Novelle (Bandello)/Seconda parte/Novella XIII

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Seconda parte
Novella XIII

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Maometto imperador de’ turchi ammazza i fratelli, i nipoti


e i servidori con inudita crudeltá vie piú che barbara.


La morte del capitan Zagaglia è stata di sorte che ne la sua fine ha dimostrato quello che egli sempre fu mentre visse, cioè fedele, animoso e forte. Deve certamente, signori miei, a tutto questo felicissimo essercito doler la morte sua, avendo perduto uno de’ valorosi uomini che avessimo. Tuttavia, considerando che egli onoratamente ha compíto il corso de la sua vita, non è da dolersene. Ora la crudeltá usata dai nemici nel suo morto corpo m’ha fatto sovvenir di molte crudeltá che, essendo io in Grecia, sentii piú volte narrar a molti turchi; e non vi rincrescendo d’ascoltarmi, vi farò sentir cose che vi parranno incredibili, e pur sono vere. Maometto, di questo nome secondo imperador de’ turchi, fu figliuolo d’Amorato secondo, ed esso Maometto fu quello che debellò e levò ai cristiani l’imperio orientale. Egli ancora giovinetto fu dal padre, che era vecchio e molto desiderava la quiete ed il riposo, fatto signore sotto la cura di Calí, che era il primo basciá ed uomo di grandissima sperienza nel governo e ne le cose militari. Andò Amurato ne la cittá chiamata Mamissa che è ne l’Asia Minore, e quivi con i religiosi de la setta maomettana religiosamente viveva. In questo mezzo gli ungari prepararono un numeroso essercito sotto il governo del glorioso capitano Giovanni Uniade, il cui figliuolo Mattia fu poi re d’Ungaria. Inteso dai turchi che gli ungari gli volevano assalire, deliberarono di rivocare, per consiglio di Cali basciá, Amurato, non parendo loro che Maometto, che aveva poco piú di ventun anno, devesse esser bastante a tanta impresa, del che Maometto se ne sdegnò grandemente. Ma perché sapeva simulare e dissimulare come voleva, non mostrò di fuori lo sdegno de l’animo suo. Venne non dopo molto Amurato a morte, e quello dí stesso che il padre suo morí, Maometto lasciata la cura dei funerali, a ciò che il principio del suo imperio cominciasse e consacrasse col sangue fraterno, essendo ancora caldo il corpo del padre, corse a le camere ove un suo fratello chiamato Tursino, che aveva diciotto mesi, si nodriva. Trovò il bambino ne la culla, il quale cominciò, sorridendo come fanno i piccoli fanciulli, a guardare Maometto. Egli con furia dato di mano a l’innocente fratello, lo voleva col capo percuotere al muro. Era con il crudelissimo tiranno un allevato seco che si chiamava Mosè, il quale veggendo questa immanissima feritá, s’inginocchiò davanti a Maometto, supplicandolo affettuosamente che non si volesse bruttar le mani del sangue fraterno. Impetrò quanto supplicava, mentre che egli il bambino subito uccidesse. Ubidí Mosè, e preso il fanciullo, quello in un vaso d’acqua violentemente suffocò ed il picciolo corpo mise in terra. Hanno i turchi questa superstizione, che non sia lecito spander il sangue regio degli Ottomanni in terra, e per questo gli suffocano. La madre del misero Tursino, inteso il caso come era successo, ululando e gridando corse a quella camera, e trovato l’innocente figliuolo disteso in terra, se lo recò ne le braccia, raddoppiando le grida e mandando le voci piene di lamenti sino al cielo, e pareva forsennata. Rideva il crudelissimo tiranno e pareva a punto che gioisse del pianto de la matrigna. Era nasciuto Maometto di madre cristiana, figliuola di Zorzo re de la Servia, che Amorato prese per moglie; ma perché i turchi prendeno piú mogli, la madre di Tursino era di nazione turca. La quale col