Novelle (Bandello)/Prima parte/Novella XLIX

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Prima parte
Novella XLIX

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Anselmo Salimbene magnificamente operando libera il suo nemico da la morte


e la sorella di quello prende per moglie.


Se io, madama eccellentissima e voi onestissime donne e cortesi cavalieri, fossi tale quale forse da voi stimato sono, e coll’effetto corrispondessi a l’openione che di me appo voi è, veramente io mi riputarei molto aventuroso, che tra cotanti onorati, vertuosi ed eloquenti uomini quanti in questa nobilissima compagnia seder si veggiono, io fussi stato eletto a dover di cosí nobil materia come è la cortesia e la magnificenza dinanzi a voi ragionare. Ma conoscendo quali le forze mie siano, dubito assai che se io sottopongo gli umeri a cosí grave peso come m’imponete, io non resti a mezzo il camino e con mia vergogna e vostro poco diletto io sia sforzato a gettar a terra tanto grave salma. Ma poi che cosí v’aggrada e appo di voi le mie scuse non hanno luogo, che debbo io altro fare se non ubidire? Cominciando adunque a dar principio a ciò che imposto m’avete, vi dico che per ora non voglio che entriamo ne le scole dei filosofanti, i quali volendo parlar di cose magnifiche parlarebbero di quei palagi sontuosamente edificati, degli ampii e venerabili tempii, degli anfiteatri, de l’altissime moli fondate in mare, dei monti perforati per agevolar i camini, de le vie del selce e de l’altre pietre pavimentate e di simil altre opere che in vero sono degne del nome de la magnificenza. Ma io voglio che prendiamo in questi nostri domestici e piacevoli ragionamenti alquanto di libertá e che per ora non separiamo il nome del liberale dal magnifico, e che seguitando le pedate del nostro gentilissimo Boccaccio, parliamo d’amore; veggiamo quanto magnificamente con liberalitá lodevole un gentiluomo operasse, e l’atto degno di lode che fece lasceremo poi giudicare ai filosofi se magnifico, liberale o cortese si deve nomare. Noi imitaremo i padri che insieme con le mogli fanno e generano i figliuoli e, secondo la costuma de la Francia, lasciano la cura ai compari che gli mettano quel nome che piú loro aggrada. Non sono adunque ancora molti anni, per cominciarvi a narrar la mia istoria, che in Siena, cittá nobilissima e antica di Toscana, furono due nobilissime famiglie per antichitá e ricchezza riguardevoli molto e di grandissima stima, che furono quella dei Salimbeni e quella dei Montanini, ne le quali ebbero uomini in ogni sorte di vertú eccellenti. Si fece un giorno una solenne caccia di cervi e di cinghiari, a la quale intervennero assai giovini de l’una schiatta e de l’altra, tutti benissimo ad ordine e bene a cavallo. Ora avvenne che fu da’ cani morto un fiero cinghiaro, e questionando, come si fa, tra loro de la prodezza dei cani, e volendo ciascuno tener la ragione dei suoi, e dire che di quelli uno era stato primo che il cinghiaro aveva animosamente assalito e morso, e non vi s’accordando gli altri, vennero da parole a fatti e con l’arme ignude a menar le mani di cosí fatta maniera, che uno dei Montanini uccise uno dei Salimbeni. Per questo omicidio nacque una crudelissima nemicizia tra queste due famiglie, onde sí fattamente andò innanzi che de l’una parte e de l’altra molti ci furono morti, e a la fine i Montanini furono quasi ridotti al niente cosí degli uomini come de le ricchezze. Essendo poi per spazio di tempo le ingiurie andate in oblivione ed ammollita la passata durezza nei cori di coloro che in Siena dimoravano, occorse che tutta la famiglia dei Montanini era venuta in un giovine chiamato Carlo di messer Tomaso, il quale si trovava una sua sorella, senza piú. Aveva egli in valle di Strove una sola possessione assai bella che era di valuta di mille ducati, de le cui poche rendite assai parcamente insieme con la sorella viveva, perciò che de le grandi ricchezze dei suoi avi altro patrimonio non gli era rimasto, essendo i lor beni, per le passate mischie, parte stati dissipati e parte occupati dal fisco. Si manteneva adunque Carlo a la meglio che poteva, e ben che non avesse il modo di mostrarsi in vestimenti, cavalcature ed altre pompe esser gentiluomo, si vedeva nondimeno ne l’aspetto suo, nel parlare, negli atti suoi e ne la leggiadria dei costumi e in ogni sua azione, che in lui riluceva l’antica maestá de la grandezza degli avi suoi. Medesimamente la sorella sua che Angelica era detta, portava il titolo de la piú bella e meglio costumata giovanetta che si trovasse a quei tempi in Siena. E certamente aveva il nome conforme a le rare e divine sue bellezze, perché pareva proprio un angelo che fosse disceso dal cielo. Abitava a la casa di Carlo molto vicino Anselmo Salimbene, giovine per nobiltá e ricchezze di molta stima, il quale veggendo assai sovente Angelica, e le sue bellezze piú che non era il bisogno ingordamente e con affezion grandissima contemplando, sí fieramente di lei s’innamorò che come stava un’ora senza vederla gli pareva esser nel penace fuoco de l’inferno e non trovava riposo. E quello che piú l’affligeva e senza intermissione il tormentava e quasi riduceva a disperazione, era che per l’antica nemistá de la sua con la casata d’Angelica non ardiva a persona del mondo le sue cocenti fiamme manifestare, non sperando mai di poter del suo fervente amore coglier né fior né frutto, portando ferma openione che Angelica non l’averebbe giá mai amato. Mentre che Anselmo chiusamente le sue fiamme nodriva e mirabil gioia prendeva ogni volta che la sua cara ed amata giovane vedeva, la quale de l’amor di lui non s’accorgendo punto, di quello non si curava, avvenne che un cittadino nel governo di quella cittá molto potente, ma popolare, pose l’occhio a la possessione di Carlo e gli venne gran desiderio di comprarla, avendo altri suoi beni a quella vicini. Onde fece richieder a Carlo che volesse compiacergli a vendergli la sua possessione, che gliene darebbe mille ducati a la mano. Carlo che de l’antico patrimonio dei suoi altro non aveva che quel podere in contado e il palazzo in Siena, e con quello sé e la sorella parcamente sostentava, e non sapeva ove un’altra possessione ritrovare, gli fe’ risposta che vender non la voleva per modo alcuno. Il cittadino, che era uomo maligno e appetitoso de la roba