Novelle (Bandello)/Prima parte/Novella XXXI

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Prima parte
Novella XXXI

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Varie proposte e risposte di persone diverse prontamente dette.


Giulio secondo pontefice, ancor che di bassissima gente fosse disceso e non si vergognasse spesse fiate dire che egli da Arbizuola, villa del Savonese, avesse con una barchetta piú volte, quando era garzone, menato de le cipolle a vendere a Genova, fu nondimeno uomo di grandissimo ingegno e di molto elevato spirito, come infinite azioni sue fanno fede. Ma parlando de la prontezza de le risposte, per la quale ci siamo mossi a ragionare, vi dico che la nazione germanica, gli porse una supplicazione, che essendo per tutta la Magna la festa di san Martino in gran venerazione e in quel dí facendosi di molte feste, che tutti supplicavano che egli degnasse dispensare con tutta la nazione, che se bene il giorno di san Martino veniva in venerdí o sabbato, che si potesse mangiar de la carne, come si costuma il giorno di natale. Il papa veduta la indiscreta domanda di coloro che volevano paragonar la festa d’un santo a colui che fa i santi, non attese a volerglielo negare; ma fattosi dar la penna, sottoscrisse la supplicazione con queste formali parole: – Sia fatto come si domanda, pur che quel dí si astengano di ber vino. – Come i tedeschi videro quella segnatura, non sapendo che dirsi, si smossero da tal domanda non volendo perder il vino per mangiar carne. E certamente il papa non poteva far meglior risposta, perciò che avendo voluto dir che non stava bene ed altre ragioni che si potevano dire, ci sarebbe stato da disputare un anno; ma con questa troncò tutto ciò che dir potevano. Fu da tutti gli ascoltanti generalmente la pronta ed artificiosa segnatura di papa Giulio commendata, quando un cameriero del detto cardinale, che era spagnuolo e chiamavasi il Castigliano, cosí disse: – Ancor che io perfettamente non parli italiano, nondimeno ciò che voi dite intendo benissimo ed anco quando parlo sono inteso. Perciò, invitato de la pronta risposta di papa Giulio, vi dico che mio avo, che era stato lungo tempo a Roma, diceva che, essendo la guerra tra Ferrando vecchio re di Napoli e ’l duca Giovanni d’Angiò, venne a Roma la nuova come il duca Giovanni era stato rotto. Onde il cardinale di Amens, incontrando il signor Marino Tomacello, che era ambasciator al papa di Ferrando, che andava a palazzo disse: – Che cosa è questa, signor oratore, che avete sparsa per Roma, che il campo francese è stato rotto e messo in fuga? – Io non ho, monsignor, detto questa cosa, rispose Marino, – ma ho ben divolgato che tutti quelli che erano col signor duca d’Angiò sono stati o morti o presi, a ciò che nessuno potesse fuggire. – Punsero queste parole il cardinale, il quale mezzo irato disse: – Marino, Marino, tu sei troppo piú malizioso che a sí picciol corpo non conviene, – perché era Marino di picciola statura. Egli alora ridendo, al cardinale che era grande, grosso e grasso, cosí rispose: – E tu, monsignor mio, sei assai men veritevole e giusto di quello che a questa tua grandezza conviene; – onde veggendo il cardinale che nulla guadagnava, entrò in altri ragionamenti. – Parve a tutti che il signor Marino si fosse egregiamente portato e che in tutto egli avesse fatto come fanno i schermitori, che ricevendo botta danno risposta. E non dicendo altro il Castigliano, messer Cola da Venafri, uomo di tempo ed antico cortegiano, disse: – L’aver il nostro cameriero messo in campo Marino Tomacello m’ha fatto sovvenir di Marino Brancazio, il quale era sfrenato de la lingua e mordacissimo, ma tanto nemico dei letterati che mai non gli lasciava vivere. Desinando un giorno il re Ferrando a Poggio reale fuor di Napoli e conoscendo esso Marino esser piú vago di buon vino che di qualunque altra cosa del mondo, gli fece dar una tazza di ottimo greco. Marino non bevette il vino, ma se lo mangiò a poco a poco saporosamente, e con un succiar di labbra votò la tazza. Domandato poi dal re con qual lingua alora Bacco aveva parlato, rispose:– Con greca dottissima e letteratissima. – Uno degli astanti alora disse: – Che cosa è, Marino, che tu che sei tanto nemico dei letterati facci questo onore a le lettere? – A cui rispose un altro cortegiano: – Non sai che tra pari regna invidia? – Un giovine alora cameriero del re, a cui la vivositá di Marino era notissima, sorridendo disse: – Signori, con riverenza del re, ciò che ora dite non è a proposito, perciò che tra questi letterati alcuno non ci è che al signor Marino sia eguale non che superiore. – Questo tutti quelli ch’ivi erano, con piacer del re, fece assai ridere, denotando che tra i bevitori Marino otteneva il principato. – Poi che messer Cola si tacque, il signor Filippo da Gallerate, che era lungo tempo stato a Napoli in corte di quel re di Ragona, disse: – Egli è necessario che io dica due parole del Brancazio, avendolo in campo il nostro messer Cola messo. Quando il re Carlo ottavo prese il reame di Napoli e che i capitani abbandonarono Alfonso secondo, che con Ferrando suo figliuolo, Federico suo fratello navigò in Sicilia, molti si meravigliavano che Marino Brancazio essendo lor creato non fosse anco egli ito in Sicilia, e v’era uno che lo biasimava. Il che sentendo il signor Marco Antonio Sanazzaro disse: – Tu stai fresco se tu pensi che il signor Marino Brancazio debbia partirsi. Forse che non è tale il viver suo, e tal nel bere e mangiare il suo valore, e sí fatta la forza del continovare dal matino a la sera i conviti, che egli si debbia spaventare per i fiasconi francesi e dar le spalle ai loro sontuosi banchetti? Tu vederai che egli diverrá il maggiore angioino che sia nel regno. – Intesero tutti il mordace motto e non poco ne risero. – Avendo ciò detto il signor Filippo Gallerate e piú non parlando, il conte Giovanni da Tollentino pigliò la parola e disse: – Questi signori nei lor parlari sono stati a Roma e a Napoli, ed io vo’ parlar d’un nostro milanese. Ciascuno di voi o per vista o per fama conobbe il monarca de le leggi, messer Giason Maino, nostro gentiluomo di Milano. Egli ha publicamente letto negli Studii primarii d’Italia e dei duci di Milano è stato spesso oratore, e di tutte le sue imprese sempre onoratamente è riuscito come colui che nel vero possede molte ottime parti. Ora mandando il duca Lodovico Sforza, duca alora di Bari, madama Bianca, figliuola del duca Galeazzo suo fratello, a marito a Massimigliano eletto imperadore, volle che messer Giasone con molti altri signori e gentiluomini l’accompagnasse. Avvenne che essendo nel lago di Como ebbero una fortuna grandissima, di sorte che furono per annegarsi. Tutti quei signori e cavalieri, mentre che il periglio durò, stavano di malissima voglia per téma de la morte. L’imperadrice con l’altre dame piangevano e gridavano mercé a Dio. I barcaroli erano mezzi perduti, di modo che non si vedeva altro che imagini di morte. Solamente messer Giasone era quello che di tutti si rideva, e né piú né meno se ne stava come se il lago fosse stato tranquillissimo. Fecero pur tanto i barcaruoli che, essendo un poco cessato il vento, si ridussero a Bellano una parte, ed alcune altre barche furono astrette andare a Sorgo, terra quasi nel capo del lago. L’imperadrice smontò a Bellano, ed avendo ripigliato animo e ragionandosi del pericolo grandissimo che avevano corso, domandò a messer Giasone come esser potesse che egli si fosse di cosí perigliosa fortuna beffato senza mai mostrar segno di paura. – Serenissima madama, – rispose egli sorridendo, – io era sicuro di non perire, perciò che io so che il cuoco di Cristo non è imbriaco, che quella carne che si deve arrostire egli mettesse a lesso. – Risero tutti de la faceta risposta, con ciò sia che assai chiaro fosse che egli non era molto de le donne vago. Ma a me giova di credere che egli, che era prudentissimo, sapesse con viso allegro la paura dissimulare, e che per far rider l’imperadrice desse cosí fatta risposta. – E variamente de le dette novellette ragionandosi, venne l’ora che il cardinale montò a cavallo, e tutti l’andarono ad accompagnare.