figliuolino morto in braccio al tiranno rivolta, poco la vita curando, audacemente disse: – È questo il tuo fratello, o imperadore, che tuo padre morendo con tante lagrime ti raccomandò? A questo modo ti par ragionevole di macerar un innocente bambino? Con la morte del fratello vuoi, prima che tuo padre sia seppellito, dar principio al tuo imperio? Oh sceleratezza nefaria e crudelissima e piú che tirannica! o ferina crudeltá! Dio come ti sostiene? Aspetta, aspetta, ché tu ancora la vita tua cosí finirai, e credilo a me che altra morte non sei per fare. – Dicendo queste e simili altre parole, la dolente madre cascò stramortita dinanzi ai piedi di Maometto. Egli comandò che la donna fosse rilevata, a la quale, essendo in sé rivenuta, tutto lieto e con ridente faccia cercava il dolor levare dicendo: – Madre mia, egli bisogna che voi abbiate pazienza e che con buon animo sopportiate la necessitá, perciò che ciò ch’è fatto non può esser che fatto non sia. Sapete bene che de la casa nostra Ottomanna l’antica costuma è che ne la creazione dei nuovo prencipe tutti i maschi del sangue ottomanno soffocare si sogliono, a ciò ch’un solo senza competitore resti signore, ché secondo ch’in cielo è uno Dio solo, cosí conviene che in questo nostro imperio sia solamente un imperadore. Perciò vi essorto e prego a rasciugar le lagrime e star di buona voglia, ché in luogo del morto Tursino vi sarò sempre ubidiente figliuolo. – E per meglio consolarla le soggiunse che ella domandasse ciò che voleva, perché mai non patiria repulsa di cosa che chiedesse, quantunque fosse grandissima. La donna, di passione e d’ira ardendo ed altro non bramando che poter in parte vendicar la morte de l’innocente figliuolo, cosí gli rispose: – Signore, se tu vuoi che io ti creda ciò che mi dici, dammi in poter mio questo scelerato micidiale Mosè, ch’io ne faccia ciò che piú m’aggradirá. – A pena ebbe la sua domanda la donna compíta, che il perfidissimo tiranno comandò che a Mosè fosser legate le mani e i piedi e dato in poter de la donna, non avendo riguardo che l’infelice Mosè era sin da fanciullo seco nodrito, e che comandato gli aveva che strangolasse Tursino. Lieta la donna del ricevuto dono e colma d’ira, con un coltello che a lato aveva, a la presenza di Maometto cominciò a svenar il misero Mosè, il quale chiedeva con lagrimose voci aita e mercé al suo signore. Ella col coltello avendolo in piú luoghi ferito e lacerato, al fine nel core fieramente lo trafisse. Dapoi apertogli il destro lato, gli cavò il fegato e gittatolo per ésca a’ cani, alquanto la dolente donna s’acquetò. Stette sempre Maometto presente e tacito a sí fiero spettacolo. Fatto poi pigliar il corpo di Tursino, quello insieme con Amurato suo padre con funebre e regia pompa fece sepellire, facendolo portar a la sepoltura in braccio al padre. Aveva Amurato un’altra moglie, figliuola di Sponderbeo, nobile e ricco signore: da questa ebbe un figliuolo nomato Calapino, che era di sei mesi quando Amurato morí, e prima che morisse, molto a Calí basciá lo raccomandò. Calí, convenutosi con la madre, ebbe modo d’aver un figliuolino de la medesima etá del vero Calapino, e prima mandato Calapino a Costantinopoli, offerse a Maometto il suppositizio e finto Calapino. Maometto, creduto che fosse il fratello, subito lo fece strangolare e poi onoratamente sepellire. Il vero Calapino al tempo de l’assedio di Costantinopoli fu celatamente condotto a Vinegia, e poi ad instanzia di Calisto sommo pontefice menato a Roma e tenuto molto tempo in palazzo. A la fine convertito a la fede nostra, si battezzò e gli fu posto nome Calisto Ottomanno. Morto papa Calisto, egli si ridusse ne la Magna sotto l’ombra di