Novelle (Bandello)/Prima parte/Novella XLII

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Prima parte
Novella XLII

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Il signor Didaco Centiglia sposa una giovane


e poi non la vuole e da lei è ammazzato.


Valenza, quella dico di Spagna, è tenuta una gentile e nobilissima cittá dove, sí come piú volte io ho da mercadanti genovesi udito dire, sono bellissime e vaghe donne, le quali sí leggiadramente sanno invescar gli uomini, che in tutta Catalogna non è la piú lasciva ed amorosa cittá. E se per aventura ci capita qualche giovine non troppo esperto, elle di modo lo radeno che le siciliane non sono di loro megliori né piú scaltrite barbiere. Quivi è la famiglia dei Centigli, in quella cittá sempre stata molto famosa e d’assai ricchi ed onorati cavalieri piena, ne la quale non sono ancor molt’anni fu un cavaliero molto ricco, d’etá di ventitré anni, che si chiamava Didaco. Egli in Valenza aveva il nome del piú liberal e cortese cavaliero che ci fosse e che piú onoratamente ai giuochi de le canne, a l’ammazzar tori e a l’altre feste comparisse. Costui veduta un giorno una giovanetta di basso legnaggio, ma molto bella e sovra modo avvenente e costumata, di lei fieramente s’innamorò. Aveva la giovane la madre e dui fratelli che erano orefici, ed ella lavorava di sua mano su tele bellissimi lavori. Il cavaliero sentendosi de l’amor di costei tanto acceso che non aveva bene o riposo se non quando di lei pensava o la vedeva, cominciò assai sovente a passarle per dinanzi la casa e con ambasciate e lettere sollecitarla. Ella a cui sovra modo piaceva l’esser vagheggiata dal primo cavaliero de la cittá, né in tutto dava orecchie a le domande del cavaliero né in tutto le rifiutava, ma tenevalo cosí tra due. Egli che d’altro aveva voglia che d’esser pasciuto di parole e sguardi, e d’ora in ora piú di lei s’invaghiva e sperava con san Giovanni bocca d’oro incarnar il suo dissegno, ebbe modo di fare che ella fosse contenta di ridursi con lui a parlamento ove piú le piacesse, impegnandole quanta fede aveva che da lui non riceverebbe ingiuria né forza alcuna. La giovine communicò il tutto con la madre, la quale, ai preghi de la figliuola mossa, fu contenta che in casa il giovine le venisse a parlare. Il cavaliero ottenuto questo, ci venne, e con Violante, ché cosí era la giovanetta nomata, sempre a la presenza de la madre assai lungamente ragionò. E ben che egli fosse molto eloquente e bel parlatore, e promettesse a la madre e a la figliuola cose assai, e volesse innanzi tratto buona somma di danari darle, e quando poi si volesse maritare provederle di conveniente e ricca dote, nondimeno altra risposta da Violante aver non puotè se non che ella se gli conosceva molto esser ubligata per l’amore che egli diceva di portarle, e che ne le cose oneste ella era presta di compiacerli, ma che viveva con questo animo deliberato di prima voler morire che perder la sua onestá. La madre altresí con molte parole aiutava la figliuola. Il povero amante che era tócco di buona sorte e senza fine Violante amava, e seco d’appresso parlando piú particolarmente l’aveva considerata e piú del solito oltre ogni credenza gli era piaciuta, perciò che in vero ella era bellissima e leggiadra, veggendo che a patto nessuno, per arte che sapesse usare, per amante ottener non la poteva, deliberò prenderla per moglie. Egli la vedeva compita di beltá, di leggiadria, di grazia, di belle maniere e in tutto avveduta e gentile, e giudicava se bene era di bassa schiatta, che avendola egli per donna, ella poteva stare al paro di quante ne erano in Valenza, e che non aveva né padre né madre che lo devessero, di questo suo parentado che far voleva, sgridare. Stimolavalo poi il grande amore che a Violante portava e gli persuadeva a deverlo fare, perciò che altro non ci è in questo mondo di maggior importanza che contentarsi, e che si può ben comprar un cavallo a stanza d’un amico ed anco far de l’altre cose assai, ma che le