Novelle (Bandello)/Prima parte/Novella XXIV

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Prima parte
Novella XXIV

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Una donna falsamente incolpata è posta per ésca ai lioni


e scampa, e l’accusatore da quelli è divorato.


Seguendo, madama osservandissima, la materia de la quale qui s’è ragionato e questionato, volendosi dimostrare quanti scandali e disordini sogliano avvenire per gli appetiti disordinati di molti uomini, vi narrerò una novella che, giá molti anni sono, udii raccontare al nostro magnifico messer Fanzino da la Torre, il quale tutti conoscete. Egli fu uno dei gentiluomini che da l’illustrissimo signor nostro Gian Francesco marchese di Mantova fu mandato in Francia per compagnia di madama Chiara, sorella di esso marchese e madre di Carlo ora duca di Borbone, quando andò a marito, sposata da monsignor Giberto dei reali di Francia e conte di Montpensier; e lá in Francia diceva da uomini degni di fede averla udita narrare, e veduta essa istoria sculta in marmo nel luogo ove il caso occorse. Dico adunque che nel reame di Francia fu giá un signor de la Rocca Soarda, il quale, essendo in quelle bande gran barone e molto ricco, teneva una splendida e magnifica corte, dilettandosi oltra modo de la caccia e di augelli di rapina. Teneva anco in un suo cortile alcuni lioni. Prese costui per moglie una bellissima madama del paese, la quale, oltra la beltá che in lei si vedeva mirabile, aveva poi i piú lodati e saggi modi e i piú bei costumi che donna che fosse in quelle contrade, di maniera tale che ciascuno che la vedeva era astretto sommamente a lodarla. Aveva il marito di costei un suo maestro di casa, uomo di trentatré anni, il quale, non misurando ben le sue forze e meno considerando la nobiltá ed onestá de la sua padrona, da le bellezze di quella abbagliato, sí fieramente di lei s’accese, che ogn’altro pensiero gli uscí di mente, pensando di continovo come far potesse per acquistar la grazia di quella e venir a fine di questo suo disconvenevol amore. E non avendo ardire con parole farle manifesto l’intento suo, si sforzava diligentissimamante servendola, e quanto piú poteva onorandola, fare che ella de l’animo di lui s’accorgesse. Ma egli era assai lungi da mercato, perciò che ella amava a par degli occhi suoi il suo signore, e a cosa che il maestro di casa si facesse o dicesse non metteva mente. Essendo poi, com’era, onestissima, non averebbe mai pensato che il suo maggiordomo si fosse posto a questa impresa e fosse stato sí sciocco d’aver ardire di richiederla di cosa meno che onesta. Ora, veggendo il misero amante che, cosa ch’egli si operasse, nulla di bene o di conforto gli recava, e che di giorno in giorno le sue fiamme si facevano maggiori ed ormai impossibili a sopportarle, poi che assai ebbe pensato e ripensato, elesse prima che morire, avvenisse ciò che si volesse, a la donna scoprirsi. Fatta questa deliberazione, non attendeva ad altro, se non a trovar occasione d’aver oportunitá senza impedimento a ciò liberamente le sue cocentissime fiamme a madama discoprisse. Onde, ragionando ella un giorno con lui d’alcuni affari de la casa e per una sala passeggiando, egli a la meglio che puoté a la donna si scoperse, e quanto per lei ardesse, e sofferisse crudelissimi tormenti, le manifestò. Ella, udendo cosí estrema follia, rivoltatasi molto turbata al maggiordomo gli fe’ un’agra riprensione minacciandolo di farlo gettar in bocca ai lioni, se mai piú fosse oso parlare di cotal pazzia. – E che cosa hai veduta in me, – diceva ella, – che tu debbia presumere di richiedermi cosí disonesta cosa? È forse stata la vita mia, la mia conversazione e la mia passata maniera dei modi ed atti miei sí lasciva, sí dissoluta e tanto mal regolata, che ti possa aver prestato ardimento di presumere che tu potessi di me credere che io né a te né a uomo del mondo mi dovessi sottoporre? Guarda per quanto ti è cara la vita che piú in simili farnetichi non entri giá mai. Sia questa l’ultima e la prima volta che tu abbi errato, e piú non ci tornare, perché tu amaramente pagaresti e questa e quella. Fa pensiero di non esser caduto in tanto errore e non ti metter piú a cotanto rischio. Io per me ci metterò sovra i piedi e ti prometto che al mio e tuo signore non ne farò in modo alcuno motto. Attendi a far l’ufficio tuo secondo che solito sei, e levati queste frenesie di capo. – Qui si tacque la donna, ed il confuso amante andò a far alcune sue bisogne, tanto tra sé pieno d’amaritudine e mala contentezza che non sapeva che farsi e meno che dirsi. Conosceva la grandezza de l’animo de la donna, la quale sapeva esser di continuo stata onestissima, e giudicava che indarno sarebbe ritornato a tentarla, oltra il periglio che egli incorrer poteva per le gravissime minacce da la donna fatte. Non si fidando dapoi intieramente de le parole di lei, dubitava che ella al marito la cosa manifestasse, onde conosceva che senza dubio ne sarebbe subito ammazzato. Fra questi pensieri consumandosi, e compenso ai casi suoi non ritrovando, non volendo da quella casa partirsi, né di potervi sicuramente dimorare, mentre la padrona stesse in vita, persuadendosi, cadde in un fierissimo pensiero e dentro vi si fermò, che fosse da ordire una trama e machinare il modo che la donna si facesse morire. Caduto il traditore in questo cimbello e da le sue irregolate passioni accecato, non cessava spiare i modi e le azioni de la donna. Ma non vi possendo trovar attacco alcuno che tenesse, si imaginò un mezzo come intenderete. Era tra i servitori domestici del signore, un giovinaccio, cresciuto innanzi agli anni, di assai liberale e buon aspetto, ma tanto dolce e semplice che de le sciocchezze di quello il signore e madama prendevano molto spesso meraviglioso piacere. Con questo soleva talora madama domesticamente scherzare e prendere e dargli il giambo per ridere e trastullarsi seco, e tutti di casa il chiamavano il favorito di madama, di modo che il signore anco egli per tal nome il chiamava. Veggendo