Federico terzo imperadore, dal quale fu graziosamente ricevuto e di buone rendite provisto, e sempre dimorò in Austria a Vienna. Fu uomo molto quieto e ne le lettere greche assai ammaestrato e ne le latine. Ed essendo giá vecchio, prese per moglie una bellissima e nobilissima giovane di Hohenfel; ma devendo far le nozze, infermò e morí e fu sepolto in Vienna. La giovane non si volendo piú maritare, entrò in un monastero e si fece monaca. Ma tornando a le crudeltá di Maometto, non contento il perfido tiranno de le morti dei fratelli e d’un suo compagno nodrito seco fin da la fanciullezza, avendo fermato il piede ne l’imperio, cominciò ad incrudelire contra molti suoi cortegiani e baroni. È notissima e da molti eccellenti scrittori divolgata la crudeltá che egli usò ne la presa di Costantinopoli e di molti altri luoghi da lui espugnati; ma non è meraviglia se fu crudele e sanguinario contra i nemici su la guerra, se anco contra i suoi e che da lui meritavano essere guiderdonati, senza cagione alcuna fu crudelissimo. Aveva, come giá s’è detto, Amurato fin da la fanciullezza dato Calí basciá per governatore a Maometto, il qual Calí era di nazion turca, uomo di grandissima esperienza ed i cui progenitori per molti secoli sempre erano ai tiranni ottomanni stati accetti e fedelissimi ed appo la nazione turchesca in grandissimo prezzo. Per questo avendolo Amurato conosciuto per lunga esperienza uomo da bene e grandemente affezionato al sangue ottomanno, l’aveva dato al figliuolo per governatore, e quando fu vicino a la morte comandò ad esso Maometto che né piú né meno avesse sempre in riverenza Calí ed a quello ubidisse come a proprio padre. Ma lo scelerato e piú che barbaro tiranno, acquistato che ebbe l’imperio costantinopolitano, subito deliberò di voler incrudelir contra Calí suo tutore, il quale giá vecchio non poteva lungamente vivere. Egli s’era contra lui forte sdegnato perciò che ne la guerra contra gli ungari era stato autore di rivocar Amurato a ripigliar l’imperio, e sempre il suo sdegno s’aveva serbato chiuso nel petto. Ma io dirò come mi dicevano quei turchi che mi narrarono queste sue crudeltá, cioè che questo sdegno non fusse la total cagione de la rovina di Calí, ma che le sue ricchezze fossero quelle che lo fecero morire. Egli era il piú ricco uomo che fosse sotto il dominio del Turco. Maometto che era avarissimo e de la roba altrui piú bramoso che l’orso del mele, non potendo aspettar che Calí morisse rotto e consumato dagli anni, gli impose che sempre era stato fautore de l’imperadore di Constantinopoli e che ad Amurato aveva dissuaso che non facesse l’impresa contra esso imperadore, da quello con gran somma di danari corrotto. Impostagli questa calunnia, fece pigliar il povero vecchio e prima con varii e crudelissimi tormenti, standoli di continovo presente, lo fece miseramente lacerare, ed in ultimo, essendo Calí quasi morto, gli fece dal petto strappar il core e ne la via publica gettar il corpo; e non volle che fosse sepellito, ma tirato come una morta bestia fuor de la cittá e lasciato per ésca a le fiere. Poi in un subito privato i figliuoli di Calí de l’ereditá paterna e di quella insignoritosi, cacciò da la corte e da’ suoi servigi tutti i parenti di Calí. Era in corte un giovine il quale aveva nome Maometto, molto dal tiranno amato sí perché era con lui allevato ed altresí perché era giovine industrioso e pratico de la milizia turchesca. Fu figliuolo costui di padre e madre cristiani. Il padre era triballo, che oggi sono bulgari, e la madre costantinopolitana. Costui era sovra modo insolente e superbo. Fu adunque dal tiranno in luogo di Calí sustituto, e non solamente ebbe la cura degli esserciti