mogli si vogliono prender secondo il cor suo. Sovvenivagli anco aver udito dire ch’uno re di Ragona non era molto tempo aveva preso per moglie la figliuola d’un suo vassallo catalano. E cosí varie cose tra sé rivolgendo e non sapendo da l’amor di costei levarsi, anzi parendogli che l’amor suo verso lei si facesse di punto in punto maggiore, la deliberazione che ne l’animo suo fatto aveva, cosí le manifestò dicendole: – Signora Violante, a ciò che possiate conoscer l’amor ch’io vi porto esser vero, e quanto vi ho detto esser dal core proceduto, quando voi vogliate perpetuamente esser mia, io, mentre che viverò, sempre sarò vostro prendendovi per mia legitima sposa. – Udendo questo la madre e la figliuola divennero molto allegre e ringraziarono Dio di tanto buona ventura, commendando senza fine questa sua umanitá. E Violante molto modestamente gli disse: – Signor Didaco, onestando voi l’amor vostro come onestate, ancor ch’io mi conosca indegna di tal cavaliero qual voi sète, essendo voi di legnaggio antico e in questo paese nobilissimo ed io di poveri e bassi parenti discesa, io vi sarò sempre leal consorte e fedelissima serva. – E cosí restarono in questa conchiusione: che egli ad ogni piacer suo sposaria a la presenza de la madre e dei fratelli, quando volesse, Violante. Piacendo al cavaliero la partita, egli quindi partendosi, con un basciar di mano a la giovane, a casa se ne ritornò. La madre come i figliuoli furono a casa narrò loro tutto quello che con il cavaliero s’era ordinato, di che i dui giovini fecero meravigliosa festa parendogli una bella cosa cosí onoratamente aver la sorella maritata e non convenire darle dote. Non stette il signor Didaco dui giorni che egli rivenne, e a la presenza de la madre, dei dui fratelli e d’un suo servidore che seco aveva condotto, del quale molto si fidava, sposò solennemente per parole di presente la sua tanto desiata Violante, pregando perciò ciascun di loro che per alcuni convenevoli rispetti questo sposalizio fin che egli lo publicasse tenessero segreto. Sposata che egli l’ebbe, la notte seguente seco se n’andò a giacere e con grandissimo piacer suo e soddisfazione di Violante consumò il santo matrimonio. E cosí perseverando in amarla stette piú d’un anno che quasi ogni notte seco andava a dormire. Egli l’aveva in questo tempo messa riccamente in ordine di vestimenta e di gioie, ed ai fratelli di lei aveva buona somma di danari donata. Il che fu cagione che molti che non sapevano come il fatto si stesse, veggendo lei superbamente abbigliata, stimarono che il cavaliero avesse l’amor de la giovane per prezzo comperato e che quella come amante o amica si godesse. E tanto piú facilmente pareva loro che il vero stimassero, quanto che il cavaliero spesse fiate di giorno domesticamente in casa le andava. Ella, ancora che qualche cosa di questo mormorar sentisse, nulla se ne curava sapendo come il fatto era e sperando in breve col publicamento del matrimonio sgannar ciascuno. Il medesimo facevano la madre ed i fratelli di lei, i quali quella sovente stimolavano che appresso al marito facesse instanzia che il matrimonio si publicasse. Violante piú volte, quando in piacer si trovava col suo sposo, quello pregava che oramai a casa come aveva promesso volesse menarla. Egli diceva di farlo e tuttavia non faceva altro sembiante di condurla. Era giá passato l’anno che insieme dopo lo sposalizio amorosamente si godevano, quando il cavaliero, o che del basso sangue di Violante si vergognasse o che di lei fosse sazio o che altro a ciò lo spingesse, cominciò a far pratica d’aver per moglie una figliuola del signor Ramiro Vigliaracuta, cavaliero d’una de le prime famiglie di Valenza. Onde continuando questa pratica, non dopo molto essendosi tra loro de la dote convenuti, egli questa altra publicamente prese per moglie. Il che essendo in Valenza notissimo e quel giorno medesimo aveva Violante sentito, tutta se ne stordí, e se rimase di mala voglia non è da dire. Ella fuocosamente e senza fine amava