Novelle (Bandello)/Prima parte/Novella XX

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Prima parte
Novella XX

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Galeazzo ruba una fanciulla a Padova


e poi per gelosia e lei e se stesso uccide.


Fu al tempo del sapientissimo prencipe, quantunque sfortunato, signor Lodovico Sforza, in una cittá del ducato un mercadante molto ricco di possessioni e ne la mercanzia di gran credito. Egli prese per moglie una gentildonna giovane, costumata e d’animo generoso, da la quale ebbe un figliuolo senza piú. Non era ancora il figliuolo di dieci anni che il padre morí, lasciandolo del tutto erede, sotto cura de la madre. La donna, bramosa che il figliuolo a l’antica nobiltá degli avoli suoi si traesse, non volle che a cose mercantili mettesse mano, ma con somma diligenza gentilescamente il fece nodrire e a le lettere attendere e ad altri essercizii di gentiluomo. Ella poi attese a ritirar piú che puoté le ragioni che il marito ne le cose mercantesche aveva per Italia, Fiandra, Francia, Spagna ed anco in Soria, attendendo a comprar possessioni al figliuolo, che Galeazzo aveva nome. Crebbe egli e divenne molto gentile e magnanimo, e oltra le lettere, si dilettava de la musica, di cavalcare, di giuocar d’arme, di lottare e d’altre simili vertú. Il che a la madre era di grandissima contentezza, e di panni, di cavalli e di danari provedeva al figliuolo largamente, non gli lasciando mancar cosa che a lui piacesse. Ella in pochi anni sodisfece a tutti i debiti del marito ed anco ricuperò quanto egli da altri mercadanti deveva avere. Restava una ragion sola con un gentiluomo veneziano che trafficava in Soria, il quale deveva ritornar a Venezia, essendo giá Galeazzo di sedeci in dicesette anni. Onde egli, desideroso, come sono i giovinetti, di veder del paese e massimamente la famosa ed onorata cittá di Venezia, pregò la madre che lo lasciasse andare. Non dispiacque questo giovenil disio a la donna, anzi l’essortò ad andarvi e volle che egli fosse quello che desse fine ai conti col gentiluomo veneziano, e mandò seco un fattore molto pratico, indirizzandolo anco ad un mercadante in Venezia, che era grande amico de la casa. Andò Galeazzo molto in ordine di vestimenti e di servidori, e giunto a Venezia e fatto capo a l’amico paterno, fu lietamente visto, ed andarono di brigata a ritrovar il gentiluomo veneziano, al quale si diede Galeazzo a conoscere e gli disse la cagione del suo venire. Questo sentendo, il veneziano gli disse: – Figliuol mio caro, tu sia il benvenuto. Egli è il vero che io, dando fine a tutti i conti, resto debitor de la somma che tu dici, come deve aver calculato il vostro fattore. E se piú tosto non ho sodisfatto almeno per lettere, è che non sono ancora tre dí che io arrivai qui con le galee di Soria. Ora io son presto a sodisfarti, ma converrá che tu aspetti otto o dieci dí, ch’io vada a Padova, ove ho mia moglie e tutta la famiglia. – Galeazzo disse che volentieri aspettarebbe e che in quel tempo anderia veggendo Venezia, e cosí fece. Andarono poi di compagnia a Padova, e fu bisogno che Galeazzo andasse ad albergare col veneziano. Egli con un sol paggio vi andò, mandando gli altri a l’osteria. Il veneziano, che altre volte era stato molti dí in Lombardia in casa del padre di Galeazzo ed era stato benissimo trattato, onorò molto il giovinetto. Aveva esso veneziano una bella figliuola di quindeci anni, la quale da Galeazzo tutto il dí vista fu cagione che il giovine di lei ardentissimamente s’accese, non avendo per innanzi mai provato che cosa fosse amore. Ella de l’amor di lui avvedutasi, piacendole il giovine, non ischivò punto il colpo amoroso; anzi di lui senza fine s’innamorò, e tanto andò la bisogna che, una e due volte avuta la commoditá di parlarsi, diedero ordine a quanto intenderete. Deveva il padre di lei fra tre dí dar tutti i danari a Galeazzo e seco a Venezia tornarsene, ove gli conveniva star qualche tempo. Ella dopo la partita loro, fra dui dí, doveva fuggir di casa sotto la cura d’un fidato servidore di Galeazzo, il quale egli aveva finto mandar a la madre, e il veneziano medesimo per lui le aveva scritto. Ma il buon servidore stette nascosto in Padova fin al tempo debito. Avuti Galeazzo i danari, insieme col gentiluomo andò a Venezia, e col suo conseglio fece rimetter tutti i danari ricevuti in Milano con lettere di cambio, e niente faceva né comprava senza lui. Ed ecco venir la nuova al veneziano, come Lucrezia sua figliuola era la notte innanzi fuggita e di lei non si trovava vestigio alcuno. Il padre, dolente oltra modo, deliberò, lasciata ogn’altra cosa, tornar a Padova. Galeazzo, mostrandosi di questo caso dolente, s’offerí andar seco, ed in ogni luogo ove egli volesse. Ringraziato Galeazzo, partí il veneziano e nulla mai puoté de la figliuola intendere. Onde, tornato a Venezia, trovò che Galeazzo ancora v’era, il quale, dopoi in Lombardia a casa tornato, non ardí de la rapita fanciulla far motto a la madre. Aveva il servidore condotta una convenevol casa e del tutto fornita, secondo l’ordine da Galeazzo dato, e pose a la guardia di lei la nutrice di esso Galeazzo col suo marito. Il giovine, con meraviglioso piacer de le parti, colse il fiore e il frutto de la virginitá de la sua