altrui, prese tanto odio contra Carlo che si deliberò rovinarlo e cacciarlo del mondo. Era in quel tempo la maggior parte de la nobiltá di Siena confinata fuor de la cittá, e quelli che reggevano, ed erano popolari, odiando sommamente i nobili, fecero una legge che qualunque persona tenesse pratica con i confinati per procurar loro il ritorno a la patria pagasse mille fiorini, e non avendo da pagare gli fosse mózza la testa. Ora il maligno cittadino veggendo non poter ottener l’intento suo da Carlo, ordí un trattato a dosso ad esso Carlo e per mezzo di falsi testimonii il fece accusar a la Signoria e provare com’egli aveva tenute pratiche contra gli statuti de la cittá. Il perché Carlo fu preso dai sergenti e condotto a le prigioni publiche. Il ribaldo cittadino che non s’era scoperto nemico di Carlo, ma navigando sotto acqua si fingeva amico, mostrò adoperarsi in favor di quello, di modo che Carlo fu condennato a pagar fra termine di quindici dí mille fiorini, e non gli pagando che ne perdesse il capo. Il povero giovine veggendosi a questo termine ridutto, avendo pur desiderio naturale di vivere come tutti gli uomini hanno, pensò essergli necessario vender il suo podere, e dei mille ducati pagar i mille fiorini de la condannagione e prevalersi del sovra piú in altri bisogni. Fatta questa deliberazione, mandò per un sensale a offerire al cittadino predetto la sua possessione per il prezzo che altre fiate esso cittadino aveva voluto comperarla. Andò il sensale e fece l’ufficio che gli era stato imposto. Ma l’ingordo cittadino che vedeva Carlo esser ridotto al verde e ne l’acqua fin a la gola, disse che piú non voleva la possessione, e che pure quando avesse animo di pigliarla, che non la pagarebbe un soldo di piú di settecento fiorini. Ritornò il sensale con questa trista resoluzione a Carlo, il quale avendola udita comprese assai chiaramente il fellon animo ed avaro del cittadino. Il perché cangiando pensiero, si propose voler pazientemente la morte sofferire e lasciar la possessione a la sorella, a ciò che con quella si potesse nodrire ed a la meglio che si potesse maritarsi. Pertanto veggendo che l’innocenzia sua giustificar non poteva e per altra via non ci era modo a liberarsi, troncate tutte le pratiche di vender il suo podere, cominciò a disporre le cose de l’anima. Egli aveva molti ricchi parenti del canto de la madre, i quali sapendo lui esser incarcerato per aver fatto contra gli ordini del magistrato, non ardivano parlare a favor di lui né pagar la condannagione per non rendersi al reggimento sospetti. Angelica che unicamente amava il suo caro fratello, intendendo la deliberazione che egli fatta aveva, si sforzò assai a farlo pregare ed essortare che volesse vender il lor podere e liberarsi de la prigione e de la morte, e non stesse per dote di lei. Ma il tutto fu indarno; di che la sconsolata giovanetta viveva in tanta amaritudine che altro non faceva che giorno e notte piangere ed affligersi e consumarsi senza ricever conforto alcuno. Essendo poi venuto l’ultimo giorno del termine, che se in quel dí Carlo non pagava la moneta statuita da la Signoria, che il seguente giorno fosse su la piazza publicamente decapitato come ribello del dominio, avvenne che circa l’ora di nona Anselmo Salimbene che era stato molti dí in contado a le sue possessioni, tornando in Siena e dinanzi a la casa di Carlo passando, vide alcune donne quindi uscire e partirsi lagrimando. Il perché chiamato a sé uno che quivi vicino abitava, gli domandò se sapeva la cagione perché quelle donne, che erano fuor de la casa del Montanino uscite, piangessero. Colui che di tutto era informato narrò puntalmente ad esso Anselmo il caso di Carlo. Come Anselmo ebbe inteso il periglio ove Carlo si trovava, se n’andò a casa che, come giá detto abbiamo, era a quella di Carlo vicina, e come fu scavalcato, subito entrò in camera e serratosi dentro, essendo solo ed interamente pensando a le cose udite, conobbe chiaramente che Carlo, o fosse colpevole o no, ché questo egli non poteva giudicare, voleva prima morire che eseredar la sorella. E fatti infiniti e varii discorsi sovra questo, disse ultimamente ne l’animo suo: – A me senza dubio pare che la fortuna sia stata di me molto piú curiosa che io medesimo non averei saputo desiderare. Ecco che ella fa che Carlo Montanino col quale antica e fiera nemicizia ha la casa mia, essendo solo rimaso de la schiatta sua vivo, dimane per ribello de lo stato sará publicamente morto; e tu vederai la vendetta contra lui e il finimento di cosí nemica famiglia come è la sua, di modo che per l’avvenire non ci resta piú da chi temere i Salimbeni abbiano. Medesimamente essendo tu innamorato di sua sorella, ora potrai a tuo piacer averla e goderla amorosamente, perché essendo mózza la testa a Carlo, facilmente, morendo egli per cose de lo stato, la roba anco sará levata a sua sorella, la quale rimanendo poverissima e senza guardia di persona, io di leggero troverò mezzo d’averla a tutti i miei piaceri pieghevole. – Da l’altra parte pareva che un altro pensiero interrompesse il primo e gli dicesse: – Ahi, Anselmo Salimbene, come sei vile e di picciolo animo! Non ti sovviene che tu sei gentiluomo nato nobilissimamente? Non sai che a ogni cor gentile e magnanimo appartiene apertamente e da stesso vendicarsi de le ricevute ingiurie, o vero quelle con animo magnanimo e cesareo perdonare e chiuderle sotto eterno oblio? Ché se gloriosa cosa e vertuosa è aver sempre fisso ne la memoria i ricevuti benefici e quelli con doppia e sovrabondevole gratitudine ricompensare, certo non minor gloria e lode s’aquista magnanimamente ogni ricevuta offesa calcare. Ma dimmi, in che cosa t’ha offeso o fatto ai tuoi danno alcuno Carlo Montanino? Se i suoi avi hanno ingiuriato i tuoi, guarda il gastigo anzi pure rovina che a la famiglia dei Montanini s’è data, di modo che senza dubio la penitenzia di gran lunga supera il peccato. Tu non pensavi a vendicarti quando le bellezze e i belli e onesti modi de la sorella di Carlo tanto ti piacquero. Ove sono le tante e sí spesse lodi che tu le davi, alora che tra te stesso dicevi che ella era la piú bella, la piú gentile, la piú costumata, la piú cortese e piú onesta giovine di Siena? Elle per Dio ti sono tosto di mente uscite. Ti deverebbe pure anco sovvenire che ogni volta che veduta l’hai, e che