il cavaliero che per marito e signore teneva, e avendosi giá tanto tempo imaginato di venire ad onor del mondo tanto onoratamente come sperava, ed ora ritrovandosi schernita, non sapeva ritrovar via alcuna di consolarsi. La sera vennero i dui fratelli a casa i quali parimente avevano il nuovo matrimonio udito dire, e trovata la sorella che amaramente piangeva né consolazione alcuna voleva ricevere, quella a la meglio che puoterono insieme con la madre si sforzarono acquetare e dal pianto levarla. Ma ella fuor di misura afflitta e da estremo dolore occupata, non dava orecchie a cosa che detta le fosse, ma di continovo sospirando e lamentandosi, acerbissimamente la sua disgrazia piangeva. E cosí quasi tre giorni questa vita senza mangiare e senza bere e senza dormir facendo, a poco a poco si consumava. Astretta ultimamente da natural necessitá, prese un poco di cibo ed alquanto dormendo si riposò; e veggendo che il pianto nulla le giovava cominciò sovra i casi suoi a pensare, e non si potendo disporre a tolerar l’ingiuria che il cavaliero l’aveva fatta, deliberò se possibil era di fare che altri anco la ragionevol pena ne portasse, e prenderne tal vendetta quale a sí biasimevol sceleraggine si conveniva, a ciò che per l’avvenire gli uomini non fossero cosí facili ad ingannar le povere donne. E a nessuno il suo fiero proponimento manifestando, aspettava qualche oportuna occasione, dandole l’animo che il cavaliero le caderebbe a le mani. Deliberata adunque di farne altissima vendetta, andava tra sé imaginando il modo che tener deveva, e in questo mezzo, lasciato il pianto, attendeva a viver piú allegramente che poteva. Era in casa una schiava, femina grande e molto gagliarda di circa trenta anni, la quale voleva tutto il suo bene a Violante, avendola da fanciulla allevata e nodrita. Ella non si poteva dar pace che di questa maniera la giovanetta restasse schernita e seco assai pietosamente lagrimato ne aveva. A questa propose Violante manifestare il concetto de l’animo suo, conoscendo che ella sola non bastava a far quanto imaginata s’era di mandar ad essecuzione, e tanto piú quanto che costei le pareva piú a proposito che altra che ci fosse. E cosí il tutto le scoperse, la quale non solamente accettò d’esserle compagna, ma sommamente il suo fiero proponimento le commendò. Determinato tra lor due quanto intendevano di fare, altro non aspettavano che la comoditá, la quale si dice esser madre de le cose. Non erano ancor quindici dí passati dopo che il cavaliero aveva la seconda moglie sposata, che egli andando a diporto a cavallo per la cittá passò dinanzi la casa di Violante, la quale si ritrovò a la finestra come quella che per fermo teneva che egli sarebbe gran cosa che il cavaliero non passasse per la contrada. Come ella il vide, tutta nel viso arrossí aspettando ciò che egli devesse dire. Il cavaliero anco egli, come s’accorse che la giovane era a la finestra, alquanto di colore si mutò; ma fatto buon viso, come le fu dinanzi fermò il giannetto e riverentemente le disse: – Buona vita, signora mia; come state voi? egli mi par un anno che io non v’abbia veduta. – La giovane udendo questo, alquanto sorrise e cosí gli rispose: – Voi mi date la buona vita con parole, e d’effetti me l’avete giá data molto trista. E come io mi stia, sapete voi cosí bene com’io. Ma sia con Dio, poi che altramente esser non puote. Voi m’avete pur del tutto abbandonata, e poi dite che vi par un anno che non m’abbiate veduta. Io mi avveggio bene che piú di me non vi cale, e vogliovi dire che io sempre di questo dubitai, perciò che non era diventata cosí cieca né perduto tanto l’intelletto che io non conoscessi la mia bassezza non esser de la vostra grandezza degna. Nondimeno io vi prego che degnate talora di me ricordarvi, ché vogliate o no, io fui e sarò sempre vostra. – Il cavaliero inteso questo e veggendo che la donna non faceva maggior romore, si pensò averne buon mercato e cosí le disse: – Quello che io ho fatto, signora mia, è stato necessario