Novelle (Bandello)/Quarta parte/Novella VI

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Quarta parte
Novella VI

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Bella vendetta fatta da’ frati menori contro li mugnai di Parigi,


che gli aveano sforzati a ballare.


Egli parrá forse ad alcuni, madama mia eccellentissima, che il parlar sí lungamente del vino a la presenza vostra sia cosa non convenevole, ma piú tosto materia da appetitosi e fora di modo ingordi bevitori, come è Gioanni da Reggio credenzero, che in la casa vostra a Verona ogni mattina a buona ora, a stomaco vòto, traguggiava uno grandissimo bicchiero di quello fumoso vino bianco di Saline; di maniera che in pochi giorni piú di quindeci gran brente di vino tracannò, di modo che al tempo de li meloni, volendo li signori berne tre dita, non ce ne trovarono una goccia. Ha poi questa buona parte: che, capitando ogni dí in questa casa assai forestieri, come ogni ora si vede, questo cinciglione a tutti tiene compagnia; onde il piú del tempo si trova ebro, e dice poi le maggiori papolate del mondo. Ma dove sono io trascorso a parlare di questo mal netto porco ubriaco, che non merita che di lui in cosí onorato luogo si parli se non come di Pilato nel Credo? Vi dico adunque che non è se non ben fatto a sapere la utilitá che il buono vino moderatamente bevuto reca agli uomini, e per lo contrario quanto danno fa ogni volta che l’uomo lo beve o for di modo o guasto, perciò che in l’uno e l’altro modo infinitamente nuoce. Né questa è colpa del vino, che in sé è mirabilemente giovevole a li corpi nostri; ma il male proviene dagli uomini che non si sanno governare. Chi non sa che il buono vino maturo, chiaro e odorato, è uno liquore soavissimo, vero sostenimento de la vita umana, rigeneratore degli spiriti, rallegratore del core e restauratore potente e efficacissimo di tutte le vertuti e azioni corporali? Guardate al nome de l’arbuscello che produce questo sacro liquore. Egli pure si chiama «vite», perché nel vero egli dona la vita a l’uomo. Si dice anco ne la Sacra Scrittura che il vino moderatamente bevuto è la esultazione de l’anima e del corpo, e che de li medesimi il sobrio bere è la sanitá. Tutto questo ci dice il Sapiente. Ora per queste lodi attribuite al vino pare che il commune proverbio che si dice: «il vino è il latte de li vecchi», sia ragionevolemente detto, perciò che, sí come il latte nodrisce tutti li piccioli fanciulli, cosí pare che ne la etá senile e decrepita sia il perfetto vino la norritura e mantenimento de la vecchiezza. Avete inteso la utilitá che si cava dal vino, senza che di quello agli uomini e anco agli animali si fanno molte salutifere medicine. Ma guardino bene questi cinciglioni ubriachi, che non si mettano in capo avere da ogni ora il bicchiero in mano e a la bocca. Sappiano che ogni estremo ordinariamente è vizioso e nocivo; che sempre io ho detto che il vino vuole essere con misura bevuto e con onesto temperamento. Odano ciò che dicono le sacre lettere. Non è egli scritto che molti piú el troppo mangiare e bere ne ha morti, che non ha fatto il coltello? Non dice egli il Sapiente che il vino fa apostatare gli uomini saggi? e che esso vino è creato da Dio per ioconditá e non per inebriare? Non è egli scritto che il vino, for di modo preso, a molti è stato cagione chiara di fargli irritare e corrociare, e che infiniti ne ha roinati? Certo che lo Ecclesiastico ha lasciato scritto che «il soverchio vino bevuto è la amaritudine de l’anima». E questi sono pure danni grandissimi. Veramente il vino, quando si beve piú del dovere, causa orrendi morbi e pestifere infermitá. E secondo che è preso sí come richiede il bisogno de la temperatura de li corpi nostri, conferisce molto al nodrimento del corpo, genera ottimo sangue, si convertisce prontamente a nodrire, accresce la digestione per tutte le membra e parti corporali, fa buono animo, rasserena l’intelletto, rallegra il core, vivifica gli spiriti, provoca l’orina, caccia la ventositá, aumenta il calore naturale, ingrassa li convalescenti, eccita l’appetito, rischiara il sangue, apre le oppilazioni, distribuisce il cibo nodritivo a le parti convenevoli, fa buono e bello colore e caccia fuori tutte le superfluitá. Eccovi il bene. Ma voltiamo carta e veggiamo li mali. Questo prezioso e vitale liquore fore de l’uva premuto, se si beve senza modestia e senza regola, come sogliono fare gli ubriachi, infrigidisce per cagione accidentale tutto il corpo, suffocando il calore naturale, come si estingue uno picciolo fuoco cui sovra sia gettata una gran quantitá di legna. Nuoce al cervello, offende la nuca e debilita i nervi; onde causa assai sovente apoplessia, cioè la goccia, paralisia, mal caduco, spasimo, stupore, tremore, abbagliamento di occhi, vertigini, contrazioni di giunture, letargia, frenesia, sorditá e catarro. Corrompe poi i buoni e lodevoli costumi, perciò che fa diventare gli uomini cianciatori, sbaiaffoni, contenziosi, bugiardi, disonesti, lussuriosi, giocatori e furiosi e sovente micidiali. Guasta la memoria e rende, chi