l’hai, come a tutti gli uomini si conviene onorare e riverire il sesso feminile, fatto segno di riverenza, che ella non ha mostrato conoscerti per nemico, come tu ora contra lei ti mostri; ma cortesemente ti rendeva quell’onore che a le giovani onestissime e che di gentil creanza sono non è disdicevole render a chi le saluta e falle onore. Ella non girava il capo altrove, non torceva gli occhi a una altra banda, non si mostrava corucciosa e turbata in viso, né atto nessuno meno che leggiadro e lodevole faceva; ma tutta benigna, tutta pacifica e modesta se ne stava. Forse che ella faceva come molte fanno, le quali per mostrarsi d’esser da bene si fanno tenere scostumate, rozze e villane, le quali se sono a le finestre o in porta, come veggiono venir alcun gentiluomo, o si tirano impetuosamente dentro, o vero se sono salutate, o torceno indietro il capo o se ne stanno immote e dritte, come se di pietra, marmo o bronzo fossero formate? Angelica, ancor che de l’animo tuo non fosse consapevole, nondimeno sempre che ti ha veduto, non come avversario o nemico, piena di schivezza ti ha negato lasciarsi vedere, ma s’è di continovo mostrata piacevole e liberale. Adunque vuol la ragione che tu non la riputi nemica. E se tu l’ami, come in effetto ferventissimamente ami, come ti può dar l’animo che veggendola tu in tanto estremo e periglioso caso come ora ella si trova, tu non le abbia compassione e non ti doglia infinitamente de li suoi dispiaceri? Che dico dolere? anzi mi pare che mai tu non debbia sopportare che un fratello di colei che ami, unicamente amato da lei, sia, per non trovar mille fiorini, morto, che tanti ne hai nei tuoi coffani che per scemargliene di mille, né piú né meno sarai ricco e stimato come eri prima. Certo se mai si risapesse che tu essendo, come sei, di danari e di possessioni ricchissimo, facessi piú stima di mille fiorini che de la contentezza e piacer di colei che tanto mostri amare, ciascuno ragionevolmente per uomo che di poco cor fossi ti terrebbe e senza forse ti giudicheria villano ed avarissimo. Né ti persuadere che per tua scusa ti valesse allegar le passate ingiurie dei tuoi avi i quali, se con giuste bilance il caso sará ponderato, piú ne hanno altrui fatte che sofferte. Onde pensando ai tempi passati, sarai generalmente detto aver piú tosto natura di fiera selvaggia e crudele che animo o discorso di creatura razionale. Carlo Montanino non t’offese, che si sappia, giá mai, né consente il diritto de la ragione che la colpa di cui egli non è colpevole sia in lui castigata, ma purgare e punir si deve ne la persona che l’ha commessa. Ora avendoti, Anselmo, la natura fatto gentiluomo di nobilissima e generosa stirpe, e la fortuna dei suoi beni essendoti mostrata liberalissima, ché ricco quanto altro che in Siena sia ti ha fatto, non voler a l’una e a l’altra fare ingiuria e mostrarti loro di tanti doni da quelle ricevuti ingrato. E se al mio conseglio, che l’onore e bene tuo ti persuade, t’atterrai, tu metterai da canto tutti i rispetti e farai conoscer al mondo che quella che tu ami e le cose sue piú a core ti sono e vie piú care, che quanto oro avesse Mida o Crasso giá mai. – Avendo adunque Anselmo solo in camera fatti cotai pensieri e il tutto maturamente discorso, deliberò non voler che Carlo per mancamento di danari morisse; e, avvenissene ciò che si volesse, conchiuse tra sé determinatamente di pagar la condannagione del Montanino. Fatta questa deliberazione, aprí una sua cassa e trassene mille ducati d’oro, il cui valore assai piú valeva che non valevano i mille fiorini che pagar si devevano. Era stato Anselmo buona pezza sui suoi pensieri, il perché essendo l’ora tarda, presi alquanti suoi servidori, se n’andò a trovar il camerlingo che da la Signoria era stato deputato a ricever i danari de le condannagioni fatte a beneficio de lo stato, e trovatolo che ancora ne la camera del suo ufficio era, gli disse: – Eccovi, camerlingo, che io qui v’ho recato mille ducati d’oro, i quali Carlo di messer Tomaso Montanino vi fa sborsare per pagamento de la sua condannagione; numerateli e dannate la sua ragione, facendomi la poliza che egli sia rilassato e rimesso ne la sua libertá. – Il camerlingo ricevuti ed annoverati i mille ducati, voleva restituire il sopra piú dei mille fiorini d’Anselmo, ma egli nol sofferse. Onde il camerlingo, acconcia la partita di Carlo, scrisse la cedula de la rilassazione e la diede in mano al Salimbene. Anselmo avuta la scritta la diede ad un suo famigliare, ed essendo giá circa le ventitré ore montò a cavallo e se ne ritornò in villa. Colui che aveva la poliza, andato a le prigioni, ritrovò il capitano di quelle e disseli: – Carlo Montanino poco fa ha fatto pagar mille fiorini che da la Signoria era condannato. Eccovi la sua liberazione fatta e segnata dal camerlingo, la quale io in nome suo v’appresento, e vi richieggio che secondo l’ordine datovi lo debbiate cavar di carcere e metterlo in libertá questa sera per ogni modo. – Il capitano presa la cedula e quella letta, disse che al tutto darebbe buona espedizione. Partissi chi portata aveva la cedula, ed il capitano incontinente andato a le prigioni fece chiamar Carlo. Egli sentendosi nomare si pensò che gli avessero fatto venir il frate per confessarsi e disporre le cose de l’anima, essendosi giá preparato a la morte. Come fu al capitano arrivato, comandò esso capitano che il prigionero fosse sferrato e gli disse: – Carlo, sta allegro, perché in questa ora m’è stata recata la cedula de la tua relassazione e libertá. Perciò tu sei libero e puoi andartene a tuo piacere a casa. Ecco che io ti apro la prigione. – Sentendo Carlo questa cosí buona e non sperata nuova, fu ad un tratto pieno di meraviglia grandissima e d’infinito piacere, ed al capitano domandò chi fosse che pagata avesse la sua pena. Egli rispose nol sapere e meno conoscer chi recata gli aveva la cedula del camerlingo. Era giá passata l’ora de l’avemaria e l’aria per la sovravenente notte molto s’imbruniva. Onde Carlo, ringraziato il capitano de la buona compagnia e trattamento che fatto gli aveva, e dettogli a Dio, se n’andò verso casa. Quivi trovata la porta fermata per esser di giá notte, cominciò a picchiar a l’uscio. Angelica che ancor ne le lagrime si consumava, mandò una fanticella a veder chi a la porta picchiasse. E sentendo che era