farlo per metter una perpetua pace tra la famiglia mia e la Vigliaracuta, tra le quali sono state sanguinose mischie e il tutto adesso con questo parentado s’è acconcio. Né per questo sarete mai da me abbandonata, perciò che in ogni cosa che per me si potrá a beneficio vostro operare io sempre il farò di buon core, e per l’avvenire v’accorgerete che l’amor mio verso di voi non è punto mancato. – Io me n’avvedrò, – soggiunse alora Violante, – se talvolta voi vi lasciarete vedere e godervi. – Il cavaliero dicendo di farlo si partí, e non essendo cinquanta passi da la casa dilungato, chiamò a sé quel servidore che era del tutto consapevole e gli disse: – Ritorna a dietro e di’ a la signora Violante che a ciò che conosca che io l’amo e tengo conto di lei, che non le dando disagio io me ne verrò questa notte a starmi buona pezza seco. – Fece il messo l’ambasciata a la donna, de la quale ella mostrò meravigliosamente allegrarsi. Ora veggendo Violante che il disegno suo principiava a pigliar la qualitá ch’ella voleva, subito chiamò a sé la schiava e diede ordine a quanto giá aveva deliberato di essequire. Venuta la notte, poi che il signor Didaco buona pezza fu stato con la nuova sposa con cui cenato aveva e seco ancora non s’era congiunto, con buona licenza di quella si partí; e mandati via tutti i servidori che seco aveva, ritenne quel solo che sapeva il fatto, e a casa di Violante se n’andò, da la quale molto lietamente fu ricevuto. Il servidore accompagnato in casa di Violante il suo signore, andò ad albergo altrove. E perché l’ora era alquanto tarda, il signor Didaco e Violante s’andarono al letto ed amorosamente l’un de l’altro prendendo piacere ragionarono assai di questo nuovo matrimonio. Ma la deliberata giovane pareva che ad altro non attendesse, eccetto che a pregarlo che di lei per l’avvenire tenesse conto. Egli che pur l’amava, perché era bellissima e molto graziosa, largamente le prometteva di tenerla sempre per amica. Ora poi che molte fiate insieme amorosamente si trastullarono e fattosi carezze piú de l’usato grandissime, il cavaliero che stracco si sentiva, altamente s’addormentò. Come ella il sentí che fortemente dormiva, si levò quanto piú puoté chetamente di letto e aprí la camera, introducendo la schiava che a la porta l’attendeva. Presero adunque la preparata fune ed ebbero cosí la fortuna amica che il misero cavaliero prima con mille adamantini nodi annodarono che egli di nulla s’accorgesse. Destatosi poi tutto sonnacchioso, subito fu da le due audacissime donne in modo con un cavicchio sbadigliato che egli gridar non poteva. Era nel mezzo de la camera fermato un travicello per aita del trave del soffitto di quella. A questo travicello elle a mal grado di lui il cavaliero strettissimamente in piede legarono cosí ignudo come il dí che nacque. Ed ecco la indiavolata schiava recar un radente coltello con un paio di tanaglie picciole con altri ferri taglienti. Che animo crediamo noi che devesse esser alora quello di cosí infelice gentiluomo? che pensiero il suo, veggendo innanzi agli occhi suoi le due donne spiegar quei taglienti ferri ed arditamente prepararsi, come fa il beccaio quando nel macello vuol scorticare un bue od altra bestia, contra di lui? Veramente io penso che egli si trovasse molto mal contento d’aver mai offesa Violante. Ma il pentirsi da sezzo talora poco vale, dico appresso agli uomini, ché innanzi a Dio ho io sentito piú fiate predicare che il pentirsi di core sempre vale. Ora essendo il giovine in questa maniera legato, la disperata Violante prese in mano le tenaglie e con fiero viso tanto fece che la lingua del tremante cavaliero intenagliò e gli disse: – Ahi, sleale, perfido, villano e crudel cavaliero, non piú per le scellerate opere tue cavaliero ma vilissimo uomo, quanto mi duole che io di te non possa publicamente negli occhi di tutta la cittá quella vendetta prendere che la scelaraggine tua merita! Ma di modo sí fatto ti punirò che a quanti ci sono e che dopo noi verranno sarai essempio, a