occidentali che si fanno tutti de le genti d’Europa, ma aveva il carico di tutti gli affari di grandissima importanza, e dove era maggior periglio e piú difficultá, sempre era intromesso. Egli, simile al tiranno, era simulatore e dissimulator eccellente, avveduto sovra modo, astuto, pronto di mano e provido di conseglio, ed in molte imprese aveva tal saggio dato di sé che appo tutti si trovava in estimazion grandissima, di modo che ’l signore sommamente mostrava d’amarlo e l’aveva fatto ricchissimo. Ora parendogli poter del suo padron disporre come piú gli piaceva, deliberò, se possibil era, di schiavo divenir libero, ché ancora che sin da fanciullo avesse rinegato la fede cristiana e fosse stato secondo il costume turchesco circonciso, nondimeno ancora non aveva conseguita la libertá. Fatta questa diliberazione, apparecchiò un desinar molto sontuoso ed a la foggia lor tanto abbondante di vivande dilicatissime e d’ogni sorte che dava la stagione, quanto avesse potuto far apparecchiar il medesimo signore. Fatto l’apparecchio, invitò l’imperadore, il quale accettò l’invito e v’andò a desinare. Dopo che si fu mangiato e bevuto assai piú del devere, perché al bere il tiranno non servava legge maomettana, ma trangugiava ed incannava tanto vino che bene spesso s’inebriava, parendo al servo poter ottener dal signore l’intento suo, con accomodate parole gli espose il desiderio che aveva d’esser libero, supplicandolo umilmente che piú tosto volesse usar l’opera di lui libero che servo. E conoscendo l’ingordigia ed avarizia de l’imperadore, gli fece portar dinanzi cinquanta mila ducati d’oro in oro. Udita questa domanda, il crudelissimo tiranno entrò in tanta còlera e sí accese in lui l’ira che, dato di mano ad un assai grosso e noderoso bastone d’olmo, non avendo rispetto che colui seco era stato da fanciullo nodrito e che era capitano famoso e per molte vittorie illustre, quello buttò furiosamente per terra e cominciò con gran fierezza a sonarlo col bastone dandogli mazzate da orbo, e tanto lo percosse e ripercosse e sí gli fiaccò la schiena, che egli si sentiva non poter piú muover le braccia e con i piedi lo percoteva. Il misero servo tutto pesto e mezzo morto teneva pur gridato: – Signor mio soprano, io sono e sarò sempre tuo schiavo e con tutto il core ti ringrazio del conveniente e degno castigo che al mio peccato dato hai, perché conosco che io maggior supplizio meritava. – Simil crudeltá anzi maggiore usò il perfido tiranno contra alcuni giovanetti tenuti da lui in luogo di femine, i quali pareva che amasse piú che gli occhi suoi. Questi poveri fanciulli avevano bevuto del vino che al signor era avanzato, il che da lui inteso, gli, fece tutti senza pietá alcuna crudelmente morire. Con questa sua inudita crudeltá si rese a tutti i sudditi suoi cosí terribile che ciascuno di lui tremava. Molti ne fece morire per levar lor la roba, altri ammazzò per torgli le mogli, e per ogni minima occasione comandava che uno fosse ucciso. E se il carnefice sí tosto come averebbe voluto non si trovava o non veniva, egli con le proprie mani faceva l’ufficio di manigoldo. Aveva fatto questo scelerato tiranno uno splendidissimo convito ai suoi basciá e primi uomini dopo la presa di Costantinopoli, e ne l’ardore del convivare comandò che gli fosse menato dinanzi Rireluca con dui suoi figliuoli che erano prigionieri, fatti cattivi ne la presa di Costantinopoli. Come gli furono avanti, fece tagliar per mezzo e spaccar il maggior figliuolo come si suol far un porco. Pensate che animo era quello del misero Rireluca veggendo il suo maggior figliuolo nel suo cospetto a quel modo ucciso. Il minor figliuolo, perché era fanciullo e bello, volle