuro, se subito che gli trovasti insieme tu gli avessi uccisi, io te l’averei perdonato. Va e lascia partir colui liberamente. – E cosí chi diceva una cosa e chi ne diceva un’altra. A la fine l’eccellente dottore messer Francesco Midolla, senatore del parlamento di Milano e vostro cognato, uomo di singolar dottrina e di molta esperienza, disse: – Signori miei, se m’ascoltate io vi dirá quanto prudentemente un senatore di Parigi in simil caso si diportasse; – e quivi narrò un memorabil caso, il quale da me ridotto al numero de le mie novelle vi dono. State sano.