ciò che di beffar le semplici ed incaute fanciulle debbiano guardarsi, e quando volontariamente hanno fatto una cosa che nel cospetto di Dio è accetta, che la conservino. Non conosci, traditore, questo luogo, ove con simulate parole il matrimoniale anello mi desti e con piú falsi parlari la mia verginitá mi rapisti? Ecco, mancator di fede, il letto geniale che tu sí leggermente hai violato. Ahi, quante bugie tutte a mio danno ordinate questa falsa lingua m’ha detto! Ma lodato Iddio, ella nessun’altra piú ne ingannerá. – Dicendo questo, con un paio di forbici gli tagliò piú di quattro dita di lingua. Pigliando poi con le tenaglie le dita de le mani diceva: – Slealissimo, perché con queste dita mi desti il matrimonial anello? perché mi sposasti? perché dopoi con le braccia il collo m’avvinchiasti, se ad altri elle devevano un non legitimo anello donare? – Tagliatogli adunque con le forbici tutte le sommitá dei diti, dopo questo ella pigliò un acutissimo stiletto e rivolta agli occhi cosí disse: – Io non so, occhi ladri che degli occhi miei sète qualche tempo stati tiranni, ciò che di voi mi dica. Voi mi mostraste quando io vi mirava una infinita pietá, un immenso amore e un ardentissimo desiderio di sempre compiacermi. Ove son quelle false lagrimette che per amor mio mi deste ad intendere che avevate sparse? Quante fiate vi sforzaste voi a farmi credere che altra beltá che la mia non miravate, che altra leggiadria non era possibile a vedere che a par de la mia fosse, e che in me come ne lo specchio d’ogni gentilezza, d’ogni bel costume e di quanta mai grazia fu in donna, vi specchiavate? Si oscuri questo falso lume, – e questo dicendo tutti dui gli occhi gli accecò, – a ciò che mai piú non veggia la luce del sole. – Né di questo contenta, poi che qualche altra parte del corpo che per onestá mi taccio gli recise e quasi per ogni membro de l’infelicissimo cavaliero ebbe i suoi taglienti ferri adoperati, al core si rivolse. Era il povero giovine per le ricevute ferite piú morto che vivo e fieramente si contorceva, ma nulla gli giovava. Elle l’avevano sí fattamente legato che indarno si scoteva. Orrendo spettacolo certamente era a veder un uomo ad un travicello legato con le membra fieramente lacerate non si poter aiutare ne domandar mercé. Ora essendo Violante piú tosto stracca che sazia de la crudel vendetta che del falso marito pigliava, a lui il quale non so se poteva intendere disse: – Didaco, io ho preso di te quella vendetta che ho potuto, non quella che tu meritavi, ché il tuo fallo deveva negli occhi di tutto il popolo esser con l’ardenti fiamme purgato. Tu ti potrai almeno gloriare che per mano d’una donna che amasti, ed ella te senza fine amava, sei morto. Il che di me non avverrá, ché quando si potesse fare, io volentieri per le tue mani morrei. Ma poi che esser non può, Iddio fará di me ciò che piú gli parrá espediente. Io non ti vo’ piú tormentare. – Questo dicendo, due e tre volte il sanguinolente coltello in mezzo il core fin al manico gli piantò, e il misero giovine a queste ultime percosse quanto poteva distendendosi, di subito morí. Come elle il conobbero di questa vita passato, il sangue sparso per la camera asciugarono e slegato il corpo morto, quello in un gran cestone con le tronche membra collocarono e d’un pannolino copersero, riponendolo sotto il letto. Fatto questo, Violante a la schiava rivolta disse: – Giannica, – tal era de la serva il nome, – io non ti potrei mai ringraziare a bastanza de l’aita che data m’hai a far questa mia sí desiderata vendetta, la quale senza te impossibile era che io potessi prendere. Ora che io ho sodisfatto al mio immenso desiderio, restami solamente provedere a la tua salvezza, a ciò dopo me resti chi possa di qual maniera io mi sia vendicata al mondo far manifesto. Pertanto io vorrei che tu ti partissi e trovassi modo di passar in Affrica, che assai facile ti sará, perciò che io ti darò tanti danari che comodamente andar vi potrai e per sempre ricordarti di me. Io ho