questa domestichezza, il ribaldo maggiordomo cominciò molto piú del solito a far vezzi al giovine e farselo quanto piú poteva domestico. E quando tempo gli parve, trovate certe sue favole, che a lo scempio giovine furono facili a persuadere, lo indusse che di notte, prima che madama andasse a dormire, si nascondesse sotto il letto di quella, e di due ore avanti giorno uscisse fuori. Il che il pazzarello una e due volte fece. Aveva esso maggiordomo un amico in casa, uomo da bene, al quale fece veder tutte le due volte l’uscita del giovine da la camera di madama. Ella appartatamente dormiva dal marito, il quale andava poi a giacersi seco quando voleva. Parlò adunque il maggiordomo al signore, e col testimonio de l’uomo da bene, che semplicemente il faceva, accusò la moglie d’adulterio, e gli disse che, se motto alcuno non faceva, che di leggero potrebbe avvenire che egli vederebbe il giovine uscir di camera. Il signore, avuto il testimonio di colui che aveva per uomo da bene e credendo di veder egli stesso tanto suo vituperio, cominciò a pensare che le carezze che la donna al giovine faceva fossero tutte con malizia e che ella ardentissimamente l’amasse. Onde l’amor che a la moglie portava si convertí in fierissimo odio, e non aspettava altro per vendicarsi se non trovar la gallina su l’uovo. Il traditore, che gongolava di questa trama, fece entrar in camera il giovine e, quando era tempo che deveva uscire, andò e chiamò il signore. Come il marito vide questo, pieno di fellon animo e di mal talento contra la donna, fece tantosto prender l’innocente giovine e cacciarlo in un fondo di torre, molto piú adirato contra la moglie che contra il giovine, parendogli che, se ella non l’avesse invitato ed indutto a far questo, che egli da sé non averebbe mai fatto simil cosa. Da l’altra banda poi, vinto da la còlera e da lo sdegno che aveva del fallo de la moglie, senza voler altrimenti essaminare il caso, fece prender la donna e mandolle dicendo che si confessasse, se voleva, perciò che quel giorno deveva esser l’ésca dei lioni come puttana sfacciata che era. Veggendosi ella sí vituperosamente esser presa e sentendo l’imputazione che data le era, e che il marito non voleva udirla, e che rimedio non aveva che non morisse, si dispose a la meglio che puoté al morire e, diligentemente confessata, a Dio si raccomandò, non le dolendo altro se non che con tal infamia restasse il suo nome appo i viventi. Fu adunque per commessione del signore il dí medesimo posta nel cortile dei lioni, essendo tutto il popolo concorso a sí miserando spettacolo. Mirabili sono i giudicii di Dio e difficili ad esser intesi. Tuttavia l’innocenzia sempre è da Dio aiutata. S’era la donna inginocchiata e a Dio raccomandava l’innocenzia e l’anima sua. Aperta che fu la caverna, uscirono i lioni, e a la donna pacificamente accostatisi la cominciarono a festeggiare e farle vezzi, come se ella nodriti da piccioli gli avesse. Veggendo il popolo questa cosa e perseverando i lioni a far carezze a la donna, tutti gridarono: – Miracolo, miracolo! – Il signore, intendendo il fatto, si fece condurre avanti il giovine imprigionato. Il che veggendo, lo scelerato maggiordomo montò a cavallo per fuggirsene. Ma Dio, che voleva che fosse punito, fece che il cavallo mai non volle andar innanzi. Ed essendo essaminato il semplice giovine disse il tutto come era. Il perché fatta uscir l’innocente madama del cortile, fu in suo luogo alora alora messovi il traditore, il quale essaminato confessò che a torto aveva la dama accusata, e che credeva che il signor devesse subito ammazzare il giovine sciocco come il vide uscir di camera. Posto adunque il ribaldo nel cortile, incontinente fu dai lioni in mille pezzi lacerato. Conosciuta poi la semplicitá de lo sciocco giovine, altro male non gli fu fatto se non che da la corte e presenza del signore fu bandito. Restò la dama come prima era in grandissimo credito del marito e di ciascuno altro, avendo mille volte esso suo marito chiesto perdono che cosí a furia fosse corso e non avesse piú maturamente investigata la cosa, dando cosí di leggero l’orecchie al malvagio, maligno e traditore suo maestro di casa. Deverebbe nel vero ciascuno non esser molto facile a creder ciò che se gli dice, e massimamente quando gli è rapportato male d’alcuno, perciò che spesse fiate s’è veduto, cosí altrove come ne le corti, che molti, per farsi familiari ai lor signori ed acquistarsi grazia, fingono de le favole e dicono mal di questo e di quello; e per mostrar che si muovono con zelo de l’onore del padrone, diranno talora bene d’alcuno a cui vogliono male, e poi sputano veleno a l’ultimo fuori con dire: – Egli ha perciò fatto la tale e la tal cosa e non si deve fidar di lui, perciò che va doppiamente, – e le buone opere interpretano in male. Questi maldicenti si deveno fuggire come la peste, essendo in effetto essi la peste e il morbo de le case e de le corti e cagione bene spesso di grandissimi mali. Ma tornando ove io diceva che il marito chiese perdono a la innocente donna, vi dico che ella gli perdonò molto graziosamente, e gli manifestò l’audace e presontuoso assalto che con parole fatto le aveva il ribaldo maggiordomo. Averebbe voluto alora il signore che il traditore fosse stato vivo a ciò che di nuovo l’avesse potuto vedere a brano a brano lacerare dai famelici lioni, parendoli che la sceleratezza di lui meritasse mille crudelissime morti. Fece poi esso signore su l’entrata del suo castello intagliare da scultori eccellenti in finissimi marmi tutta questa istoria, a ciò che la memoria ne durasse perpetuamente, come da chi va a quel castello ancora oggi si vede. Eccovi che sfortunato fine ebbe il mal regolato appetito del disonesto e disleal servidore, degno di molto piú fiera ed acerba morte di quella che miseramente fece. Onde si può con veritá conchiudere che le cose cominciate con cattivo principio conseguino di rado buon fine, come per il contrario le principiate bene ordinariamente vanno di bene in meglio con ottimo fine.