Lucrezia, che piú che la propria vita amava, dormendo quasi ogni notte seco e largamente a torno a lei spendendo. La madre, ancor che sapesse che egli fuor di casa spesso dormisse e cenasse, non diceva altro. Stette circa tre anni Galeazzo con la sua Lucrezia, dandosi il meglior tempo del mondo. Avvenne dapoi che la madre deliberò dar moglie a Galeazzo, ma egli mai non volse consentire di prenderla. Ella dubitando che il figliuolo non fosse innamorato o forse avesse a modo suo presa moglie, tante spie a torno gli pose, che intese il tutto che a Padova fatto aveva. Del che molto mal contenta ritrovandosi, ebbe modo, una sera che Galeazzo in casa d’un suo cugino cenava, di far da tre uomini mascherati rubar Lucrezia e porla in un monastero quella sera stessa. Galeazzo, dopo cena volendo andarsi a dormir con Lucrezia, trovò la nutrice ed il balio che amaramente piangevano, dai quali intese come tre mascherati avevano Lucrezia sbadagliata e menata via. Egli fu per morir di doglia e tutta la notte pianse, ed il matino a buon’ora andò a casa e in camera si serrò e stette tutto il dí senza cibarsi. La madre quel dí non ricercò altrimenti ciò che il figliuolo facesse. Veggendo poi il seguente giorno che non voleva desinare, andò a trovarlo in camera. Ma egli sospirando e piangendo pregò la madre che cosí il lasciasse stare. Ella cercava pur d’intender da lui di questo suo dolore la cagione, ma egli altro che con lagrime e sospiri non le rispondeva. Il che ella veggendo e mossa a pietá, al figliuolo cosí disse: – Figliuol mio caro, io m’averei creduto che in cosa del mondo mai da me guardato non ti fossi e che tutti gli affanni tuoi m’avessi scoperto; ma io mi truovo molto ingannata. Tuttavia, mercé de la mia diligenza, io ho ritrovato la cagion del tuo male. So che tu ami Lucrezia, che al nostro amico a Padova rubasti. Il che quanto sia stato bell’atto, tu il puoi molto ben pensare. Ma ora è tempo d’aiuto e non di correzione. Or vivi allegramente e confortati e attendi a ristorarti, ché la tua Lucrezia riaverai, la quale io ho fatta mettere in un monastero, parendomi che, non la ritrovando, tu devessi compiacermi e prender moglie, come saria il debito tuo di fare. – Galeazzo questo sentendo, parve che da morte a vita risuscitasse, e vergognosamente le confessò come egli amava piú Lucrezia che la propria vita, pregandola affettuosamente che alora gliela facesse venire. Ella lo astrinse ad avere per quel giorno pazienza, e che voleva che si cibasse e si confortasse, promettendogli il seguente giorno andarla a pigliare e menarla in casa. Che diremo noi? Galeazzo or ora voleva morire, avendone perduto il sonno e il cibo, e a questa semplice promessa tutto si confortò. Egli desinò e cenò la sera, e la notte, con speranza di riaver la sua Lucrezia, dormí assai bene. Venuto il seguente giorno, egli di letto levato sollecitò la madre che per Lucrezia mandasse. La quale, per compiacere al figliuolo, montò in carretta e al monastero giunta si fece dar la giovane e a casa la condusse. Come i dui amanti si videro, di dolcezza piangendo si corsero a gettarsi le braccia al collo, e strettissimamente abbracciandosi beveva l’uno de l’altro le calde e salse lagrime. Galeazzo, poi che ebbe mille volte la sua Lucrezia amorosamente basciata e ribasciata, tuttavia piagnendo cosí le disse: – Anima mia dolce, come sei stata senza me? Che vita è stata la tua? Non t’è egli fieramente rincresciuto non mi aver in questo tempo veduto? Certamente io mi sono pensato di morire, né so bene come io mi viva. Oimè, vita mia, chi m’assicura che altri, in questo tempo che da me sei stata lontana, non abbia godute queste tue bellezze? io mi sento di gelosia morire e il core in corpo mi si schianta. Il perché, cor del corpo mio, per non morir se non una volta sola ed uscir di questo gravissimo affanno, sará assai meglio che moriamo insieme e in un punto diamo fine a questi nostri sospetti. – E dicendo queste parole, prese un pugnale che a lato aveva e percosse la giovane nel petto per iscontro al core, la quale subito cadde boccone in terra morta; poi a sé stesso rivoltato il sanguinolente ferro, se lo cacciò in mezzo il petto e sovra la morta Lucrezia s’abbandonò. Il romore ne la casa si levò grandissimo con uno acerbissimo pianto. La sfortunata madre, come disperata, mandava le strida fin al cielo. Campò Galeazzo tutto quel giorno e nel tramontar del sole morí. La povera madre, senza ascoltar consolazione né conforto da persona, per lungo spazio il morto figliuolo pianse: caso veramente degno di pietá e compassione, e da far lagrimar le pietre, non che voi tenere e dilicate donne, che giá le belle lagrime sugli occhi avete. E a ciò che la cosa non si divolgasse com’era, i fratelli de la madre fecero segretamente i dui amanti seppellire, dando voce che di peste erano morti. La cosa fu facil da credere, perciò che alora in quella cittá era sospetto di morbo. E oltra di questo, un medico fisico ed un cirugico, corrotti per danari, affermarono la cosa esser cosí. Tuttavia non si puoté tanto celare che il fatto non si sapesse come era seguito. Diranno poi costoro che la gelosia non sia un pestifero verme e che non accechi gli uomini, se gelosia per ciò questa si può dire e non piú tosto pazzia e furore.