Carlo suo fratello, si levò e andogli incontra tuttavia lagrimando, e piena di piacere per la liberazione di quello, abbracciandolo non con altra allegrezza ed amore che se da morte a vita fosse revocato. Erano ancora con Angelica alcune donne sue parenti che venute erano per tenerle compagnia e consolarla in tanto suo cordoglio, le quali veduto Carlo ed abbracciatolo e seco condolute e rallegrate, subito ne diedero nuova ai lor uomini. Onde in poco d’ora fu la casa di Carlo piena dei suoi parenti, che avuta questa nuova il vennero a visitare. Si condolsero tutti seco de la prigionia e si rallegrarono che fuori ne fosse uscito. Poi si scusarono di non l’aver aiutato nel pagar de la condannagione e gli dissero i rispetti che ritenuti gli avevano. Avendo giá Carlo da la sorella inteso che ella niente sapeva de la liberazione di lui né chi si fosse che la pena aveva pagato, e ora intendendo nessuno di quelli che venuti erano a visitarlo esser stato il pagatore, restò tutto pieno di grandissima meraviglia, aspettando con il maggior desiderio del mondo il nuovo giorno per saper chi pagata la pena avesse, e a cui di tanto beneficio restava ubligato. Venuto il seguente giorno, come fu aperta la camera de l’ufficio del camerligato, egli colá si trasferí, e trovato il camerlingo che alora in camera entrava, dopo l’averlo amichevolmente salutato lo domandò chi fosse stato il pagatore dei mille fiorini in cui egli era da la Signoria condannato. Il camerlingo cosí gli rispose: – Carlo, tu saperai che iersera tra le ventitré e ventiquattro ore venne qui a trovarmi Anselmo di messer Salimbene e pagò per te mille ducati d’oro, e mi richiese che io gli facessi la cedula de la tua liberazione, il che subitamente io feci. E di piú ti vo’ dire che volendogli io restituire il sovra piú dei mille fiorini, non lo volle. Se tu ora lo vuoi, io son presto a darloti molto volentieri, avvisandoti che ancora non ho scritto la somma del tuo pagamento, pensando che tu il devessi volere. Bene iersera acconciai la tua ragione. – Carlo sentendo questo disse che altrimenti non voleva l’avantaggio dei mille ducati, e che scrivesse pure come mille ducati d’oro pagati s’erano. Ringraziatolo poi de le sue offerte, da lui si partí e a casa se ne tornò. Quivi pensando e ripensando a la cortesia e liberalitá del Salimbene ed investigando tra sé chi mosso l’avesse ad usar cotanta generositá, sapendo l’antica e crudel nemicizia che tra’ Salimbeni e Montanini con tanto spargimento di sangue era durata, non sapeva che cosa imaginarsi né che si dire. Profondandosi poi senza fine nei pensieri e minutamente tutte l’azioni d’Anselmo essaminando, e conoscendo che non ci era merito nessuno dal canto suo verso lui, gli sovvenne che talvolta l’aveva veduto molto affettuosamente guardar con occhio amoroso Angelica, ed ogni fiata che la vedeva averle sempre cortesemente fatto onore e mostrati piú segni d’animo amichevole che nemico. Onde tra sé avendo ogni cosa bene essaminata, conchiuse che per altra cosa Anselmo mosso non s’era a pagar i mille ducati se non per amor d’Angelica, perciò che quando questa dilettevol passione d’amore è abbracciata in un cor gentil e magnanimo, produce mirabili effetti di leggiadria, di cortesia e d’ogni bella e cara vertú. Fermatosi in questa openione, disse tra sé: – Poi che Anselmo Salimbene ha la vita mia che morta era, a mia sorella donata, convenevol cosa mi pare, se Angelica ed io vorremmo di tanto cortese e tanto importante dono esser tenuti grati, e riconoscenti del ricevuto beneficio che con danari pagar non si può, che noi altresí equivalente dono quanto per noi si può doniamo a lui. E qual presente fia condegno per agguagliar tanto merito quanto è il liberale e magnifico atto del cortesissimo Salimbene? Certamente egli conviene che cosí sia, che mia sorella ed io per schiavi volontarii a lui ci diamo e lo riconosciamo per nostro perpetuo signore. – Con questo pensiero e determinata fantasia se ne stette Carlo senza far palese l’animo suo a persona, fin che seppe Anselmo Salimbene, che come s’è detto era ito in villa, esser a Siena ritornato. Il giorno adunque medesimo che Anselmo ritornò, Carlo chiamata la sorella in camera, in tal guisa le cominciò favellando a dire: – Angelica mia carissima, io ti priego per quel sincerissimo e cordial amore che so che tu mi porti, che tu mi voglia con ogni attenzione ascoltare ciò che io ora ti dirò, e che tu pensi che io ci ho pensato e fatto lungo discorso sopra, prima che t’abbia voluto cosa alcuna dire. Ti dico adunque che ogni volta che io considero e mi riduco a memoria qual sia stata la condizion de la famiglia nostra in questa cittá, de la grandezza de la quale e de l’eccellenza ancora si veggiono i vestigii sparsi in diversi luoghi d’essa cittá, come sono i lieti e ricchi palazzi, logge amenissime e torri altissime, ove ancora sono sculte e dipinte l’insegne de la casa nostra, che i nostri avi con grandissima magnificenza abitarono, e mi vengono innanzi agli occhi le marmoree sepolture in diversi tempii collocate di tanti splendidi cavalieri del sangue nostro, io non posso fare che non senta una molestia grandissima e tale che di continovo il cor mio sento esser rimorso da fierissima e inestimabil passione. Io non vengo mai a casa che, entrando dentro questo nostro grandissimo palazzo, capace d’ogni piú ricca e gran famiglia di Siena, che di tante ereditá e ricchezze dei nostri passati solo con una picciola possessione ci è rimasa, ch’io non mi senta morire sovvenendomi che al tempo dei nostri avi sempre era pieno di gentiluomini e cittadini senesi, essendo alora nostro avo molto adoperato da la Signoria e mandato in varie legazioni de le quali sempre riuscí onoratamente. Misera la vita nostra, sorella mia carissima, ché da tanti beni siamo caduti e ridutti a tanta estremitá che vivendo parcissimamente a pena con una fanticella ed un fante possiamo sostenerci, ove i nostri passati davano il vivere ad infiniti uomini. Bene io ti dirò che molto maggiormente mi dorrei, e d’eterna mala contentezza mi saria cagione, quando negli animi nostri io non portassi ferma openione esser quel desiderio di gloria e d’onore che era negli antichi ed avi de la progenie Montanina, i quali sempre furono tanto altieri e magnanimi che se bene di ricchezze fossero stati da altri avanzati, non