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Novelle (Bandello)/Quarta parte/Novella XII

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Quarta parte
Novella XII

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Quarta parte - Novella XI Quarta parte - Novella XIII

Cassano re de la Tartaria veggendo uno manifesto miracolo


si converte con tutti li suoi a la fede cristiana.


Per quello che io giá, signori miei, udii predicare a uno de li frati di san Domenico nel loro venerabile loco de la Rosa, non si devemo meravigliare se a li tempi nostri non veggiamo farsi tanti miracoli quanti nel prencipio de la nascente fede dagli apostoli e altri santi si vedeano fare. E questa essere la cagione diceva: perché allora bisognava, per convertire a la fede gli infedeli, con li miracoli tirarli, e mostrare a tutte le nazioni, che sotto il cielo viveno, che in nome di altro dio che da infedeli si adori, – perché li dèi de le genti sono demonii, – non si ponno far miracoli, se non col nome e vertute del Padre, del Figliuolo e de lo Spirito Santo. Ora che la fede è fondata e fermata col prezioso sangue del salvatore del mondo, Cristo Giesú benedetto, e col testimonio di tanti martiri e tanti santi, non sono piú li miracoli necessarii, ancor che sovente molti se ne facciano. Cosí predicava il riverendo padre. Il perché, non mi discostando da la materia di essi miracoli, io vuo’ narrarvene uno meraviglioso, che fu cagione di convertire a la vera fede l’imperadore de la Tartaria con li suoi popoli. Vi dico adunque che Cassano, figliuolo che fu di Argone Cane imperadore di Tartaria, successe a suo padre ne lo imperio e fu molto da li suoi tartari amato e ubedito. Veggendosi egli ne la sedia imperiale con amore grandissimo de li suoi popoli, e udendo dire gran cose di una figliuola del re de l’Armenia, che in que’ tempi era generalmente lodata per la piú bella giovane che si potesse vedere, come uomo che per fama si innamora, sí forte de le bellezze di quella si accese, che si deliberò averla per moglie. Onde, fatta cotale deliberazione, essendosi consigliato con li suoi baroni e a tutti piacendo il volere del loro re e imperadore, mandò a lo re d’Armenia una solenne ambasciaria a chiederli la sua figliuola per moglie. Il re, udita l’ambasciata, si trovò molto di mala voglia, conoscendo sua figliuola, che Catarina per nome si chiamava, essere buona e divota cristiana e il tartaro essere infedele e idolatra. Da l’altra banda, veggendo le affettuose e caldissime preghiere che gli ambasciatori li faceano, dubitò che, non compiacendo loro, il tartaro, sdegnato, non mandasse uno esercito a li danni e destruzione de l’Armenia. Ma prima che si risolvesse a dar loro risoluta risposta, conferí la dimanda del tartaro con la figliuola e il periglio che sovrastava se a quella non si compiaceva. Catarina, stata alquanto sovra di sé tutta pensosa, in questo modo al padre rispose: – Padre e signore mio osservandissimo, prima che mai essere cagione di nessuno menomissimo despiacere o danno a te o al tuo reame, io vorrei piú tosto morire o non essere nata giá mai. Perciò io consentirò di prendere per marito questo tartaro, mentre però che vi intravenga una sola condizione, che sará: che io possa con li miei, che veranno per miei servigi a star meco, vivere e osservare la mia legge cristiana. Nel resto poi io li sarò obedientissima moglie e serva. – Piacque al padre la saggia risposta de la figliuola, e seco conchiuse ella medesima fosse quella che risolvesse gli ambasciatori de l’animo suo. Introdutti che furono li tartari nel cospetto de la reale giovane, fattale la debita riverenza, restarono a la vista de la incredibile e meravigliosa bellezza di lei di tal modo stupefatti e pieni di estrema ammirazione, che non bellezza mortale vedere si imaginavano, ma credevano essere dinanzi a uno angelo del cielo. Le fecero poi intendere quanto il loro imperadore ricercava, come di giá ella deveva dal re suo padre essere a pieno informata. Allora la reale donzella molto leggiadramente con accommodate parole fece loro aperta la volontá sua. Udita gli ambasciatori che ebbero la risposta, dissero che del tutto a l’imperadore dariano per messo a posta aviso, e che portavano ferma openione che egli di quanto ella ricercava intieramente la compiacerebbe. Onde tutti in conformitá al loro signore scrissero ciò che la giovane ricercava. Poi largamente con molte parole lo avertirono de la indicibile e veramente suprema beltá, leggiadria, bei modi e cortesia di quella. L’imperadore tartaro, letta la lettera, si sentí infinitamente accrescere il desiderio di avere la tanto lodata giovanetta, e fece scrivere uno ampissimo decreto, sottoscritto di sua mano propria e del suggello imperiale suggellato, dove confermava molto largamente tutto quello che la sua futura sposa dimandava. Uno altro poi decreto mandò a uno degli ambasciatori, cui dava autoritá di poter sposare in nome di esso imperadore la detta giovane. Cosí furono celebrate con grande solennitá le sponsalizie e condutta la sposa in Tartaria, onoratissimamente accompagnata. Ella, oltra li baroni che il re suo padre mandò per compagnarla, menò con lei alcuni sacerdoti armeni e altri uomini e donne de li suoi, che devevano rimanere seco. Ella giunta ove era l’imperadore, fu da quello amorevolissimamente racolta e come legittima imperadrice onorata. Restò esso imperadore senza fine meravigliosamente sodisfatto, e in poco di tempo ella sí bene e con tanta umanitade e gentilezza si diportò, che appo tutti quei popoli venne in grandissimo credito, e generalemente era da tutti amata e riverita. E grandi e piccioli universalmente lodavano l’avedimento del loro signore, che sí bene aveva saputo provedersi di cosí cara moglie. Non istette molto ella col marito, che si ingravidò con grandissimo contento di tutto il suo imperio, che ne dimostrò allegrezza infinita. Ora, come piacque a nostro signore Iddio, che dal male sa eleggere il bene, al debito tempo de la sua pregnezza ella partorí uno figliuolo di cosí strana e piú che brutta effigie, che piú a fiera e orrendo mostro rassembrava che a criatura umana. Onde, restando e li cristiani, che condutti seco avea, smarriti, e ella fora di misura dolente, era in tutta la corte uno infinito bisbiglio e uno apertissimo e grande mormorio di cosí mostruoso parto, e ciascuno il biasimava. Lo imperadore, ancora che la moglie ardentemente amasse, intrato in una fiera gelosia che quella avesse commesso adulterio, cangiò l’amore in acerbissimo odio; onde insieme con li consiglieri suoi la condannò, con la nata criatura, al fuoco. Il che doleva molto a tutto il popolo, tale era la openione che de la sua vertú si aveva. Veggiendo la tribolata e afflitta imperadrice che nessuna sua iscusazione era accettata, si dispose pazientemente a patire il fuoco e ricevere in grado la morte. Fece poi supplicare al marito, che lasciasse che si potesse confessare e far dare a la nata criatura il battesimo, il che il tartaro di leggiero le concesse. Fatto adunque ella venire il suo sacerdote, si confessò e prese il sacratissimo corpo del Salvatore nostro con grandissima divozione. Volendo poi, in una chiesa che ella aveva fatto fabricare, che si desse il battesimo a la sua criatura, l’imperadore con li suoi volle che su la piazza, per non intrare egli in chiesa e per vedere la cerimonia del battesimo, che quello a la criatura si desse. Come il battesimo a quella criatura fu dato, subito a la presenza de l’imperadore e baroni e di tutto il popolo, quella cosí mostruosa e brutta criatura fu miracolosamente trasformata in uno bellissimo figliuolo e piú grazioso di tutto quello imperio, rappresentante molte fattezze del padre; onde tutto il popolo cominciò a gridare che la imperadrice ingiustamente era condannata. Cassano, li suoi baroni e quanti erano presenti, veduto tanto manifesto miracolo, si convertirono a la fede di Cristo ed ebbero il battesimo. L’imperadrice col figliuolo fu da Cassano con infinito piacere ritornata nel pristino grado. Questo è quello Cassano, che al tempo di Bonifacio ottavo, con l’aiuto del suocero re de l’Armenia e del re di Georgia, venne con grossissima gente contra Melesain soldano di Egitto, e con mortalitá grande di sarraceni lo cacciò de l’Egitto, liberò Gierusalem dagl’infedeli e devotissimamente visitò il santo sepolcro; e mandò una onorevole ambasciaria al papa e al re di Francia, ché mandassero gente in Soria a guardare quelli paesi, perché egli non poteva lungamente colá dimorare, essendoli mossa guerra in Tartaria. Ma papa Bonifacio attendeva con ogni sforzo cacciare Colonnesi e tutti li gibellini fora del mondo, e Filippo Bello re di Francia, iscommunicato da esso Bonifacio, facea ogni cosa per levarlo dal papato. Morí Bonifacio e li successe Benedetto undecimo, ma campò sí pochi mesi, che non puoté, come avea deliberato, fare l’impresa de la Terra Santa; di modo che poi, tornato Cassano in Tartaria, li saraceni ricuperarono tutti li luoghi perduti con vituperio eterno del nome cristiano.