IL BANDELLO AL MOLTO ILLUSTRE SIGNORE


LODOVICO TIZZONE CONTE DI DECIANA


Partendoci questi dí passati frate Girolamo vostro figliuolo ed io, per andar a visitare il sepolcro di Varallo e quei bellissimi e divoti luoghi fatti e ordinati a simiglianza dei luoghi di Terra Santa, dapoi compito il viaggio e ritornati allegramente a Deciana, voi voleste che andassimo a goder l’amenitá ed il fresco in Monferrato, del vostro castello di Ponzano, vicino a la famosa chiesa di Santa Maria di Creta. Era tra gli altri che vennero di compagnia con noi l’eccellente dottore messer Costantino Tizzone, uomo, come meglio di me sapete, oltra le buone lettere che ha, di costumi integerrimi e di conversazione molto gioconda e piacevole. Essendo adunque a Ponzano e ragionandosi d’un ladroneccio che era stato fatto a Crescentino, terra del conte Giacomo Tizzone vostro cugino, che il ladro aveva fatto impiccare come era meritevole, si venne non so come a ragionar del costume antichissimo dei lacedemonii, i quali, quando era commesso un furto, ritrovando il malfattore, acerbamente lo punivano come uomo di poco ingegno che non aveva saputo l’error e fallo suo coprire. Per il contrario poi, divolgato il furto e fatte le debite e diligenti inquisizioni, se il ladro non si poteva ritrovare né di lui aversi indicio alcuno, e, fatta la investigazion solita, egli poi si fosse al magistrato spartano manifestato, non solamente non riceveva danno né vergogna, ma gli erano dati premii da la republica con lode grandissime, giudicandolo uomo d’elevato ingegno, prudente ed astuto. E tra noi essendo nata questione se questa legge o costuma che si fosse era lodevole o no, molte cose furono dette, secondo il parer di ciascuno. Non v’essendo poi chi la lite terminasse, messer Costantino, imposto ai litiganti silenzio, narrò una piacevol novella circa la materia dei furti; la quale parendomi bella fu da me scritta e posta nel numero de le mie novelle. Ora, rivolgendo questi dí le scritture de le mie novelle, questa mi venne a le mani e mi parve di quella farvene un dono e porla sotto l’ombra del vostro nobilissimo e dotto nome. Voi, quando talora sarete stracco dagli studii vostri gravissimi e dal continovo comporre che fate, potrete, leggendo questa novelletta, dar un poco di riposo agli spiriti vostri, che da l’assidue contemplazioni di cose dottissime non può essere che non bramino alquanto di remissione. E ben che voi siate tra i dotti nobilissimo e tra i nobilissimi dottissimo, non vi sdegnarete perciò questo mio picciolo dono accettare, essendo a tutta Italia manifesto che, con l’antichissima nobiltá del sangue, insieme con le buone lettere avete il raro tesoro de l’umanitá e cortesia, che in voi risplendono come finissimo rubino orientale legato in biondo e ben brunito oro. State sano.