perciò giá averebbero sofferto che qualunque si fosse gli avesse superati ne l’opere de la cortesia e de la gratitudine. Giovami adunque credere che se ben la natura, o la fortuna o che si sia, ci ha in questo mondo prodotti in povero stato, ci ha levato il modo di poter con opere dimostrar la grandezza de l’animo nostro, che non per tanto ci ha levato che noi non conosciamo noi esser nati di famiglia nobilissima e molto onorata, e che il voler nostro non sia conforme, se ben le forze ci mancano, a la generositá e grandezza degli avi nostri. Il che ci rende non men nobili che eglino stati sieno. Per questo in tante nostre angustie, in tanti travagli, in tante miserie, in tanti affanni in quanti tu sai che involti siamo, mi resta almeno un contento, che avendo tu ed io ricevuta la maggior cortesia che forse in questa cittá per adietro sia stata usata giá mai a persona, egli ci è ancora, ove tu voglia, restato il modo d’operar di maniera che mai non saremo tenuti né detti ingrati. Tu sai che a questi dí passati devendomi esser come a ribello de lo stato tagliata la testa, ancora che io nel vero fossi innocente, dopo che io fossi morto, ben che a te fosse rimasa la povera possessione che abbiamo, che nondimeno tu restavi in pericolo evidentissimo di perder quella poca roba ed insieme l’onore e la fama, veggendo il poco conto che tutti i nostri parenti in cosí importante caso di te e di me hanno tenuto; ché sai chiaramente nessuno di loro averci voluto aiutar di danari né, che è peggio, di parole. Onde fermamente conchiudo esserci avvenuto tutto il contrario di quello che noi speravamo e temevamo. Speravamo che gli amici e parenti ci aiutassero, se non di danari almeno di parole, prestandoci quel favore che loro fosse stato possibile; ma nessuno s’è mosso. Eravamo in grandissimo spavento che gli avversarii e nemici nostri ci cacciassero contra, e con ogni sollecitudine e cura procurassero la rovina e morte mia. Ma, Dio buono, dove il danno si temeva, dove la rovina s’aspettava, è nata la salute, processo il favore e venuto il soccorso ed aita. Anselmo Salimbene, sorella mia cara, che noi credevamo esserci contrario e nemico, s’è, la sua mercé, scoperto propizio ed amicissimo. Egli senza esser richiesto, senza domandar sicurezza e senza mai aver da noi ricevuto né piacer né beneficio alcuno, è stato quello che per cortesia sua ha pagato a la Signoria mille fiorini, anzi mille ducati d’oro, ed ha ottenuta la mia liberazione. Che un amico per un suo amico, un parente per l’altro, o chi si sia, con sicurezza o pegno in mano paghi per altrui danari, ancora che in vero sia servigio di piacere e d’utile, non è perciò cosa che tutto il dí tra gli uomini non si costumi. Ma che un nemico volontariamente paghi buona somma di moneta per te, né motto te ne faccia, o ricerchi esser de la restituzione cauto, questa è ben cosa insolita, mirabile, lodevole, e cortesissima liberalitá, che di rado, anzi forse che non mai fu usata, e che a pieno come merita non si può con chiarissime lodi levar al cielo. Ora, dolce ed amata mia sorella, avendo io la perduta libertá e la vita insieme, e tu il tuo caro fratello che giá come morto piangevi, ed appresso il tuo onore, che sul tavoliero stava a beneficio di fortuna, fermato e messo in salvo, è necessaria cosa, se dai nostri nobilissimi avi tralignar non vogliamo, ed esser per disleali, disconoscenti ed ingrati móstri dal volgo a dito, che noi troviamo mezzo, quanto le forze nostre portano, di sodisfare in parte a tanto beneficio dal Salimbene ricevuto. E quando io vado investigando e pensando se si può venir in cognizione a che fine e per qual cagione egli a far sí cortese e liberal atto mosso si sia, dopo molti e molti pensieri che diverse volte sovra ci ho fatto, mi son afermato in questo, che tu sia quella il cui amore, per i segni che per il passato in lui ho veduti ed al presente considerati, l’abbia indutto ad usar cosí magnanima liberalitá. Il perché tu non déi volerti far ingrata né anco me similmente render villano, potendo di leggero per te e per me sodisfare. Mi pare adunque, quando io il tutto diligentemente ho discorso e che beni de la fortuna in noi non sono col cui mezzo possiamo il debito pagare, che tu ti deliberi la persona tua liberamente in potere e total arbitrio d’Anselmo Salimbene mettere, perciò che avendo egli per amor tuo liberato la vita mia da la morte, tu a lui obligata resti, ed io a lui e a te mi confesso de la stessa vita debitore. Ma sodisfacendo tu in questo modo, e te e me da l’obligo quanto per te si può liberi ed assolvi, ché avendo egli tanto con effetto dimostro averti cara, abondevolmente sodisfatto si troverá. Io dopoi porto fermissima openione che non essendo tu ancora sua, se tale e tanta dimostrazione ha fatto per te e tanto ti ha apprezzata, che vie piú ti averá cara e maggiormente ti stimerá quando tu sarai in suo potere, essendo, come egli è, d’animo gentile e generoso. E non credere, sorella mia amabilissima, che amore sí a dentro nel core del Salimbene penetrato ed abbarbicato si fosse, se tal trovato non l’avesse quale io ti dico, cioè umano, gentile, nobile e cortesissimo, il quale sempre piú stimerá ogni tuo contento che qual altra cosa egli abbia. Ma sia come si voglia, altro modo non veggio di sodisfar a l’obligo nostro che questo il quale giá t’ho manifestato. E quando ti cadesse ne l’animo di non voler essequire quello che io caldamente ed affettuosamente ti prego volontariamente a fare, perciò che per me sforzar non ti voglio, io t’assicuro che deliberato ho partirmi non solamente da la patria, ma andarmene fuor d’Italia e in sí lontani e stranieri paesi, che mai piú chi conosciuto mi ha di me udir novella non possa, perché esser non voglio chiamato uomo senza gratitudine, a me tuttavia parendo, se io ci restassi, che sino a’ fanciulli mi mostrarebbero a dito. – Si tacque Carlo cosí detto, aspettando che Angelica la quale fieramente lagrimava gli rispondesse. Ella che attentamente il fratello ascoltato aveva e tutta in dirottissime lagrime era risolta, in cotal guisa piangendo gli rispose: – Caro fratello da me sommamente amato, io sono cosí confusa che io non so da qual capo cominciar a risponderti. Ma pur essendo necessario che io ti risponda, dirò cosí confusamente ciò che a bocca mi verrá. Io credeva, – oimè, quanto sono