troppo ne ingoia, smemorato. Che dirò io de la podagra, chiragra e tanti altri morbi articolari, che tutti provengono dal troppo immoderato bere? Dicono gli approvati medici che il vino conviene piú a li vecchi che a tutti gli altri, con ciò sia cosa che tempra la freddura contratta con la lunghezza degli anni loro. Ma a li fanciulli e a li giovani sino a la etá di venti anni non si conviene il vino in modo alcuno, secondo l’autoritá del grande Galeno maestro de la era medicina, dicendo egli nei libri suoi Del modo di conservare la sanitá che il dare bere vino ai fanciulli e a’ giovani non fa altro effetto che aggiungere fuoco a fuoco. Ma usciamo fore di medicina. E non si partendo perciò dal vino, io vuo’ narrarvi una ridicola istorietta avenuta non è molto a Parigi. Sapete tutti essere generale consuetudine in questi paesi di Francia, che a certi tempi de l’anno per le cittá e grosse ville gli artesani hanno i loro giorni deputati per l’anno, ne li quali ora una arte si aduna, ora l’altra, a fare la sua festa. Cosí adunati, gli artesani di una arte vanno di brigata, in ordinanza a modo di soldati, per la cittá o castello loro, e insieme disinano e cenano con banchetti molto abondevoli di varii cibi e bonissimi vini. E perché fra il giorno vanno discorrendo, saltando, ballando e facendo di molti bagordi, si riscaldano pur assai; e fora di misura bevendo e rebevendo, la piú parte di loro restano ubriachi e ballordi. Avenne, come vi ho detto, che in Parigi li mugnai fecero la loro festa; e tante pazzie fecero e cosí disonestamente si cargarono di vino, che molti di loro uscirono fora di sentimento e cavalcarono, come proverbialemente si dice, la cavalla del Melino, che andò piú di quarantanove miglia fora del suo. Dopo cena, adunque, tutti si trovarono sovra il ponte ove sono li molini ne la Senna; e quivi danzando tra loro, saltando e come pazzi da catena imperversando, pareva a punto che celebrassero li baccanali. In questo ecco che dui frati menori, di quelli che si chiamano «osservantini», andando per loro bisogni per la cittá, senza altrimenti pensare piú innanzi, passarono sovra il detto ponte de le molina. Come alquanti di que’ mugnai, che dal soverchio vino non digesto erano piú che cotti, si avidero de li frati, come lupi rapaci fanno in uno branco di pecore, si aventarono loro a dosso; e mal grado loro, prendendoli per li cappucci, se gli strascinarono in mezzo e, volessero o no, gli sforzarono saltare e bagordare, menacciandoli, se non facevano di brigata quelle pazzie che essino vedevano fare, che col capo avanti li gettariano dentro il corrente fiume. E gridando a piena voce: – Ballez, ballez, cordiglieri, – traendoli per le tonache e cappucci, miseramente li tormentavano. Veggiendosi li poveri religiosi condotti in mano di que’ ubriachi, e temendo non andare a bere nel fiume piú acqua che non bisognava, posti tra l’incudine e il martello, elessero piú tosto saltare secondo che quei giocavano, che essere mandati a pescare senza rete e senza canna con l’amo. Pensate che spettacolo pareva quello a vedere, tra piú di trenta ebri mugnai, dui frati in cotale maniera bagordare e imperversare! Oh quanto sarebbero stati meglio que’ mugnai a Marseglia! vi so dire che averebbero fatto una brava fornitura a le galere del nostro re cristianissimo. Poi che assai i poveri religiosi travagliati e affaticati furono, fecero li mugnai portare del vino e cominciarono a tracannarne grandissimi bicchieri. Né crediate che ci mettessero gocciola di acqua. Onde medesimamente furono astretti i frati a berne due grandi tazzone. A la fine, usciti de le mani di quegli asinacci, tutti stracchi, lassi, pieni di grandissimo sudore e mezzi storditi, piú tosto che poterono si ridussero al loro monastero, e nel cospetto del loro guardiano presentati, li narrarono la grave sciagura che loro era intravenuta. Del che il buono guardiano ne prese grandissimo despiacere, sí come tanto disonesto caso e cosí poca riverenza, a l’abito e servi di san Francesco usata, meritamente ricercava. Ma, essendo persona attempata e saggia e di lunga esperienza, non volle correre a furia né andarsi a querelare al magistrato de la giusticia; ma, deliberando prendere la lepre, come dir si suole, col carro, fece congregare tutti li suoi frati, che ordinariamente sono sempre piú di quattrocento, e sotto pena di obedienza commandò loro che a patto nessuno di questo misfatto non devessero parlare con persona che si fosse; anzi se ci era chi loro ne facesse motto, mostrassero di non ne saper nulla e lasciassero la cura a lui di farne la condecevole e onesta vendetta. Considerava il buono vecchio e prevedeva che il volersi lamentare a la corte di parlamento era uno mettersi in bocca del volgo e forse publicare a tutto Parigi quello che forse a pochi era manifesto. Tuttavia andava pensando di ritrovare modo e via di dare uno bravo gastigo a quelli ribaldi e presontuosi e villani mugnai, che fosse senza fare tumulto ne la cittá e donasse esempio agli altri di lasciare andare le persone religiose a fare i fatti loro e