qui, – ed apersele un coffanetto, – tanti danari, oro battuto e gioie, che passano la valuta di mille e cinquecento ducati. Prendeli tutti, ché di core te li dono, e non perder tempo a salvarti. Io terrò tutto oggi la cosa celata, sí che attendi al tuo scampo. – Giannica sentendo queste amorevoli parole che la giovane le diceva, si mise dirottamente a piangere, e a modo nessuno non la voleva intendere di partirsi da lei, affermando che l’istessa fortuna che ella correrebbe, anco ella voleva passare e che per amor suo non stimava la vita. Non puoté mai tanto persuaderla che Giannica volesse partire. Onde Violante veggendo che indarno si affaticava e che quella era pur disposta di voler morir seco, propose il resto de la notte dormire, che era poco spazio. E cosí tutte due in quella camera quel poco di tempo riposarono. Destate poi che furono, di nuovo Violante essortò Giannica a fuggire, ma senza frutto. Quella matina, d’un pezzo avanti desinare, venne il servidore de l’infortunato cavaliero secondo ch’era solito, per accompagnar il padrone a casa de la nuova sposa. Come Violante lo vide, cosí gli disse: – Se tu vuoi intendere ove il tuo signore è ito, va e conduci qui il signor viceré se tu vuoi, perciò che ho commissione di manifestarlo a lui e non ad altri. Altrimenti facendo, tu ti affatichi indarno. – Partissi il servidore, e trovati uno zio ed un cugino del cavaliere, disse loro quanto Violante detto gli aveva. Questi dui sapevano de l’amore del signor Didaco e di Violante, ma non giá che fossero insieme maritati, perciò che egli strettissimamente aveva comandato al servidore che a nessuno il manifestasse. I dui parenti mai non averebbero pensato il fatto com’era. Onde di brigata andarono a trovar Violante, la quale con viso allegro fattasi loro incontro gli disse: – Signori miei, che cercate voi? – Noi vorremmo, – risposero, – che voi ne dicessi ove è ito il signor Didaco. – Perdonatemi, signori, io non vo’ romper il suo comandamento. Andate e menate qui il signor viceré e il tutto intenderete, perché da lui cosí ho commissione. – Era alora viceré il signor duca di Calavria, figliuolo del re Federico di Ragona che a Torsi in Francia morí. – Non è conveniente, – dissero quei signori, – che il signor viceré venga qua. – Fate adunque – disse ella, – o che venga o che mandi per me. – Non potendo eglino altro da la giovane cavare, andarono a parlare al viceré. Violante che con la schiava il tutto che deveva occorrere aveva considerato, si vestí piú riccamente che puoté e fece altresí che Giannica si vestisse, e stava aspettando il messo del viceré. La madre veduti venir quei signori, dimandò a la figliuola che cosa fosse questa. Ella le disse certe favole, né cosa alcuna del fatto le volle scoprire. Ed eccoti venir un sergente del viceré, il quale comandò a Violante che si devesse innanzi ad esso viceré presentare. Ella che altro non aspettava, senza far motto a la madre, con la Giannica a parlar al viceré andò. Era col signor viceré la maggior parte dei cavalieri e gentiluomini del paese. Quivi Violante arrivata e fatta la conveniente reverenza, fu dal viceré dimandata che ella devesse dir ciò che dal signor Didaco Centiglia aveva in commissione. La giovane alora non come dolente o timida femina, ma come allegra e valorosa, cosí al viceré animosamente rispose: – Signor viceré, voi devete sapere che il signor Didaco Centiglia giá piú d’un anno passato, poi che vide che il mio amor altramente aver non poteva, deliberó di prendermi per moglie e a la presenza di mia madre, dei miei fratelli e di Pietro suo servidore, che è qui, in casa mia mi sposò e meco piú di quindici mesi quasi ogni notte come mio marito si giacque. Egli poi non avendo riguardo che io era sua legitima moglie, questi dí, come per tutta Valenza si sa apertamente, la figliuola del signor Ramiro Vigliaracuta ha sposato, la quale esser non poteva sua, essendo io prima di lei legitimamente sposata. Né bastandogli questo, come se io sua putta e bagascia stata