le cose di questo mondo mutabili e varie! – che quando tu uscisti di prigionia e che scampato ti vidi da la vicina morte che ingiustamente t’era apparecchiata; credeva, ti dico, che il furore e malignitá de la fortuna avesse posto fine a le sue violenti, pungenti ed avvelenate saette che tanto tempo ha saettato contra la famiglia nostra, e che oramai devesse acquetarsi e lasciarne in tranquillitá. Ma misera me! io mi ritrovo di gran lunga ingannata e mi pare che vie piú che mai ella si mostri contra noi con minaccioso viso, e se i nostri avi ha perseguitati, rovinati e disfatti, che medesimamente ora ricerchi di cacciarne nel profondo de l’abisso e totalmente esterminar la casa nostra, ed in particolare far di me quel crudele strazio che di donna infelice facesse in questo mondo giá mai. Oimè, che io mi veggio da questa impetuosa e contraria fortuna, in tanta tenera etá in quanta mi ritrovo e in sí debol sesso com’io sono, in sí dubia e fiera agitazion di mente condotta che i piú saggi, esperimentati e forti uomini troppo averebbero che fare a saperne dirittamente riuscire. Io, lassa me! a dui estremi passi ridutta mi veggio, convenendomi per viva forza o da me divider te, fratel mio, che io unicamente amo e in cui ogni mia speme dopo Dio aveva collocata, non m’essendo in questa misera vita altro conforto rimaso né altro sostegno né consolazione alcuna, o vero volendoti conservare mi bisogni quello irrecuperabil tesoro altrui donare per il cui mantenimento ogni donna che punto di giudicio in sé abbia, deverebbe piú tosto mille vite, se tante n’avesse, porre a rischio de la morte che perderlo. Perciò che con quello la vita veramente è vita, e a chi lo mantiene giova di vivere; ove per il contrario quella che conservar non lo sa o pazzamente lo perde, se ben vive, non è viva, anzi vie peggio che morta si può chiamare. E, per Dio, che cosa di buono, di riguardevole, d’amabile ha la donna di cui l’onor sia macchiato e perduto? Dunque, fratello, tu vuoi che non m’essendo de la ereditá dei nostri passati avi altra cosa rimasa se non l’onestá, che io quella doni altrui, e di fanciulla onesta che fin qui vivuta sono, bagascia vituperosa e donna di volgo divenendo, sia per ogni canto mostrata a dito? Ahi maligna fortuna! o infelice e troppo nociva constellazione! o sorte avversa! o miseria di mia vita sottoposta a cosí diverse e varie generazioni di calamitá, d’affanni e cordoglio amarissimi! O Morte crudelissima, per qual cagione, poi che a cosí estremo punto come ora condutta sono mi devevi ridurre, non estinguesti insieme con la mia carissima madre che al mio nascimento uccidesti, questa mia vita infelicissima e d’ogni miseria albergo? Ma se pure io deveva tanta persecuzion provare, perché non chiudi tu ora, usando alquanto di pietá, questi miei occhi lagrimosi? Deh vieni, Morte, vieni e non lasciar ch’io piú veggia la luce del sole, ma d’eterna ed oscurissima notte adombra questi occhi che altrui poco diletto e a me infinita amaritudine porgono. – A pena puoté l’afflitta e sconsolata Angelica queste ultime parole proferire, perché da le lacrime abondantissime e pietosi singhiozzi impedita, stette alquanto senza poter formar parola alcuna. Dopoi a la meglio che puoté ripreso alquanto di vigore, in questa maniera a ragionar cominciò: – Ora, fratel mio, poi che a tanta miseria dispone la mia maligna sorte condurmi, e veggio che a te di me punto non cale, a cui tanto calere ne deverebbe quanto a me, e che pur disposto sei che io a mal mio grado segua l’animo tuo, molto piú generoso e nobile che osservante de la ragione, io mi contento di sodisfare al voler tuo e a l’amore che fino a questo punto portato m’hai. Il perché tu di questo mio corpo fa dono a chi piú ti piace. Ben t’assicuro che poi che ad altrui donata m’averai, che io non sarò piú tua. E poi che perduta averò la mia tanto cara onestá, la morte che io stessa con le proprie mani mi darò resterá vero e perpetuo testimonio a chi dopo noi verrá ch’io abbia voluto in tutto ubidirti, ma che con l’animo non abbia consentito al tuo non convenevol dono ed illecita sodisfazione, eleggendo prima morire che viver con sí brutta macchia in viso. – Detto questo ella, di nuovo aperta la vena a le lagrime, quelle in abondanza grandissima spargendo, si tacque. Udita Carlo l’ultima conchiusione de la sorella, in questa forma le disse: – Mai non mi fu questa misera vita tanto cara, dolcissima sorella, ch’io infinite volte quella non avessi liberamente e molto volentieri messa ad ogni perigliosissimo rischio prima che porre né te né il tuo onore su la bilancia. E questo senza dubio alcuno averesti potuto con effetto vedere e toccar con mano se non fosse stata la somma cortesia e meravigliosa liberalitá d’Anselmo. Ma perché ne la mente mia non cape che in quella persona ove regna il bruttissimo vizio de l’ingratitudine possa alcuna gentil vertú abitare, non convenendo il nero corbo con il candidissimo cigno, e portando ferma credenza che mai Anselmo non debbia usar villania contra te a cui s’è dimostrato sí amorevole, di nuovo io ti priego che te e me tu voglia cavar d’obligo. E perché il primo e piú lodato ministro de la sempre lodata gratitudine è l’animo la cui candidezza nel lieto viso si scorge, io caramente ti priego che tu ponga fine a le lagrime e rasserenar il mesto volto ti piaccia e dimostrarti lieta, a ciò che il dono che siamo per fare tanto piú sia accetto quanto apparirá che si faccia con piú allegro volto, che sará manifesto segno de l’interna contentezza del core. – Dissero di molte altre parole insieme, disponendosi Angelica di mostrar piú gioconda presenza che possibil le fosse. Venne la notte, e circa due ore di quella, essendo il tempo da Carlo statuito di far quanto s’era conchiuso, egli con la sorella ed un servidore che portava una lanterna col lume dentro, andò a casa d’Anselmo, e quivi giunto cominciò a batter la porta. Venne un servidore e disse: – Chi batte? – e intendendo che era Carlo Montanino che diceva voler parlar ad Anselmo, tutto pieno di meraviglia e stupore il fece intendere al suo padrone. Anselmo udita l’ambasciata, fatto subitamente accender duo torchi, scese le scale, fece aprir la porta e andò a ricever con gratissima accoglienza Carlo, dicendogli che fosse il ben venuto e che cosa ci era da fare. Carlo rendendo ad Anselmo i