IL BANDELLO A L’ILLUSTRISSIMO


SIGNORE SFORZA BENTIVOGLIO


Mentre che la molto gentile e dotta signora Cecilia Gallerana contessa Bergamina prendeva, questi dí passati, l’acqua dei bagni di Acquario per fortificar la debolezza de lo stomaco, era di continovo da molti gentiluomini e gentildonne visitata, sí per esser quella piacevole e vertuosa signora che è, come altresí che tutto il dí i piú elevati e belli ingegni di Milano e di stranieri che in Milano si ritruovano sono in sua compagnia. Quivi gli uomini militari de l’arte del soldo ragionano, i musici cantano, gli architetti e i pittori disegnano, i filosofi de le cose naturali questionano, e i poeti le loro e d’altrui composizioni recitano, di modo che ciascuno che di vertú o ragionare od udir disputar si diletti, truova cibo convenevole al suo appetito, perciò che sempre a la presenza di questa eroina, di cose piacevoli, vertuose e gentili si ragiona. Ora avvenne un giorno che, essendosi lungamente di cose poetiche tra dui bramosi spiriti disputato, cioè tra il signor Antonio Fregoso Fileremo cavaliere e messer Lancino Curzio, il dotto e piacevole messer Girolamo Cittadino prese le Cento Novelle del leggiadrissimo Boccaccio in mano e disse: – Signora contessa, e voi signori, poi che la disputazione de la poesia si è finita, io sarei di parere che entrassimo in alcun ragionamento piú basso e piacevole, overo che si leggesse una o due de le novelle del Boccaccio, come piú a voi piacerá. – Bene ha parlato, – disse alora la signora Camilla Scarampa, – il nostro Cittadino, a ciò che gli affaticati intelletti, per le cose dotte disputate, alquanto con ragionamenti piacevoli e di leggera speculazione siano ricreati. – A questo soggiunse la signora Gostanza Bentivoglia, moglie del signor conte Lorenzo Strozzo: – Ed io anco sono del parer vostro; ma perché chiunque è qui ha piú volte lette e udite le Cento Novelle, io sarei di openione che alcuno di voi dicesse di quelle o istorie o novelle che cosí non sono divolgate. – Si faccia, si faccia, – disse quasi tutta la brigata; quando la signora Cecilia pregò il signor Manfredi dei signori di Correggio, giovine costumato e piacevole, che una novella volesse dire. Il quale, dopo alcuna escusazione, a la fine una ne narrò, che molto a la lieta compagnia piacque. Onde io avendola scritta e meco pensando a cui donar la dovessi, voi tra molti mi occorreste, al quale meglio che a nessun altro ella conviene, essendo voi negli anni de la florida giovanezza, oltre le molte doti che in voi sono, di maturi costumi e di provida discrezione dotato. Ed io porto ferma openione che mai voi non sareste stato cosí trascurato come furono i dui ongari ne la novella nominati. Il perché, leggendo le loro pazzie, vi forzarete piú di giorno in giorno misurare le operazioni vostre, come saggiamente fate, col compasso de la ragione, ed avanzar la espettazione che la buona creanza vostra sempre ci ha dato. State sano.