Il Bandello a l’illustrissimo e reverendissimo


signor Lodovico di Ragona cardinale


Il volersi senza l’opere acquistar nome di santitá pare che per il piú regni ne le persone religiose che in altri, perciò che tutti vorrebbero esser tenuti santi, e se qualche vizio in loro si truova, si sforzano celarlo piú che sia possibile, sí per riverenza de l’abito, come anco per tema del severissimo castigo che loro dai superiori vien dato. Ma perché tutte le simulazioni sono come l’erba sotto la neve, che a breve andar si scopre, cosí tutti questi ippocriti col corso del tempo sono scoperti ed assai spesso beffati. Il che è cagione che molte fiate i veri e buoni religiosi non hanno quel credito che si deveria. Ed essendo in Napoli scopertosi certa ipocrisia d’una persona religiosa, e di quella a la presenza di vostra zia – madama Beatrice di Ragona reina d’Ungaria, rimasta vedova per la morte de l’immortal eroe il re Mattia Corvino – parlandosi, il signor Francesco Siciliano maggiordomo di quella, uomo attempato e molto da bene, fu da quella richiesto che narrasse ciò che avvenne a fra Francesco spagnuolo, che voleva esser tenuto agnello ed era lupo rapacissimo. Il signor Francesco assai si scusò di non dirlo. Voi che quivi eravate vicino a lei, devete ricordarvi ciò che la reina gli replicò, ché per ora non accade scriverlo. Egli dunque da quella astretto disse come la cosa era passata, la quale subito fu da me scritta. E non volendo che senza padrone resti, al nome vostro la dono e consacro per segno de la mia servitú e dei molti beneficii da voi ricevuti. State sano.