convenienti saluti gli fece intendere che aveva bisogno di parlar seco in una camera ove non fossero altri a la presenza. Anselmo quivi veggendo Angelica, de la novitá de la cosa senza fine meravigliatosi, né sapendo che in cosí fatto caso imaginarsi o presumere, nessun’altra risposta fece se non che disse: – Sia al piacer vostro e andiamo. – Messa adunque innanzi Angelica e preso per la mano Carlo e a banda destra per forza messolo, salirono le scale di compagnia ed entrarono in sala, e di quella si ridussero in camera d’Anselmo, la quale sontuosamente era ornata e ad ordine sí come a la nobiltá e ricchezze del padrone si conveniva. Quivi dato per commissione d’Anselmo da sedere a la bella Angelica ed al fratello di quella, Anselmo anco egli s’assise e fece tutti i servidori uscir fuor de la camera. Rimasi adunque essi tre soli, Carlo in questa guisa rivolto verso il Salimbene il parlare, a dir cominciò: – Tu non ti meraviglierai, Anselmo, se io userò nuovo modo in parlarti che ne la nostra cittá non s’usa, chiamandoti «signor mio» come sempre ti chiamerò e terrò, perché tu hai fatta cosa che merita che cosí ti nomi. Io da te riconosco questa povera vita, la quale eternamente sará ad ogni tuo voler ubidientissima. Mia sorella da te ha ricevuto me suo fratello e il suo onore e la sua quiete. Se la malignitá de la contraria fortuna non ci avesse trovati, ella ed io averemmo di pari gratitudine, a l’obligo che teco abbiamo, sodisfatto. Ma perché, signor mio, nessuna cosa ci ha lasciato che gli animi e questi dui corpi, quali, la tua mercé, hai conservati, vuol la ragione che siano tuoi. Ed essendo chiaro che ciò che fatto hai è stato per amor d’Angelica, la scintilla de la gratitudine che in noi il soffiar di avversa fortuna non ha potuto estinguere, ci mostra ed alluma il camino per il quale andando non saremo chiamati ingrati. Conveniente adunque è che Angelica sia tua, la quale volontariamente in tuo poter si rimette e vuol sempre esser tua. E cosí io che suo fratello sono, qui per tua la lascio. – Detto questo, senza risposta attendere, Carlo uscito di camera col suo fante a casa ritornò. Anselmo intesa la preposta di Carlo e quivi veggendo quella che unicamente amava, e parendogli che ella ancor che ripugnato non avesse a Carlo non pareva contenta, stette buona pezza sospeso. Poi chiamata una sua zia che in casa era, volle che con le sue donne facesse compagnia ad Angelica. Egli uscito di camera mandò a chiamare tutti i suoi parenti ed amici, i quali in poco d’ora tutti vennero. Anselmo alora fatti accender molti torchi, a quelli che venuti erano disse: – Amici miei e parenti, egli vi piacerá venir meco in un mio servigio. – E fatta chiamar la sua zia con Angelica e l’altre donne, a casa di Carlo con meraviglia di tutti s’inviò. Arrivati quivi, fece domandar Carlo, il quale incontinente venne giú a riceverlo dicendo: – Signor mio, che comandi? – Anselmo alora gli disse: – Carlo, poco fa tu venendo a casa mia insieme con tua sorella dicesti di volermi parlar in camera senza testimonii. Ora io ti dico voler parlar teco ne la tua sala a la presenza di tutta questa brigata. – E cosí in sala montarono, che era molto grande ma senza apparato veruno. Quivi Anselmo, udendo ciascuno, disse: – Onestissime donne e voi altri nobilissimi cittadini, io penso che tutti forte vi meravigliarete che io a quest’ora con tal compagnia sia in questa casa venuto, e con desiderio aspettate veder a che fine questa congregazione fatta sia, sí come cosa forse non piú usitata o veduta gran tempo fa. Se m’ascoltarete adunque io lo vi dirò. Pertanto devete sapere che la generositá degli animi umani, come ella è da la maestra natura inestata in quelli, mai non lascia che ne l’operazioni sue non mostri la bontá e l’altre vertú che sempre in quella germogliano, e quanto piú vertuose opere e lodevoli produce, tanto piú va ricercando materia ne la quale possa la vertú sua dimostrare, prendendo chi opera una meravigliosa delettazione ed ogni dí piú animandosi a produrre frutti di sé degni. E tanta e tale è la fortezza sua, che se bene, come le cose mondane sono instabili, ella diventasse bersaglio di contraria fortuna e fosse ogni giorno saettata, conquassata, ferita e straziata da casi fortunevoli, ella nondimeno sta tuttavia salda e punto non si piega, anzi come immobilissimo scoglio contra le minacciose onde marine saldissima se ne dimora. Onde non ponno né gli stati né le ricchezze dimostrare che chi gli possiede, se è d’animo basso e vile, sia nobile e gentile; sí come per il contrario la povertá non può rintuzzar un animo generoso e magnanimo. Questo dico io considerando tra me la grandezza e generositá e la prestantissima natura di Carlo Montanino e di Angelica sua sorella, giovanetta per mio giudicio, quale egli si sia, senza parangone, nei petti dei quali la rovina de la famiglia loro non ha mai potuto ammorzar l’innata cortesia che sempre v’alberga. Onde non posso se non riprender gli avi miei che per una mischia a caso occorsa abbiano con ogni loro sforzo dato opera d’estinguere cosí nobil famiglia come è la Montanina, ne la quale se altri mai nati non fossero che Carlo ed Angelica sua sorella, dotati di sí peregrino, cortese e nobil animo, merita senza dubio esser tra l’eccellenti schiatte de la nostra cittá collocata. E pure ho inteso io esservi stati molti e molti splendidi ed onorati cavalieri, i quali sempre a beneficio, utile ed onore de la patria si sono affaticati quando è occorso il bisogno. Ora quale e quanta sia stata la cortesia di Carlo e d’Angelica, non vi rincresca d’ascoltare. Egli è il vero che a me sommamente, sono molti dí, piacquero la bellezza e gli onesti modi che io vedeva in Angelica; dilettandomi di vagheggiarla quando agio ne aveva, fieramente di lei mi innamorai. Ma per la nemicizia che era tra noi non sono stato oso questo mio amore a persona palesare. Avvenne in questo che essendo, come tutti sapete, accusato Carlo d’aver fatto contra lo stato, e non si potendo egli giustificare, che la Signoria lo condannò a pagar mille fiorini, e non gli pagando in spazio di quindici dí, a perderne il capo. Veggendo io che i parenti suoi non facevano motto alcuno di pagar per lui, non avendo egli il modo, io, senza che nessuno mi richiedesse, pagai mille ducati e lo trassi di prigione. Ond’egli inteso dal