Maometto che si mettesse nel serraglio e si serbasse ai suoi illeciti e disonestissimi appetiti. Poi comandò che il padre fosse strangolato. Io non so certamente che conviti e banchetti fossero questi suoi, e meravigliomi senza fine come quei suoi satrapi potessero tanta crudeltá sofferire. Ma che dirò io de la crudeltá ch’egli usò contra David Comneno imperadore di Trapezunte che Trebisonda si chiama? Fu David, perduto l’imperio, con dui figliuoli e tutti i primi baroni e gentiluomini di Trebisonda condutto prigione a Constantinopoli e quivi alcuni giorni tenuto in misera prigionia. Dopo non molto tempo Maometto, un giorno dopo desinare, comandò che l’imperadore di Trebisonda con i figliuoli ed altri prigioni gli fosse menato avanti, e cosí tutti a la sua presenza fece tagliar a pezzi. Il medesimo fece del signor Francesco Gattalusio di nazione genovese, il quale possedeva e signoreggiava l’isola di Lesbo che oggidí si chiama Mettelino, ché avendo tutte le fortezze de l’isola debellate e preso prigione esso Gattalusio e molti altri, gli fece menar a Costantinopoli e tutti crudelmente morire. Ma se io vorrò tutte le crudelissime crudeltá di questo fierissimo tiranno annoverare, prima il giorno è per mancarmi che io ne possa venir al fine, perciò che ancora nel sangue ottomanno non è stato prencipe nessuno, ben che ce ne siano stati di crudelissimi, che Maometto di gran lunga tutti avanzati e superati non abbia. Egli si persuase non esser Dio alcuno: si beffava de la fede dei cristiani, sprezzava la legge giudaica. e nulla o ben poco stimava la religione maomettana, perciò che publicamente diceva che Maometto, quel falso profeta, era stato servo cirenaico, ladrone ed assassino di strada, e con ferite in faccia cacciato di Persia con grandissima sua vergogna, di modo che non ci era setta alcuna che da lui non fosse sprezzata. Ora tornando al nostro primo parlare, vi dico che non è gran meraviglia se il saluzziano usò sí fiera crudeltá contra il capitano Zagaglia, perciò che costume fu sempre dei tiranni d’esser crudelissimi.


Il Bandello al molto illustre e valoroso signore


il signor Cesare Fregoso cavaliero de l’ordine del re cristianissimo


Suole assai sovente, signor mio splendidissimo, il mal regolato appetito de la vendetta, mischiato col zelo de l’onore, indurre l’uomo a perigliosi e strabocchevoli accidenti, perciò che per l’ordinario nessuno ingiuriato, s’ha punto di sangue nei capelli, si contenta render a l’ingiuriante l’offesa che bramava fargli, uguale a l’ingiuria o danno ricevuto, ma rendergliene a buona derrata il doppio si sforza, facendo nel vendicarsi molto del liberale, anzi, per dir meglio, del prodigalissimo. Si vede ancora alcuno di vil condizione offeso da grandissimi uomini, non si curar di porsi a mille rischi di morire, pur che imaginar si possa in parte alcuna vendicarsi. Indi in molti luoghi d’Italia e altrove abbiamo veduto e udito raccontar infiniti omicidii e rovine di nobilissime famiglie. E questo credo io che avvenga perciò che l’appetito de la vendetta che par cosí dolce, a poco a poco tira l’uomo fuor dei termini de la ragione e in modo l’ira accende che, accecato l’intelletto, ad altro non può rivolger l’animo che a pensar tuttavia come offender possa il suo nemico, né mai riflette la considerazione a tanti e sí diversi perigli che tutto ’l dí occorrer si vedeno. Avviene anco il piú de le volte questo accecamento de l’intelletto, perché impregionata la ragione, lasciamo al dissordinato nostro appetito pigliar il freno in mano de le nostre mal considerate azioni. Onde ingannati da le proprie passioni che ci dipingono il nero per il bianco ed il bianco per il nero, andiamo