fossi, ieri sfacciatamente venne a trovarmi e mille favole e menzogne mi disse sforzandosi darmi ad intender il nero per il bianco. Ed a pena da me partito mi mandò Pietro che qui si vede, a dirmi che questa notte passata egli voleva venir a giacersi meco. Il che, come Pietro può testificare, io gli concessi, parendomi esser aperta la via a prender di lui quella vendetta che per me si poteva. Perciò son qui venuta, giustissimo viceré, a ciò che da me voi il tutto intendiate. Io né a negar né a pregare mi saprei disporre, parendomi che troppo gran vigliaccheria sarebbe d’una cosa volontaria e pensatamente operata temer punizione. Voglio adunque, il vero con buon viso liberamente confessando, diffender la fama mia, a ciò che se nessuno per il passato ha di me sinistra openione avuta, sappia ora certissimamente che io del signor Didaco Centiglia moglie vera sono stata e non bagascia. Mi basta che l’onor mio sia salvo, avvenga mò ciò che si voglia. Io, signor viceré, questa notte passata, con l’aiuto di questa schiava che meco è, da la ricevuta ingiuria stimolata, quella vendetta ho preso che m’è paruta convenevole a l’ingiuria che egli fuor d’ogni ragione, non l’avendo io offeso, m’ha fatta, e con queste mani da quello scelerato corpo ho la vituperosa anima cacciata. Egli l’onore tolto m’aveva ed io a lui ho la vita levata. Ma quanto piú si debbia l’onore che la vita apprezzare è troppo manifesto. – E quivi puntalmente il modo che tenuto aveva in ammazzarlo e come voleva far fuggir la schiava, narrò. Rimasero udendo questa tragedia tutti quei signori fuor di loro, e giudicarono la donna esser di piú grand’animo che a femina non apparteneva. Fu mandato a tòrre il miserando corpo del cavaliero che a tutti diede un orrendo spettacolo. Furono essaminati la madre, i fratelli ed il servidore, e si trovò che in effetto egli non poteva di ragione sposar la seconda moglie. E sovra la morte del cavaliero fatta inquisizione diligentissima, altri non si trovarono colpevoli che Violante e Giannica, le quali publicamente furono decapitate, e andarono tutte e due cosí allegramente a la morte come se fossero andate a festa e, per quanto s’intese, la schiava nulla di se stessa curando, solamente essortava la padrona a sopportar in pace la morte, poi che cosí altamente s’era vendicata.


Il Bandello al valoroso signore


il signor Claudio Rangone salute


Vi piacque, signor mio, questi dí menarmi a desinar con voi quando partimmo da l’alloggiamento di messer Aluigi Pisani, per la signoria di Vinegia in campo sotto Milano proveditor generale. Venni adunque con voi al vostro padiglione, dove trovammo il nostro messer Bernardo Tasso che ci attendeva per esser venuto a desinar con voi. Ci mettemmo a tavola e tuttavia desinando si cominciò a ragionare tra noi de le rime de la lingua volgare. Quivi il Tasso recitò alcuni bellissimi sonetti composti da lui in lode de la molto vertuosa signora Ginevra Malatesta, i quali essendo da voi molto lodati, voi anco voleste ch’io recitassi alcune de le mie rime. Il che feci piú per ubidirvi che perché giudicassi nessuna de le mie composizioni, che basse ed insulse sono, deversi a parangone di quelle del Tasso recitare. Cosí adunque col mangiare mischiando soavi e dolci ragionamenti e d’uno in altro parlamento travarcando, entrammo a ragionare dei varii effetti che tutto il dí veggiamo a certi amatori fare, che certamente sono effetti pieni di meraviglia e stupore, veggendosi la grandissima differenza che è tra loro, secondo che varie sono e molto differenti le nature degli operanti cotali effetti. Quivi uno dei vostri servidori cominciò a voler narrare un caso avvenuto a Modena, il quale io questi anni passati udii recitare al dotto giovine messer Gianfrancesco Furnio e lo scrissi. E dicendo io, dopo che il vostro assai brevemente detto l’ebbe, che giá scritto l’aveva, voi mi pregaste ch’io ve lo facessi vedere. Il che ora faccio, ed essa novella dal Furnio narrata vi mando e al nome vostro consacro. State sano.