Novelle (Bandello)/Prima parte/Novella XXIX

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Prima parte
Novella XXIX

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Quanto semplicemente un cittadin forlivese


rispondesse ad un frate che predicava.


Noi siamo entrati a parlar d’una materia, gentilissime donne e voi signori e gentiluomini, la quale per il mio giudizio par una cosa molto leggera, ma chi ci pensa maturamente è cosa di gran momento. Noi diciamo proverbialmente che la lingua non ha osso, ma che rompe il dosso. E cosí è che dei mille errori che si commettono, i novecento procedono tutti da poco considerar ciò che si dice; ché se pensassimo bene a ciò che dir vogliamo e tra noi far giudicio se le parole nostre ponno recare a noi o ad altri profitto o nocumento, quante pappolate si dicono che si terrebbero chiuse in gola? quante questioni si fanno che non si farebbero? quanti omicidii si commettono che si lascieriano stare? Gli uomini saggi prima che la parola gli esca di bocca la masticano molto bene, ma i trascurati, e che troppo di loro presumeno, dicano tutto ciò che loro vien a la bocca, onde tanti romori poi ci nascono al mondo e tanti duelli. Dirá poi quel pazzerone e che si pensa poter con l’arme in mano star a fronte con Marte: – Io vo’ dir ciò che mi piace, e se la lingua fallirá il corpo patirá la pena. – Ma perché non saria molto meglio non morder l’amico fuor di proposito che venir a queste mischie? E’ pare che Domenedio cosí permetta, che questi morditori e mal dicenti e che a la lor lingua non vogliono por freno, che quando vengano poi al menar de le mani, restano sbigottiti e non sanno ciò che si faccino, e restano con lor danno e vergogna o morti o prigioni. Ed io ne ho veduti tanti qui a Gazuolo, a Bozolo, a Gazoldo, a Mantova, a Scandiano e altrove in Italia per simil cagioni combattere, che vi potrei narrare che sempre l’ingiuriatore è restato di sotto. Ma io non voglio per adesso entrar in materia d’arme né referir cose sanguinose, sapendo ch’io dispiacerei a queste nostre madonne, a le quali io desidero non solamente con le parole far servigio, ma con l’opere de la vita, ogni volta che l’occasione mi accaderá, di farle conoscere quanto le son servidore. Dirò adunque quanto trascuratamente un cittadino di Forlí dimostrasse l’ignoranza sua, essendo stato troppo pronto a rispondere ove egli deveva tacersi e star ad ascoltare come facevano gli altri. Onde vi dico che, non è molto tempo, essendo in Forlí seguita una occisione grandissima e rovinamento con fuoco di molte case tra ghibellini e guelfi, come spesso per le nostre malvage fazioni suole in Romagna avvenire, i frati di san Domenico, che in quella cittá hanno un venerabile ed antico monastero, fecero elezione d’un santissimo uomo e solenne predicatore che la quadragesima seguente devesse la parola di Dio ai forlivesi predicare ed insiememente le lor parzialitá e vizii riprendere. Questo fu un fra Mattia Cattanio da Pontecorono di Lombardia, uomo in quella religione molto stimato per la sua buona ed austera vita. Come fra Mattia fu nel tempo de carnevale arrivato a Forlí, cosí fu dal priore pienamente instrutto dei peccati e sceleratezze che in quella cittá si facevano, e di tanti omicidii, abrusciamenti e rovine di case, che solamente per le parti dai ghibellini a’ guelfi si commettevano. Il predicatore del tutto pienamente informato, il primo giorno che cominciò a predicare, fatto il suo proemio e proposta e partita la sua materia che intendeva di predicare, prima che entrasse piú innanzi fece una sua accommodata scusazione, che non di sua volontá era venuto in quella cittá a predicare, ma mandato dal suo superiore, a cui non è lecito contradire, e che, nel viaggio e dopo che era a Forlí arrivato, aveva inteso tanti enormi peccati e vituperose maniere dei forlivesi, che gli pareva non esser venuto a predicar a cristiani, ma a mori e a turchi. – La cagione adunque per cui mandato sono qui è per disbarbare e svelgere i cattivi e scelerati costumi, e con l’aiuto di Dio seminarvi i buoni ed accendervi tutti ne la caritá del signor nostro messer Giesu Cristo e farvi del tutto con buon modo cangiar vita. Per questo avverrá che spesse fiate riprendendo le vostre sceleraggini sarò costretto a dire che voi sète bestemmiatori, ladri, assassini ed i maggior ribaldi del mondo. Quello ch’io dirò, tutto sará detto a buon fine. Similmente quando io dirò che voi sète usurari, adulteri, concubinarii, invidiosi, iracondi, golosi, seminatori di risse e di discordie, nodritori di guerre civili, nemici del ben publico, parziali, omicidiari e peggio che giudei, non vi devete adirare, ma pensar che io il tutto dirò a buon fine. – E molte altre cose simili rammentando, diceva pure che il tutto diria a buon fine. Era a la predicazione un ricco cittadino che dirimpetto al pergamo sedeva, il quale aveva nome Buonfine. Questo, pensando che il frate a lui volesse solamente predicare e non agli altri, perché era molto semplice, si levò in piede e discopertosi il capo disse al predicatore: – Padre, aspettate e non andate piú innanzi. A me pare che l’onestá e il debito voglia che voi predichiate a tutto il popolo e non a me solo. Dite pur anco a Berlinguccio, a Naldino, a ser Nicola Miglietti, a lo Sterlino e a ser Simone, che sono quelli che governano il commune ed hanno in queste cose piú a fare che non ho io. – E dicendo alcuni che tacesse e per nome appellandolo, il frate, conosciuta la semplicitá di messer Buonfine, gli disse che non dubitasse che a tutti darebbe la parte loro. E cosí andò dietro al suo sermone, e il nostro ser Buonfine fu cagione che tutto il popolo del suo sciocco parlare si ridesse senza fine.