Il Bandello al molto magnifico e dotto messer


Francesco Peto Fondano salute


Quello giorno che voi a la presenza de la nuova Saffo, la signora Camilla Scalampa e Guidobuona, in casa sua recitaste l’arguto vostro epigramma fatto in lode de le maniglie de la incomparabile eroina la signora Ippolita Sforza e Bentivoglia, il nostro messer Antonio Tilesio molto quello commendò. Onde io, per l’amicizia che seco ho, lo pregai che anco egli volesse alcuno de li suoi poemi recitare. Egli, che è gentilissimo, non sostenne essere troppo pregato, ma con quella soavissima sua prononzia recitò il suo Pomo punico, o vero, come volgarmente si dice, granato, di modo che il vostro e suo poema mirabilmente a tutti piacque. Tutti dui poi, non contenti di averli recitati, di vostra mano scritti me li deste. Indi ragionandosi di varie cose, la signora Camilla pregò il Tilesio che con alcuna novella ci volesse alquanto intertenere. Il che egli graziosamente fece, narrandoci una non molto lunga novelletta, che a tutti fu grata. Quella, avendola io descritta, ho voluto che al nome vostro resti dedicata. Io, prima che mai vi vedessi, sommamente vi amai e desiderai conoscervi, a ciò incitato da l’autoritá del magno Pontano, che ne li suoi dottissimi scritti molto onoratamente vi ha collocato. Quando poi, giá molti anni sono, passai per Fondi e feci riverenza al generoso e magnanimo eroe, il gran Colonnese, il signor Prospero, egli fece che noi dui insieme parlassimo. Quivi cominciò l’amicizia nostra, che sempre poi si è mantenuta di bene in meglio. In testimonio adunque de la nostra mutua benevolenza, questo mio picciolo dono accetterete. State sano.