non le dare simili disturbi. La cosa non era troppo divolgata per Parigi, di maniera che li mugnai, non ne sentendo buccinare motto alcuno, se la gettarono dopo le spalle né piú suso vi pensarono. Ma lo scaltrito e prudente vecchio messer lo guardiano, come uomo che a nuocere luogo e tempo saggiamente aspetta, se l’aveva con adamantino nodo legata al dito e di continovo andava pure pensando e chimerizzando come potesse rendere a li detti ubriachi mugnai pane per fogaccia, e non fosse in modo veruno ripreso, anzi ne riportasse lode. Gli erano giá per la mente passate molte vie per potere prendere ottimo e piacevole gastigo di quelle insolenti bestie de li mugnai, e a nessuna si era fermato, quando la fortuna se gli parò opportunamente dinanzi. Fu uno mercatante, il quale avea fatto conducere una gran quantitá di frumenti a Parigi, e avea avuto grazia dal guardiano di riporla ne li granai del monistero. Il guardiano, parendoli avere il piú bello modo del mondo di vendicarsi e molto facile ad eseguire, e che, divolgandosi per Parigi, saria reputata una piacevole e condegna vendetta, e che averebbe molto del buono, si deliberò di non lasciare passare cosí buona e bella occasione. Erano giá passati molti dí dopo la festa de li mugnai, che piú non si ricordavano de la disonesta ingiuria fatta a li frati, quando il guardiano mandò a li padroni de le molina uno suo servitore del monistero, e fece loro intendere come si trovava molti sacchi di grano, li quali volentieri, prima che finisse la luna del mese di agosto, desiderava che fossero per ogni modo macinati, perciò che la farina fatta in quella luna durava lungo tempo senza guastarsi; onde li pregava essere contenti di volerli macinare tutti li detti grani, con gli emolumenti loro che costumano per la macinatura di prendere. Convenuti adunque del giorno per cominciare a macinare, mandarono li padroni de le molina il mattino a buona ora li cavalli e asini e mule loro con trenta famigli loro a prendere parte del grano. Tra questi erano tutti quelli che avevano fatta la burla del ballare e saltare a li due frati. Il guardiano aveva messo a ordine cerca ducento de li suoi frati giovani di ogni nazione, essendovi frati francesi, italiani, tedeschi e spagnuoli, che quivi eran da le provincie loro mandati a studio. Ci erano anco li dui che sovra il ponte erano stati costretti a fare la moresca. Come li mugnai furono giunti al monistero, furono con le bestie loro introdutti dentro; e andando verso il granaio, intrarono in uno gran camerone, dove in uno tratto furono da li preparati compagni di modo circondati che nessuno puoté da le mani di quelli frati scappare. Quivi, senza potersene fuggire, li buoni frati, tutti ignudi, come il giorno che vennero al mondo, gli ebbero in pochissimo tempo dispogliati. Onde al suono di quelli loro poderosi cordoni, senza misericordia e meno di pietá, gagliardamente li batterono e molto stranamente gli flagellarono, gridando tuttavia: – Ballez, ballez, meschans que vos estes! – Io vi so dire che que’ giovani religiosi fecero la vendetta de li dui frati, e li mugnai impararono fare una danza che mai danzata non avevano. Erano le carni loro per le terribili battiture parte livide e parte sanguigne. Essendo poi li frati vie piú stracchi che sazii, fecero venire di molti secchi di acqua fresca, de la quale a ciascuno mugnaio ne diedero a bere uno pieno tazzone. E in questo furono assai piú discreti li frati a dare bere acqua a que’ mugnai, che essi stati non erano quando a li dui poveri riscaldati frati fecero ingozzare il vino, che poteva fargli uno grandissimo nocumento di alcuna grave infermitá. Venne allora messer lo guardiano e fece dare li panni a gli flagellati mugnai, li quali, pieni di male animo tutti lo guardavano in cagnesco, come autore e ministro de le loro battiture e fiero supplizio. Del che avedutosi, il buon vecchio disse loro: – Figliuoli miei, sapete bene che communemente si suole dire: «Chi ne fa ne aspetta». Li miei frati andavano a fare li bisogni loro per la cittá, né molestia alcuna vi era da loro data. Ma voi, come assassini che albergano tra le foreste, senza avere riguardo nessuno al sacrato abito del serafico patriarca messer san Francesco, li faceste quello disonore che vi piacque, e li menacciaste gettarli dentro il corrente fiume. Vi paiono queste belle cose da fare a li servi del signore Iddio? Portate adunque in pazienza la disciplina che vi ho fatto dare. E ogni volta che vi verrá voglia beffare, di quello modo che fatto avete, li miei frati, io vi farò apparecchiare uno di questi sontuosi banchetti. Andate in pace e pigliate le bestiole vostre. – Si divolgò la cosa per Parigi e pervenne ancora a le orecchie del re, il quale se ne rise, parendo lui che fosse convenevole che «quale asino dá in parete, cotale ancora riceva». Per la cittá poi non potevano li molinari fare uno passo, che li fanciulli e altri non gridassero loro dietro: – Andate, andate, publici ladroni, al monisterio de li cordiglieri, ove troverete del grano de li noderosi cordoni in grande abondanza.