Il Bandello a l’illustrissimo signore Pirro Gonzaga


marchese e signore di Gazuolo salute


Era, come sapete, mio costume, quando in Mantova dimorava, mentre che madama Isabella da Este marchesa al suo amenissimo palazzo di Diporto si teneva, andar due o tre volte la settimana a farle riverenza, e quivi tutto il giorno me ne stava, ove sempre erano signori e gentiluomini che di varie cose ragionavano, ora a la presenza di quella ed ora tra loro, secondo le occasioni. Avvenne un dí che subito dopo desinare quella con le sue damigelle in camera si ritirò. Onde essendo quei signori e gentiluomini che v’erano restati soli, il nostro festevolissimo signor Gostanzo Pio di Carpi disse: – Signori miei, noi qui siamo e, per quanto intendo, madama stará buona pezza prima che rivenga. Io lodarei che per fuggir il caldo che fa, che noi ci ritirassimo nel boschetto di pioppi che ella ha piantato in memoria del duca Ercole suo padre, e quivi su le rive del ruscello che ci corre ne la minuta e fresca erbetta sedessimo e ragionassimo di quello che piú ci diletterá. – Piacque a tutti la cosa e lá di brigata andammo. Come tutti fummo assisi, il signor Alessandro Gonzaga rivolto al signor Gostanzo disse: – Cugino, tu ci hai qui condotti e tu ci intertieni, e narraci qualche novelletta. – Il signor Gostanzo alora, che è, come meglio di me conoscete, bel parlatore e faceto, ridendo disse: – Poi che vi piace che io, come si dice, mi metta la piva in bocca, io sonerò e vi narrerò una piacevolezza che questi dí è accaduta. – E quivi cominciò a narrar certe cose di un archidiacono, e dopo lui altri fecero il medesimo, stando tutti su ’l ridere, fin a tanto che madama venne fuori. Io il tutto, come fui in Mantova, scrissi e in forma di una novella ridussi. E perché voi assai sovente avete di belle cose di lui dette e la sua vita sapete quanto alcun che ci sia, ho voluto questa novella darvi, imitando i poveri contadini, i quali, quando vengano a la cittá, per non apparir dinanzi al padrone a man vòte e non avendo altro che recare, porteranno duo capi d’aglio ed una cipolla, che talora saperanno meglio al padrone che non fanno i capponi. Se poi vi sovverrá che alcuna cosa degna d’esser scritta di lui ci fosse, da quei signori non raccontata, come anche infinite ce ne saranno, voi un dí me le direte ed io le scriverò, a ciò che la lorda vita di questo arcifanfalo meglio sia conosciuta, il quale giá fu la favola de la corte romana. State sano.