come cechi a tentone brancolando qua e lá e non sappiamo ritrovar il mezzo in cui consiste la vertú, e per il piú de le volte tanto andiamo errando che ci accostiamo agli estremi che sempre sono viziosi, ed invece di congiungerci a la vertú, abbracciamo il vizio. Cosí avviene che il giudicio nostro, trovandosi infetto ed ammorbato, non sa discernere né elegger ciò che sia il meglio da operare e quasi sempre s’appiglia al suo peggio. Per questo veggiamo tutto il dí esser molto piú di numero coloro che dietro al vizio s’abbandonano che non sono quelli i quali seguitano la vertú, tanta è la difficultá di ritrovar la stanza de la vertú. E nondimeno deverebbe ciascuno con ogni diligenza e con ogni sforzo effettuosamente cercar il vero e buon camino e non si sbigottire né spaventar per fatica che ci sia, ma andar animosamente innanzi e non piegar né a la destra né a la sinistra, perciò che la fatica che si sopporta a voler operar vertuosamente è degna d’ogni lode e si converte in grandissima gioia, e maggior gloria s’acquista ove è maggior contrasto e piú difficultá. Non si sa egli che la vertú consiste circa le cose difficili? Deverebbe adunque da noi la vertú esser sempre seguíta, diligentissimamente ricercata, riverita, amata e santamente abbracciata; il che se si facesse come si deverebbe, senza dubio veruno ci dilungaremmo dagli estremi e ci avvicinaremmo al mezzo, e cosí l’azioni nostre sarebbero vertuose. Ma come dice il leggiadro toscano,


infinita è la schiera degli sciocchi.


Perciò non mi rincrescerá mai usurpar tutto il dí ed anco scrivere una bellissima sentenzia, che sovente volte ho udito dire al glorioso e chiarissimo lume del sangue italiano, il signor Prospero Colonna, la cui memoria sempre sará con riverenza e degnissime lodi ricordata. Diceva adunque il savio signore che la differenza che è tra il saggio ed il pazzo è cotale, che il pazzo fa sempre le cose sue fuor di tempo ed il savio aspetta il tempo oportuno. E chi dubita che come una cosa è fatta fuor di tempo non può esser buona? Come voi, signor mio, sapete, s’entrò in questo ragionamento essendo venuta la nuova de la morte del capitan Zagaglia d’Arimini, essendoci di quelli che per vendicar quella crudel morte volevano far certa impresa, la quale da voi non essendo approvata, non si pose altrimenti in essecuzione. E dopo molti ragionamenti, avendo Ferrando da Otranto narrato molte crudeltá crudelissime che giá usò Maometto, di questo nome secondo imperadore de’ turchi, e ritrovandosi a parlar de le vendette che bene e male si fanno, furono molte cose dette, essendo il conte Guido Rangone vostro cognato e voi ritirati ne la camera. Il signor Pier Francesco Noceto conte di Pontremoli, che era restato in sala, disse che in effetto non era dubio che chiunque desidera di far alcuna vendetta, maturamente deverebbe considerar la qualitá e forze del nemico e non si voler cavar un occhio per cavarne dui al compagno. Alora entrò in mezzo dei ragionari Girolamo Giulio Franco cittadino genovese e narrò il modo che tenne un gentiluomo di Genova in far una sua vendetta. Piacque a tutti meravigliosamente sentir simil novella e fu molto commendato l’animo del genovese. Essa istoria avendo io scritta, al generoso vostro nome ho intitolata, parendomi che per ogni rispetto piú a voi convenga che ad altri, sí perché essendo io fattura e creatura vostra, le mie cose ragionevolmente deveno esser piú vostre che mie, ed altresí che chi la narrò insieme con il vendicatore è de la patria vostra di Genova. Degnate adunque con quella grandezza e cortesia de l’animo vostro, conforme al nome che avete, accettarla, come mi persuado, la vostra mercé, che farete. State sano.