Il Bandello al molto diligente e leale messer


Giulio Calestano salute


Per infinite prove piú fiate apertamente si è conosciuto, ne li casi che assai sovente a la sproveduta occorreno, il consiglio de le donne essere stato di gran profitto e giovevole a molti, ove assai uomini cosí tosto e sí bene, e forse anco pensandovi su, non vi arerebbero trovato rimedio veruno. Nondimeno io non consiglio donna alcuna che per questo si assicuri a fare cosa che si sia trascuratamente, perché non sempre riesceno tutte ben fatte. Prima le esorto a non fare cosa che riprendere e colpare si possa; e se pure talora per la fragilitá loro si lasciano da disordinato appetito trasportare, prima che mettano le mani in pasta, deveno maturamente discorrere ciò che può avenire e provedergli a la meglio che sanno, acciò, quando viene dapoi il bisogno, non siano còlte a l’improviso e dicano: – Oimé, io non ci pensava! – come le poco avvedute sogliono dire. Ragionandosi di questa materia per una donna che in una terra qui vicina fu trovata col suo amante in letto dal proprio marito, si dissero in una bella e buona compagnia di molte cose, secondo li diversi pareri degli uomini. Si ritrovò in detta compagnia maestro Arnaldo da Bruggia di Fiandra, pittore, a mischiare diversi colori insieme, per farne uno a suo modo, molto industrioso e singolare; il quale a questo proposito narrò una non troppo lunga novelletta, ove chiaro si vede l’avedimento di una donna a l’improviso avere servata la vita a la sua padrona e insiememente a uno mercatante fiorentino. Io, avendo essa novella secondo che fu narrata descritta, e sovenendomi di voi, che ancora nessuna de le mie novelle vi aveva data, deliberai che questa sotto il nome vostro fosse veduta e letta da quelli che de le mie ciancie prendono piacere, e anco perché resti per memoria de la nostra mutua benevolenzia a chi verrá dopo noi. Vi prego adunque amorevolemente accettarla. State sano, e di me, che tanto son vostro, siate ricordevole.