camerlingo il fatto e non potendo sofferire di restar né a me né ad altri in obligo di cosí poco debito, ha usato la maggior cortesia che mai da persona fosse fatta. Ché sapendo, non so come, che per amor d’Angelica io aveva la condannagion pagata, questa sera egli e la sorella sono venuti a casa mia, ove Carlo per schiavo mi s’è dato, donandomi la sorella e lasciandola in mio potere liberalissimamente. E perché l’uno e l’altro dono m’è a par de la vita mia carissimo, io intendo far che Angelica sia perpetuamente mia, e con giusto ed onesto titolo possa da par sua possederla pigliandola per mia legitima moglie, e Carlo resti mio cognato e fratello. – Quanta fosse l’allegrezza d’Angelica e del fratello non si potrebbe di leggero esprimere. Ora vi furono de le parole assai, e in fine Anselmo con un ricco e prezioso anello la sua cara amante sposò. Poi rivolto ai circonstanti lietamente disse: – Egli non mi par convenevol cosa che cosí magnanima, cortese ed eccellente giovane come è la mia amata Angelica, si debbia maritar senza dote. E perciò tutti voi siate testimonii, e se v’è qui notaio sia rogato, come io liberamente, di certa mia scienza, dono per dote a la mia cara sposa Angelica Montanina ogni metá per indiviso di quanti beni ho, cosí stabili come mobili. Medesimamente in quella metá che a me resta faccio mio fratello adottivo Carlo Montanino, al quale per l’autoritá che egli data mi ha comando che egli il tutto accetti. Dopoi che il mio picciolo dono averá accettato, il restituisco a la sua pristina libertá. – E perché l’ora era tarda, Anselmo basciata la sua carissima sposa, disse che per la domenica seguente si farebbero le nozze in casa di Carlo, e datosi la buona notte tutti si partirono, restando la zia d’Anselmo con la sposa. Chiunque quivi si ritrovò, dando infinite lodi cosí al Salimbene come al Montanino e sua sorella, se n’andò a casa pieno d’infinita ammirazione. Venuto il nuovo giorno, per tutta Siena si sparse questo nuovo parentado, il quale generalmente a tutta la cittá fu caro, veggendo quelle due famiglie essere unite tra le quali cosí fiera e crudel nemicizia lungo tempo regnato aveva. Anselmo cominciò a metter tutte le cose ad ordine per le future nozze, a ciò che quelle fossero belle e sontuose. Poi fatto chiamar un solenne notaio, di nuovo fece le donazioni da quello in scritto notare, che la sera avanti a bocca aveva fatte. Fu il Salimbene e la sposa quasi da tutta la cittá visitata, ed ella che saggia e discretissima era, faceva a tutti quelle grate accoglienze che a la qualitá dei visitanti si conveniva, di modo che ciascuno sommamente la commendava, e tutti i parenti d’Anselmo se ne trovarono contentissimi, parendo loro che egli avesse fatto molto bene. La sposa poi ringraziando divotamente il nostro signor Iddio di cosí buona fortuna che data l’aveva, non cessava di lodar l’avveduto avviso del fratello. Il giorno poi de la domenica, essendo tutti i principali de la cittá invitati, si desinò con festa grandissima in casa di Carlo e tutto il dí vi si ballò molto allegramente e con piacer di ciascuno. E non vi fu né uomo né donna che non giudicasse Angelica esser la piú leggiadra e bella giovanetta di Siena. Ella ancora non passava i dicesette anni, ma tanto avvenevole, cortese, umana e gentile che pareva esser stata in una signoril casa nodrita. Venuta l’ora de la cena, con pompa e trionfo grandissimo Anselmo condusse la sposa a casa sua, ove lautissimamente si cenò, e dopo cena per lungo spazio si stette in balli e suoni, i quali finiti che furono, i convitati andarono a casa, ed Anselmo e la sposa entrati in letto consumarono il santo matrimonio. Cotal adunque fine sortí la liberalitá d’Anselmo insieme con la magnifica gratitudine di Carlo e d’Angelica. Ora si potrebbe disputare qual sia piú di lor tre da esser lodato, e qual di loro usò maggior cortesia ne le cose che da me udite avete.


Il Bandello al magnifico e dotto


messer Francesco Maria Molza


Non m’è uscita né uscirá giá mai di mente la umanitá e cortesia vostra, Molza mio molto onorando, che voi, essendo io in Bologna, non m’avendo mai piú veduto, meco usaste. E veramente le carezze e le gratissime accoglienze che voi mi faceste mi vi resero di modo ubligato che io sempre ho detto e dico non esser in mio potere di sodisfarvi, e tanto meno per l’avvenire lo potrò io fare, quanto che voi ogni dí via piú obligo m’accrescete parlando di me, ove l’occasione v’occorre, tanto onoratamente che le lodi che voi mi date conosce ciascuno che sono da esser date non al merito mio ma a l’amor che mi portate, che tale mi predica qual vorrebbe o forse gli pare ch’io sia. Ed avendo tra me deliberato di scrivervi qualche cosa, ho preso argomento dal ragionamento che in Bologna, l’ultimo giorno che fummo insieme, fu da noi fatto, quando assai lungamente disputammo se le donne che per prezzo son preste a far copia del corpo loro a chiunque le ricerca, ponno ardentemente amar un uomo particolare. L’opinion vostra fu che sí, e la mia che no. Ma poi che ragioni assai furono da noi addutte, la questione restò indecisa, e tuttavia restammo amici, perché, come dice Aristotele, la varietá de le opinioni non rompe l’amicizia. E certo a me sempre è paruto esser cosa difficile che una donna che a molti del corpo suo faccia piacere, possa fermamente e con grand’ardore amar un uomo, perciò che io credo che amandolo fuocosamente ad altri non si darebbe in preda. Crederò bene che sia assai piú facile che un uomo ami una cotal femina, per la speranza che l’adesca di poterla piegare e renderla tutta sua. Ora un pietoso caso avvenuto nuovamente a Lione di Francia m’ha da la prima mia openione rimosso e sforzato con mano e piedi a correr ne la vostra. E cosí confessandomi vinto, vi do allegramente l’erba. Sapete adunque come questi dí il nostro signor Lucio Scipione Attellano ed io eravamo con molti altri in casa de la valorosa signora Ginevra Bentivoglia e Pallavicina, ove ragionandosi di varie materie, il conte Niccolò Maffeo, che veniva da la corte del re cristianissimo, narrò il caso di cui v’ho parlato; il quale da me scritto, al dotto vostro nome in segno de la vittoria vostra dedico, ancor che se ben una cortegiana ha fatto questa dimostrazione, non si deve perciò dedurre in consequenzia, perciò che una rondinella non fa primavera. State sano.